Reginaldo Palermo

Italo Fiorin, ripensare il valore della partecipazione

L’intervista di questo mese è con il professore Italo Fiorin, già docente di Pedagogia generale e sociale presso la Libera Università degli Studi Maria Santissima Assunta di Roma (Lumsa). Fiorin è stato anche il coordinatore del Comitato scientifico per le “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”.

Parliamo dei “decreti delegati” del 1974, nati soprattutto per dare una risposta alla crescente domanda di partecipazione che in quel momento arrivava dalle scuole: secondo lei sotto questo aspetto fu una risposta adeguata o si poteva fare di più e meglio?
Gli anni Settanta rappresentano un periodo straordinario per l’innovazione scolastica in Italia. Si concretizzano due spinte al cambiamento molto forti, una di tipo partecipativo, l’altra di tipo professionale. Le due istanze sono potenzialmente conflittuali: professionalizzare significa elevare il livello qualitativo, ma c’è il rischio di accrescere le distanze tra il ‘professionista’ e chi non è del mestiere (ad esempio i genitori) e favorire il fenomeno della delega.
Partecipare significa aver voce, contare, rifiutare la delega per acquisire spazi di protagonismo, con il rischio però che ad affrontare problemi complessi siano persone senza la necessaria competenza. Il ‘68 ha dato la stura ad una situazione bloccata, facendo emergere tutte le rughe di un sistema scolastico ingessato. Contestando l’autoreferenzialità della scuola (e dell’Università) è esplosa una forte richiesta di partecipazione, da parte di una molteplicità di soggetti, dagli studenti, ma anche dalle famiglie, dagli enti locali, dal ‘territorio’.

In tutto questo che ruolo svolsero i decreti del 1974?
I decreti delegati prendono in considerazione entrambe le istanze. Da un lato (v. DPR 416) introducono la collegialità nella scuola e aprono alla partecipazione, in particolare delle famiglie, ma non solo (vedi la nascita degli organi collegiali distrettuali); dall’altro promuovono la dimensione professionale, indirizzandola lungo la strada della ricerca e della sperimentazione (v. DPR419).
Possiamo dire che sia stata data una risposta adeguata alle istanze innovative e partecipative? Certamente fu data una risposta coraggiosa, fortemente innovativa, che, per certi aspetti, provocò uno shock culturale.

Secondo lei i decreti ebbero anche effetti collaterali positivi rispetto alle pratiche didattiche? Cioè furono un volano per un miglioramento della scuola reale e del rapporto educativo dentro le classi?
Oggi non riusciamo a pensare ad una scuola senza un collegio docenti, un consiglio di istituto o un consiglio di classe. Abbiamo consolidata l’idea della necessità di un fare scuola che veda i docenti agire secondo un progetto condiviso, non come operatori isolati e professionalmente autoreferenziali. Questa, però, era la situazione prima dei decreti delegati. Chi potrebbe rimpiangere il vecchio assetto, certamente molto più semplice, e molto meno oneroso? Solo chi ha una scarsa considerazione della professionalità docente, che richiede un profilo articolato, competenze didattiche, relazionali, progettuali, organizzative, partecipative.
Teniamo anche presente che negli stessi anni Settanta iniziarono a diffondersi in Italia le teorie del curricolo. Ricordo il titolo emblematico di un volume di Lawrence Stenhouse, apparso nel 1977, con ampia introduzione di Cesare Scurati: Dalla scuola dei programmi alla scuola del curricolo (ed. Armando). Superare la scuola dei ‘programmi’ richiedeva di abbandonare un modello diventato obsoleto, nel quale il docente svolge il ruolo meramente esecutivo di ‘impiegato dei programmi’, impegnato, come scrivevano i Programmi della scuola elementare del 1955, a “compilare il proprio personale piano di lavoro”.

È proprio negli anni ’70 che il termine curricolo entra a far parte del linguaggio scolastico…
Le teorie del curricolo si svilupparono lungo due filoni, entrambi destinati ad influenzare la nostra cultura scolastica. Il primo filone era quello della cosiddetta teoria degli obiettivi (v. Tyler, Mager, Nicholson, Taba, Gagne’ …) che rispondeva all’esigenza di rendere più razionale l’insegnamento, alla luce della concatenazione delle quattro parole chiave: obiettivi-contenuti-metodi-valutazione. Il secondo filone era quello sociale e partecipativo (v. Stenouse, Robinshon, Eisner, Scurati …), che vedeva la scuola come parte della società, attenta a leggerne i bisogni e a impostare il curricolo in modo da potervi rispondere. Da un lato, dunque, si manifestava una istanza di razionalità, dall’altro una social-partecipativa.
I decreti delegati, pur con i tanti limiti o eccessi che oggi possiamo meglio vedere (macchinosità, eccesso di burocratizzazione, eccesso di sindacalizzazione, localismi…) sono un tentativo di ripensare la scuola alla luce del riconoscimento del valore di queste due istanze e della loro necessaria composizione.

