Reginaldo Palermo

Roberto Maragliano, il desiderio di cambiare

Con questa intervista a Roberto Maragliano apriamo una serie di “chiacchierate” con studiosi ed esperti che, a vario titolo, sono stati testimoni importanti dei cambiamenti che hanno attraversato il nostro sistema scolastico negli ultimi 50 anni.

Si parla spesso degli anni ’70 come dell’età dell’oro della scuola italiana. Ma è davvero così?
Premetto che non rispondo da storico ma da testimone. In quanto esponente della generazione boomer ho vissuto direttamente quegli anni. Rifletterci ora, come mi si chiede, sottostà a due condizionamenti soggettivi: quel periodo l’ho vissuto nella mia età giovanile, quando generalmente si è proiettati a cambiare il mondo più che se stessi; diventati adulti, non è infrequente che sia il mondo a far cambiare idea a chi voleva cambiarlo. Fa fede lo Scaffale Maragliano. Le cose sono andate come sono andate ed è corretto, comunque, riconoscere che formule come quelle dell’età dorata, applicate alla scuola o alla società nel suo complesso, riflettono un’istanza di idealizzazione del passato che non può non essere intesa come prodotta da un meccanismo di difesa rispetto a quanto, del presente, crea turbamento.

Forse, però, quello fu un decennio carico di tensioni ideali...
Direi di sì; io ne vedo almeno due: una si scontrava con le durezze del presente, che non erano poche, l’altra poneva una grossa fiducia nel futuro. Non si capirebbe il senso di tale condizione se non si facesse lo sforzo di riconoscere che, allora, quello della scuola non era visto come problema locale, specifico, come da tempo ormai ci si è abituati a intendere, ma era vissuto come pedina fondamentale di un processo di trasformazione democratica dell’intera società.

Cioè, vuol dire che c’era un interesse diffuso verso i problemi della scuola?
Esattamente. Fare, dire, agire scuola non era un impegno specifico degli addetti ai lavori (come oggi) ma l’espressione di un bisogno sentito, sia pure in modalità diverse, dalla collettività tutta. Al di là delle diverse opzioni politiche e partitiche dentro un comune sentire pedagogico proiettato sul dinamismo sociale, frutto prezioso (e perlopiù dimenticato) della ‘svolta’ sessantottina, era data priorità concettuale e materiale ai giovani e alla spinta che essi esercitavano per aprire a tutti e con tutti le porte della scuola.

Ma c’era in quel periodo una maggiore attenzione della politica nei confronti della scuola?
Sì, come ho detto, si pensava alla scuola come questione generale. La sinistra di orientamento marxista ispirandosi a Gramsci, quella di orientamento socialista attingendo alla migliore tradizione attivistica, il cattolicesimo sociale facendo leva sulle tensioni utopistiche da cui sono scaturite due formule apparentemente così lontane tra di loro ma ugualmente ‘folli’ di una iperscolarizzazione alla don Milani e di una descolarizzazione alla Illich. Piuttosto, in quella fase viene a mancare, rispetto al periodo passato, l’apporto della cultura liberale di impianto laico, quella che aveva mostrato più interesse a capire come si stava trasformando la realtà economica e come la scuola avrebbe dovuto interagire col nuovo e non solo reagire ad esso.

Lei pensa che la “spinta partecipativa” di quella fase sia servita a sostenere i processi di riforma?
Certamente. Una riforma d’impianto era stata fatta, con la media, e la “partecipazione” servì a far capire che il processo innescato non avrebbe dovuto esaurirsi, ma che invece abbisognava di un continuo alimento non solo di idee, di suggestioni, di confronti ma anche di norme. E’ stata, quella, una stagione ricca di fermenti, inaugurata con la 820/1971 e proseguita con i decreti delegati del 1974 con la relativa apertura a quelle che erano chiamate “le istanze del territorio” e la messa a punto della legge 517/1977: casi pressoché unici, in tutta la storia repubblicana, di intervento normativo sui meccanismi interni dell’organizzazione del lavoro didattico, che hanno riflesso e incrementato l’attenzione collettiva per i temi dei contenuti, dell’integrazione, della programmazione, delle risorse librarie, destinati a crescere negli anni successivi, ma, ahimè, solo a livello di prima scuola. Né vanno dimenticati i programmi della media, varati nel 1979, e frutto di un impegno attivo, pluralistico, dialogico di soggettività che fino ad allora non erano state coinvolte nei meccanismi della progettazione pedagogica centralizzata.

