F. Pecoraro - La vita in tempo di pace

17.06.2014 17:02
Categoria: LETTURE ESTIVE

Ivo Brandani era perseguitato dal senso della catastrofe. La vedeva in ogni iniziativa di trasformazione della realtà, in ogni edificio (che può crollare), in un aereo in volo (che può precipitare), in un'automobile in corsa (che può sbandare), in una presa di corrente (che può andare in corto), in una pentola sui fornelli (rischio di incendio), in un bicchiere d'acqua (che può rovesciarsi), in un uovo fresco (che può rompersi): tutto ciò che sta in piedi può cadere, tutto ciò che funziona può smettere di farlo. Anzi, prima o poi avrebbe smesso di farlo, questo era sicuro. Ma come si sarebbe potuta evitare, quella catastrofe? Era un evento molto lontano nel tempo, non avrebbe dovuto importargliene. Invece gliene importava.
Quelle genti non si era mai saputo bene chi fossero, né da dove fossero venute, né con precisione quando, né perché. Si sapeva solo che erano una secrezione etnica dell'Asia Centrale. Qualcuno aveva addirittura sostenuto che fossero nient'altro che greci che avevano cambiato religione e costumanze. Di sicuro si sapeva che un paio di secoli dopo la loro prima comparsa sulle sponde del Mediterraneo avevano preso Costantinopoli. E questo per lui era inaccettabile. Del resto, a partire dal 29 maggio del 1453, in ogni generazione umana sono esistite persone che non riuscirono a farsi una ragione della caduta di Bisanzio. L'ingegner Ivo Brandani era tra queste.
Noi tutti ci aspettiamo dai tecnici solo quei sani pragmatismi e positivismi che consentono agli ignoranti, come agli intellettuali puri, di prendere un aereo, di percorrere un ponte in automobile, di salire su un treno, una nave, con ragionevoli probabilità di non lasciarci la pelle. I tecnici fanno sì che esistano oggetti chiamati case, ponti, aerei, treni, gallerie, razzi, satelliti e stazioni spaziali, automobili, computer eccetera e noi li vogliamo simili ai loro ritrovati, conformi all'oggetto delle loro attenzioni. Li vogliamo disincantati e attenti, neutrali rispetto alle cose della politica, anche se li immaginiamo difficili da ingannare, perché propensi alla verifica e restii a dare più importanza alle parole che ai fatti. I tecnici li vogliamo non-sofisticati, meglio se un po' ignoranti. Insomma ci fidiamo di più se sembrano distaccati e un po' ottusi, se gli vediamo in mano un giallo piuttosto che un libro di poesie. Non ci aspettiamo da un ingegnere ossessioni e risentimenti come quelle che abitavano nella mente di Ivo Brandani.
Quando per la prima volta era stato a Istanbul per lavoro gli era capitato di entrare in una piccola moschea a ridosso delle mura sul Mar di Marmara. Sulla carta era indicata come Kucuk Aya Sofya Camii, che tradotto in inglese era Small Ayasofya Mosque, ma sulla sua guida risultava anche come SS. Sergio e Bacco. Si trattava di una chiesa bizantina poi trasformata in moschea, che, non ostanti i suoi millecinquecento anni, le diffuse iscrizioni coraniche sulle pareti intonacate di bianco e una probabile ripulitura iconoclasta da ogni immagine e mosaico precedente, sembrava ancora ben conservata.
“Ha millecinquecento anni! Millecinquecento!” si ripeté Ivo, cercando di afferrare il concetto. Faceva così ogni volta che era alle prese con una grandezza non figurabile: centomila tonnellate, quattrocento chilometri cubi, trecentomila chilometri al secondo... «L'impianto planimetrico» diceva la guida, «e in generale tutta la struttura dell'edificio si ispirano a Santa Sofia». Brandani ebbe subito la sensazione che qualcosa non andasse, poi, salito al matroneo e affacciatosi alla balconata, provò una specie di fastidio fisico, un dolore come quando ti premono con le dita dietro le orecchie: eccole lì, sotto i suoi occhi, la Resa, la Sopraffazione, la Sottomissione, l'Espropriazione, la Cancellazione, la Sostituzione...
Da lassù si vedeva chiaramente la torsione degli assi di simmetria cui era stato sottoposto l'edificio, l'espianto culturale subìto da quella chiesa e dalla città tutta. Le fasce di allineamento per le prosternazioni, impresse sul tappeto azzurro che copriva interamente il pavimento, erano disposte nella direzione della Mecca, indicata dalla nicchia del mihrab, con un andamento del tutto autonomo rispetto alla simmetria bilaterale della chiesa, confermato dalla posizione incongrua del minbar, il pulpito. L'edificio tutt'intorno non contava, era un puro accidente riadattato, contava solo il centro lontanissimo di emanazione dell'Islam, la Kaaba. In tutto questo c'era della poesia, ma quella chiesa non era stata costruita per accoglierla.
Quella sensazione di perdita irreparabile, sul momento così acuta, Brandani fece presto a dimenticarla, finché non si ripresentò anni dopo, durante la lettura della vicenda della caduta di Bisanzio in un libro di Stefan Zweig, scrittore austriaco che conosceva poco, anzi per niente. Un amico gli aveva regalato Momenti fatali: a pagina 41, il racconto La conquista di Bisanzio iniziava così:
115 febbraio 1451 un messaggero segreto si reca in Asia Minore dal primogenito del sultano Murad, il ventunenne Mehmet, per comunicargli la notizia della morte di suo padre.

Francesco Pecoraro
La vita in tempo di pace
Ponte alle grazie, 2014, pagg. 512