A. Polito - Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli

17.06.2014 16:49
Categoria: LETTURE ESTIVE

Sindacalisti dei nostri figli

Mezzo secolo dopo il «familismo amorale», studiato in un paesino della Basilicata dal sociologo americano Edward Banfield in un celebre saggio del 1958 e descritto come la «base morale di una società arretrata», è ancora una maledizione del nostro Paese, una tabe culturale che ne frena lo sviluppo e la modernizzazione. L'imperativo categorico del familismo amorale, che negli ultimi tempi non ha esitato a farsi spesso immorale, è il seguente: «Massimizzare i vantaggi materiali e immediati della propria famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo».
L'accordo tacito su cui si regge l'Italia è proprio questo: io proteggo i figli miei e lascio che tu protegga i figli tuoi. Ne è scaturito un sistema di microcorporazioni familiari, un gioco di società in cui perdono tutti e non vince nessuno (se non giocando fuori dalle regole, cioè imbrogliando). In questi cinquant'anni, dilapidando il benessere accumulato col miracolo economico postbellico, abbiamo costruito un modello sociale ed economico tutto teso a rendere la vita facile ai nostri ragazzi. Il risultato è stato quello di appesantire così tanto la macchina Italia da farla affondare nelle sabbie mobili della bassa crescita e della bassa occupazione, proprio a scapito delle nuove generazioni. In nome dei nostri figli, li abbiamo rovinati.
Ricapitoliamo il catalogo dei «diritti» che abbiamo troppo generosamente riconosciuto loro. I nostri ragazzi hanno diritto a essere fuori corso all'università anche dopo i 28 anni, e se un giovane professore (Michel Martone) li definisce per questo «sfigati» gli si scatena contro la furia della stampa perbenista e progressista che subito lo bolla come «raccomandato di ferro» perché lui, invece, a 29 anni era già diventato ordinario. Però a 28 anni hanno anche diritto a un posto di lavoro stabile e adeguato alle loro aspirazioni, possibilmente inamovibile e a vita, perché il mantra paternalista si fa scudo di una lettura di comodo della Costituzione e trasforma il diritto al lavoro nel diritto a un lavoro. I nostri figli hanno inoltre il diritto di frequentare una facoltà universitaria che si trovi nel raggio di venti chilometri da casa, così che non debbano vivere lontani dagli affetti e dal welfare familiare, e possano evitare di fare quei mcjobs (commessi, camerieri, pony express) che i loro più sfortunati e meno vezzeggiati coetanei americani sono costretti ad accettare temporaneamente per mantenersi agli studi.
Infatti i nostri figli non devono mantenersi agli studi, perché lo Stato chiede a ciascuno di loro soltanto tra i mille e i duemila euro l'anno di tasse universitarie, mentre ne spende in media settemila. Dunque a mantenerli ci pensa la fiscalità generale, cioè le tasse pagate anche da chi i figli all'università non li manda, magari perché non può, perpetuando così una gigantesca ingiustizia sociale nascosta sotto le mentite spoglie dell'egualitarismo. Frequentando l'ateneo sotto casa con comodo e senza fretta, perché guai a criticarli se ci si parcheggiano a vita, i nostri figli devono per forza anche avere diritto al valore legale della loro laurea, in modo che sia identico a quella di chi invece se l'è sudata un po' di più, magari emigrando, magari in meno anni, magari in un'università in cui i 110 non fioccano dal cielo, perché in una società fintamente egualitaria tutti i diplomi devono essere uguali come tutti i gatti di notte sono bigi, salvo poi scoprire che più sono uguali e più non valgono niente quando li si mostra in giro per cercare un lavoro. Se poi i nostri figli per caso volessero continuare la loro carriera universitaria dopo la laurea, hanno diritto a non farlo all'estero, lì dove fuggono i cervelli, ma in patria, li dove ammuffiscono i cervelli. Naturalmente hanno anche il diritto di protestare con cortei e occupazioni contro questo miserando stato di cose, e contro «chi ci ruba il futuro», «occupando» qua e là, dove capita, tra gli applausi e i gridolini di ammirazione dei contestati medesimi, perché in Italia guai a dar torto ai giovani, che per definizione hanno sempre ragione.
Questo elenco di «diritti» può apparire paradossale, e lo è, perché mentre li declamiamo e li accampiamo poi la realtà è ben diversa, e i nostri figli se la passano molto peggio di quanto noi pretenderemmo. Ma è ciò che si evince dal dibattito pubblico che si svolge intorno alla questione giovanile (nei rari momenti della storia patria in cui questo dibattito ha luogo).

Antonio Polito
Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli
Rizzoli, 2013, pagg. 154