G. Caramore - Pazienza

17.06.2014 16:26
Categoria: LETTURE ESTIVE

Introduzione
L'età dell'impazienza

Ci sono due peccati capitali dell'uomo, da cui derivano tutti gli altri: impazienza e inerzia. A causa dell'impazienza sono stati cacciati dal paradiso, a causa dell'inerzia non vi tornano. Forse però c'è un solo peccato capitale: l'impazienza. A causa dell'impazienza sono stati cacciati, a causa dell'impazienza non tornano.
F. Kafka, Aforismi di Ziirau

Negli Aforismi, scritti a Ziirau, dove era ospite della sorella prediletta, Ottla, fra il settembre del 1917 e l'aprile del 1918, Franz Kafka non si preoccupa, come del resto in ogni altra sua pagina, di una coerenza del pensiero. È nella folgorazione di un'immagine che si realizza la conoscenza. Un lampo sembra illuminare le sue notti febbrili, concedendogli il privilegio di una visione. Un altro lampo gli schiuderà una diversa visione. Di frammento in frammento, si stratifica così quell'edificio di complessità, quell'amalgama di intuizioni feroci e di immagini in fuga che fanno di Kafka l'autore che ha inaugurato pienamente la narrazione dell'inesprimibile nel nostro tempo.
Qui, nell'aforisma appena riportato, l'accento del dramma cade sull'impazienza. Anticipato da quello immediatamente precedente, che prende la forma di un implacabile verdetto: «Tutti gli errori umani sono impazienza. Una prematura interruzione della metodicità, una recinzione apparente della cosa apparente».
L'impazienza brucia i passaggi. Non consente costruzione, impedisce di articolare un cammino che si sviluppi passo dopo passo, imprigiona ciò che, forse, potrebbe portare al «paradiso». A causa di un desiderio, che ha preteso immediata soddisfazione, gli esseri umani sono stati cacciati dal paradiso. Per un attimo, nel primo degli aforismi citati, Kafka sembra pensare che è a causa dell'inerzia – di un'assenza di desiderio, di una lentezza nei movimenti – che non vi fanno ritorno. Ma poi prende il sopravvento l'immagine della potenza distruttiva dell'impazienza: non riuscire a fermarsi sulle cose, non patire con loro il tempo necessario, non vivere il rischio dell'attesa. Questo è impazienza. Questo è il «peccato capitale».
Ma, appunto, i pensieri di Kafka non si ergono a sistema. Squarci di luce illuminano la scena per un attimo, e neppure pienamente, ma lasciando molte zone d'ombra, angoli di chiaroscuro. Altrove, il quadro che ci viene proposto è completamente diverso. Nel racconto Davanti alla legge, scritto pochi anni prima, nel 1914, è un eccesso di attesa ad essere messo sotto accusa. Il protagonista, un «uomo di campagna», si attrezza per sostare a lungo davanti alla porta della Legge. Quella porta, in realtà, non è chiusa. Ma l'uomo si lascia distrarre, non pretende di oltrepassarla, non forza la situazione. Si limita a porre qualche domanda al guardiano, «risolve di attendere finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello, e lo lascia sedere da un lato, presso la porta. Là resta seduto per giorni, e per anni». Non gli viene in mente di prenderselo, quel permesso; non immagina che quel permesso, forse, è un suo diritto; che, addirittura, quella porta attraverso cui si accede al luogo della Legge, il cui ingresso per lunghi anni nessuno aveva chiesto di varcare, era destinata a lui soltanto. E nel momento in cui – troppo tardi – lo apprende, il guardiano chiude i battenti, e per sempre. «Nessun altro poteva passare di qui, perché questa entrata era destinata a te soltanto. Ora vado a chiuderla».
Un eccesso di pazienza – l'assenza di curiosità, di impeto, di pretesa – può perdere per sempre la vita di un uomo.
