M. Serra - Gli sdraiati

17.06.2014 16:45
Categoria: LETTURE ESTIVE

Ma dove cazzo sei?

Ti ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai. Il tuo cellulare suona a vuoto, come quello dei mariti adulteri e delle amanti offese. La sequela interminata degli squilli lascia intendere o la tua attiva renitenza o la tua soave distrazione: e non so quale sia, dei due "non rispondo", il più offensivo.
Per non dire della mia ansia quando non ti trovo, cioè quasi sempre. Ho imparato a relegarla tra i miei vizi, non più tra le tue colpe. Non per questo è meno greve da sopportare. Ogni sirena di ambulanza, ogni riverbero luttuoso dei notiziari scoperchia la scatola delle mie paure. Vedo motorini schiantati, risse sanguinose, overdosi fatali, forze dell'ordine impegnate a reprimere qualche baldoria illegale. Leggo con avidità masochista le cronache esiziali del tuo branco, quelli schiacciati nella calca dei rave party, quelli fulminati dagli intrugli chimici, quelli sgozzati in una rissa notturna in qualche anonimo parcheggio di discoteca, quelli pestati a morte da gendarmi indegni della loro divisa.
Una fragilità materna, non preventivata, rammollisce il mio aplomb virile. Mi rendo conto di sommare le due debolezze: la smania protettiva della Madre, le pretese di rettitudine del Padre. Mi vedo soccorrerti e contemporaneamente sgridarti, caricatura schizofrenica dell'autorità.
(Autorità: attorno a questa parola organizzo, da quando sei nato, convegni tanto pomposi quanto inconcludenti. Ciascuno dei relatori ha la mia faccia, è un'assemblea dei miei cocci intellettuali che cercano la perduta unità, ciascuno rinfacciando agli altri la loro insipienza. Titolo ideale di questa farraginosa convention dovrebbe essere: "Quante volte invece di mandarti a fare in culo avrei dovuto darti una carezza. Quante volte ti ho dato una carezza e invece avrei dovuto mandarti a fare in culo".)
L'unica certezza è che sei passato da questa casa. Le tracce della tua presenza sono inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all'ingresso è una piccola cordigliera di pieghe e avvallamenti. La sua onesta forma rettangolare, quando entri o esci di casa, non ha scampo: è stravolta dal calco delle tue enormi scarpe, a ogni transito corrisponde un'alterazione della forma originaria. Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani, sono rivoltati da ogni tuo singolo passo.
Almeno tre dei quattro angoli sono rivoltati all'insù, e un paio di grosse pieghe ondulate, non parallele tra loro, alterano l'orizzontalità del tappeto fino a conferirgli il profilo naturalmente casuale della crosta terrestre. In inverno tracce di fanghiglia e foglie secche aggiungono avventurose varianti di Land Art alle austere decorazioni geometriche del kilim. D'estate il disastro è più lindo, meno suggestivo rispetto al trionfo invernale. Ma la scarpa che imprime e svelle è sempre la stessa: tu e la tua tribù avete abolito sandali e mocassini in favore di quegli scafi di gomma imbottita che vi ingoiano i piedi per tutto l'anno, nella neve fradicia come nella sabbia arroventata. L'orbita della Terra attorno al Sole vi è estranea, vi vestite allo stesso modo quando soffia il blizzard e quando il sole cuoce il cranio, avete relegato il tempo atmosferico tra i dettagli che bussano vanamente sulla superficie del vostro bozzolo.
In cucina il lavello è pieno di piatti sporchi. Macchie di sugo ormai calcinate dal succedersi delle cotture chiazzano i fornelli. Questa è la norma, l'eccezione (che varia, in festosa sequenza) è una padella carbonizzata, o il colapasta monco di un manico, o una pirofila con maccheroni avanzati che produce le sue muffe proprio sul ripiano davanti al frigo: un passo ancora e avrebbe trovato salvezza, ma la tua maestria nell'assecondare l'entropia del mondo sta esattamente in questo minimo, quasi impercettibile scarto tra il "fatto" e il "non fatto". Anche quando basterebbe un nonnulla per chiudere il cerchio, tu lo lasci aperto. Sei un perfezionista della negligenza.
Più di un posacenere, in giro per la casa, rigurgita di cicche. Spero non solo tue. Dalla piccola catasta è tracimata qualche unità ribelle, rotolata sul tavolo o caduta per terra. Scaglie di cenere ornano specialmente il divano, tuo habitat prediletto. Vivi sdraiato. Tranne che in cucina, dove domina il puzzo di rancido, la casa è impregnata del tanfo di sigaretta spenta, e perfino a me, che fumo, pare impossibile classificare quella cappa mortifera come il residuo di un piacere. Il tabagista più irrecuperabile dovrebbe venire qui un paio di volte alla settimana, respirare con quello che gli resta dei polmoni quest'aria combusta e melmosa. Si redimerebbe.

Michele Serra
Gli sdraiati
Feltrinelli, 2013, pag. 112