Risale agli anni ’70 il binomio “scuola-territorio”, binomio che con il passare del tempo si è progressivamente appannato: è stata la scuola a tradire il territorio o viceversa?
Direi che se una responsabilità c’è stata, nell’appannamento del movimento della riforma scolastica in chiave di partecipazione, questa va ricondotta all’immaturità complessiva dell’elaborazione politica (partiti, sindacati, associazioni professionali, ecc.) che ha mostrato sia nella versione di sinistra, sia in quella di centro (oggi lo vediamo pure nella versione di destra) di non riuscire a coniugare massimalismo con riformismo. Il passaggio dalla poesia alla prosa dei decreti delegati (così chiamai allora il tema dell’attuazione della democrazia scolastica) fu, non ho difficoltà ad ammetterlo, qualcosa di penoso. Per tutti. Che si risolse con la vittoria, inizialmente parziale, ma che sarebbe diventata totale negli anni successivi, della cultura burocratica, ovvero di quella “banalità del bene” con cui l’apparato ministeriale si è messo, da allora in poi, nelle condizioni di accogliere, ammaestrare e ridimensionare ogni reale domanda di innovazione che potesse venire dal mondo della politica e dell’intellettualità nazionale o europea o internazionale.

Sono gli anni in cui esplode la “scolarizzazione di massa”, iniziata nel decennio precedente; tutto sommato il sistema resse bene, anche se era ancora piuttosto fragile. Oggi saremmo in grado di reggere un evento del genere?
Non sono convinto che il sistema abbia retto bene. Dipende da cosa si intende per ‘sistema’. Alla risposta precedente ho chiarito come la svolta della burocratizzazione dell’azione scolastica maturò proprio in quegli anni, nell’indifferenza (o forse con l’inconsapevole interesse) di tanti che, almeno a parole, puntavano su un cambiamento complessivo dell’impianto scolastico. E quella svolta servì ad attenuare il più grosso fallimento di cui la politica nazionale nel suo complesso si rese tragicamente responsabile in fatto di istruzione: ovvero la mancata riforma della scuola superiore.

In effetti, se si eccettua l’esame di Stato, la scuola superiore è rimasta quasi del tutto impermeabile a qualsiasi cambiamento per molto tempo…
Questo, ancora oggi, è il buco nero del sistema, l’autocondanna a dover soltanto patire gli effetti di tutto un mondo (economia, società, cultura, sensibilità) che non ha mai smesso di mutare e di muoversi in direzioni profondamente diverse da quelle inscritte in un sistema scolastico secondario, il nostro, di tipo centralistico, umanistico, manualistico, ereditato dall’Ottocento, parzialmente aggiornato nei primi del Novecento e mantenuto intatto, anche come impianto epistemologico, a dispetto di una realtà esterna profondamente mutante e mutata. Non ci si interroga sufficientemente, ancora oggi, su questo vulnus. Se lo si facesse, col coraggio necessario, si sarebbe indotti a ritenere che esso abbia espresso non tanto una lacuna pedagogica (che pure c’è stata) quanto una lacuna economica, di tutta la cultura politica nazionale, rispetto al compito di far fronte al processo, allora montante, di una ristrutturazione capitalistica centrata sull’innovazione tecnologica.

Quali sono le ragioni di questo?
Io credo che scontiamo l’incapacità, da parte del sistema scolastico nel suo complesso, di governare in modo progressivo, culturalmente e didatticamente progressivo, il passaggio da un modello di scuola a base sociale ristretta ad un modello di scuola a base sociale allargata. Più esplicitamente, sono dell’idea che la linea nazionale alla scolarizzazione di massa, voluta o subita non importa, comunque attestata su modelli epistemologici e didattici tipici di una scolarizzazione d’élite del tutto particolare (anche rispetto agli standard europei), possa essere assunta come chiave di interpretazione, certamente non unica, di come, nel giro di qualche decennio, quella che era allora, negli anni ‘70, un bisogno condiviso di cambiamento scolastico sia diventata una paura altrettanto condivisa (e altrettanto sterile) di cambiamento.

C’è qualcosa della scuola degli anni ’70 che varrebbe ancora la pena recuperare?
Sì, il desiderio di cambiare. Ma la vedo difficile, visti i limiti della nostra intelligenza ‘umana’. Chi sa, forse con l’aiuto dell’intelligenza ‘artificiale’…

 

Roberto Maragliano è stato docente di pedagogia in diverse università italiane. Alla fine degli anni 90 venne incaricato dal Ministro Berlinguer di coordinare la Commissione ministeriale “dei Saggi” destinata a individuare ‘Le conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana dei prossimi decenni”.
Ha creato il sito www.scaffalemaragliano.it per raccogliere suoi scritti e altri materiali documentari sulla pedagogia e sulla storia della scuola italiana.