Franz Kafka ha visione del dramma della pazienza. E ha visione del dramma dell'impazienza. Mostra ciò che vede, come in una profezia visionaria. Dà voce a entrambe le prospettive, ne custodisce le angolature nascoste.
Sarà così che parleremo della pazienza. Considerandola certamente una virtù, ma anche corruzione. Benedizione, ma anche dannazione. Ogni virtù può degradare in vizio. Già gli antichi, del resto, lo vedremo, mettevano in guardia da una considerazione senz'ombra della pazienza. Ne coglievano i limiti, le possibili nervature negative, le declinazioni nefaste. Ma anche la prossimità al coraggio, la grandezza della sua misura.
Proveremo a scomporre le trame sottili di questa «virtù», e ci chiederemo se la si possa chiamare davvero così, e che cosa possa significare, oggi, parlare di «virtù». Proveremo a risalire all'indietro, verso le origini più remote di questa parola, di questa attitudine d'anima, ma per ascoltare il timbro che essa può acquistare oggi, in mezzo al chiasso di parole più attuali, più vistose, più sonore. Sapendo anche che il lavoro etimologico – sull'origine e la storia delle parole – ha indubbiamente una sua potenza chiarificatrice. Ma sapendo anche che neppure il più operoso affaticarsi su un etimo potrà davvero esaurire il percorso di una parola. Che nasce già da una gemmazione plurima, si ibrida, progressivamente, di diverse colorature, sonorità, sapori, si spande in mille rivoli, sotterranei o di superficie, si affaccia su sponde di differenti culture, conosce mutazioni, sussulti, nascondimenti, morti, rinascite. Troppo facilmente, nel costume critico del nostro tempo, si indulge nell'uso un po' tronfio della spiegazione etimologica, come se rintracciare l'origine di una parola potesse risolvere la complessità dei percorsi, la pluralità dei sensi di ogni espressione linguistica.
Ogni parola è, di per sé, tremula e mutevole interpretazione di un mondo. Come pretendere di fissarla in un significato? Ogni parola è già, di per sé, scelta, commento, esegesi: un corpo vivo che non si lascia comprendere e costringere per intero. Si può procedere solo per avvicinamenti, approssimazioni, tentativi. Si deve provare, certamente, a dar conto del cumulo di significati ammassati l'uno sull'altro nel corso della storia. Ma alla fine ci si dovrà arrendere di fronte alla nudità della parola, coglierne la sporgenza sul rumore del tempo presente. Così, forse, sarà possibile percepirne una modulazione nuova.
Potremo allora chiederci: che cos'è, oggi, «pazienza»? Siamo ancora capaci di ospitare quella qualità della durata a cui diamo il nome di «pazienza»? Non sembra esservi dubbio: viviamo in un'epoca veloce, tanto che anche i secoli diventano «brevi» per la corsa che instaurano col tempo.
La pazienza esige una dilatazione del presente, un suo allungamento, una sosta nell'incessante divenire. Occorre fare pausa, per essere pazienti. Fare tregua. La pazienza reclama che il tempo ordinario sospenda il suo corso, smetta di fluire, entri in un vigile sonno. È capace di questo la nostra epoca convulsa, distratta, frettolosa, in cui ognuno di noi si sente spinto a fare presto, procedere spedito, agire in simultanea su fronti diversi, dare inizio a un procedimento senza attenderne l'esito? In cui troppa vastità di saperi rende difficoltoso il conoscere, in cui troppa facilità di connessione rende arduo l'incontro, in cui troppo mondo, affacciato sulle nostre vite, mette in affanno le relazioni? Viene, certamente, il sospetto che il nostro tempo sia radicalmente inospitale verso la pazienza.
Forse neppure ne avvertiamo il bisogno.
E forse, davvero, «pazienza» è parola inattuale, antica, in disarmo.
Non da ora, peraltro.

Gabriella Caramore
Pazienza
Il Mulino, 2014, pagg. 136