L’iter che portò all’approvazione dei 5 decreti del 1974 fu tutto sommato piuttosto rapido: nel luglio del 1973 era stata approvata la legge delega, dopo un percorso parlamentare non lunghissimo; nel maggio del ’74 arrivarono i decreti e in autunno nelle scuole si votò per i consigli di istituto. Niente a che vedere con i tempi quasi “biblici” di questi ultimi anni (basti pensare al decreto applicativo sull’inclusione previsto dalla legge 104/15). Come mai, secondo lei? C’era forse maggiore attenzione della politica verso la scuola?
Viene facile rispondere alla domanda, con un’altra domanda: c’è forse oggi una vera attenzione della politica nei confronti della scuola, tale da considerarla tra le priorità strategiche? Il paragone con gli anni Settanta è impietoso. Bastino alcuni riferimenti, oltre ai decreti delegati, per rendere evidente come il tema della scuola fosse considerato centrale: Istituzione del tempo pieno (1971); legge sull’integrazione scolastica (1977); Nuovi programmi per la scuola media (1979).
Tutte leggi importanti, impegnative, perfino rivoluzionaria la legge 517/77, approvata dall’intero Parlamento a seguito di una vera, seria, relazione parlamentare (la Relazione Falcucci).
Se confrontiamo quel decennio con la nostra attuale situazione, non possiamo nasconderci che qualcosa di molto preoccupante è successo. Come siamo arrivati a rendere sempre più marginale il posto della scuola agli occhi della politica è una buona domanda, che impone la necessità di una analisi coraggiosa ed onesta.

Una certa parte della scuola reale, giocando sul nome del Ministro che alla fine firmò i provvedimenti, parlò di “decreti malfatti”: possiamo dire, con il senno di poi, che forse fu un giudizio troppo ingeneroso?
Sì.

Dopo l’entrata in vigore delle norme sulla autonomia è subito apparso chiaro che il vecchio modello degli organi collegiali è inadeguato. Perché dopo un quarto di secolo non si è fatto nulla? C’è di mezzo solo l’elefantiasi del funzionamento della macchina pubblica o lei pensa che ci siano anche altre ragioni?
Mi verrebbe, provocatoriamente, di chiedere: ma c’è veramente autonomia, oggi? A me pare che il cuore burocratico e centralista del nostro sistema scolastico non abbia mai smesso di pulsare, e oggi lo faccia perfino con maggior forza.
Il superamento del modello di partecipazione proposto dai decreti delegati avrebbe dovuto portare, proprio come auspicava Stenhouse, alla scuola ‘della comunità‘. E lo strumento per traghettarla avrebbe dovuto essere il curricolo.
Guardando al mondo della scuola italiana, noto che gli spazi che la legge 57/97 e il DPR 519/79 apriva sono stati poco utilizzati e da pochi. Gli uffici scolastici regionali non hanno mai veramente funzionato come servizio per il territorio, ma nella maggior parte dei casi sono stati funzionali ad un centralismo ministeriale incapace di evolvere.

Forse non si è prestata sufficiente attenzione al ruolo della dirigenza scolastica?
La funzione dirigenziale è stata indirizzata più in senso efficientistico o adempitivo, che verso una attenzione all’ascolto della comunità e alla promozione di un'autentica comunità educativa. Tuttavia, e questo è un motivo di speranza, sono molti i dirigenti scolastici che si preoccupano di far crescere dal basso un buon modello di scuola, che intraprendono innovazioni profonde, che dialogano con il territorio. Ma non rappresentano ancora un modello sufficientemente diffuso, non riescono a fare massa critica.
La recente pandemia, che ha messo a dura prova le istituzioni scolastiche chiamate a fronteggiare un’emergenza drammatica, ha però aperto un orizzonte ricco di potenzialità educative, che sarebbe importante non trascurare. Abbiamo infatti assistito ad un fiorire di collaborazioni feconde tra scuola, famiglia, mondo del terzo settore, enti locali… La povertà educativa si è fatta più acuta ed evidente, ma rappresenta una sfida che può rigenerare partecipazione e professionalità, nella logica di un nuovo patto sociale.

A distanza di 50 anni c’è chi dice che, visti gli esiti, “far entrare” i genitori nelle scuole sia stato un errore; lei crede che i genitori “sindacalisti” dei figli possano essere ricondotti a questo?
Il problema della partecipazione dei genitori oggi si pone in termini molto diversi. Sono cambiati i modi di interpretare la genitorialità, con il passaggio - abbondantemente descritto - dalla famiglia normativa alla famiglia affettiva (P. Charmet) e relazionale (M. Lancini). Ma non solo. La tipologia della famiglia si è fatta più complessa, sia per una maggior instabilità dei nuclei famigliari, sia per l’accentuato pluralismo culturale, con un rilevante aumento di genitori provenienti da altri Paesi, con background migratorio spesso difficile. La partecipazione rappresenta un valore, ma bisogna ripensarne i modi, che non possono essere troppo rigidi e uniformi. Preliminare ad ogni possibile modalità di coinvolgimento è, però, credere nel valore di costruire una comunità educativa a partire dalla realtà di fatto, non da un ideal-tipo che non esiste. Da questa consapevolezza può scaturire la ricerca di una molteplicità di forme partecipative, che devono però rispettare una grammatica relazionale fatta da alcune regole basilari, che mi limito solo a segnalare: ascolto; dialogo; consultazione; coinvolgimento; co-progettazione.