Reginaldo Palermo

Riformare non è solo cambiare. Intervista a Andrea Gavosto

Questo mese parliamo con Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, autore di un recente e fortunato volume (“La scuola bloccata”) che prende in esame le ragioni del cambiamento “impossibile” (o comunque difficile) del nostro sistema scolastico.

Non c’è forza politica che manchi di sottolineare l’importanza della partecipazione del mondo della scuola alle riforme che servono per migliorare il sistema. Ma poi, di fatto, quasi sempre le riforme finiscono per “cadere dall’alto”. Perché, secondo lei?
Credo ci siano responsabilità da entrambe le parti. Proporre riforme per migliorare la qualità della scuola pubblica è innanzitutto compito di chi governa. Tuttavia, una cattiva abitudine di chi in Italia governa e gestisce le politiche scolastiche è concentrarsi sui benefici, spesso mediatici, di breve respiro, senza lasciare il tempo al cambiamento. Spesso un nuovo governo cambia direzione e disfa quanto fatto da chi c’era prima. Con un andamento frettoloso e schizofrenico, che mette pressione su DS e docenti, generando stanchezza e resistenze.
I tempi della scuola sono più lunghi, giustamente. Le riforme hanno bisogno di essere comprese, sperimentate e valutate nel loro impatto per qualche anno per vedere se funzionano. Pensiamo a quanto sta accadendo in queste settimane con il nuovo dietrofront su voti e giudizi.

Forse dovremmo “sperimentare” le riforme, valutarne i risultati e poi, se necessario, adottare gli aggiustamenti del caso…
Esattamente. Se si lasciasse ai cambiamenti la possibilità di mettersi alla prova, allora forse più facilmente potrebbero arrivare dalle scuole stimoli correttivi, di miglioramento o anche di motivato rigetto, invece di irrigidimenti preventivi.
Sottolineo forse, perché qui veniamo all’altra faccia della medaglia. Personalmente, sono deluso da come le scuole hanno finora gestito i loro spazi di autonomia, non disprezzabili seppure non estesi come in altri paesi. E non sempre la colpa può essere data all’invadenza del Ministero.
In particolare, dall’autonomia mi sarei aspettato di più sul piano didattico. Non sto dicendo che manchi innovazione didattica nelle nostre scuole. Ci sono molte esperienze interessanti e di qualità, forse più nella primaria e nella secondaria di II grado, mi pare meno nella secondaria di I grado. Vedo, però, una cronica difficoltà a trasformare le nuove buone pratiche di questa o quella scuola in un patrimonio comune a tutta la professione, creando una massa critica di idee, esperienze e metodi, che potrebbero non soltanto migliorare la qualità complessiva del corpo docente, ma anche - allora sì - incidere dal basso sul cambiamento della scuola.

A questo proposito potremmo forse accennare anche alle due recenti novità, il liceo del Made in Italy e i percorsi tecnico-professionali 4+2: le iscrizioni non sono andate benissimo, ma forse con una maggiore partecipazione da parte delle scuole le cose sarebbero andate meglio. È d’accordo?
Sì, ma sono due casi diversi. Il Liceo del Made in Italy è stata una scelta imposta dalla stessa Presidente del Consiglio e dal ministro Urso. Da quanto si è compreso, quando fu annunciata neppure il ministro Valditara e il MIM erano stati coinvolti. E tanto meno le scuole, che non ne hanno saputo nulla fino all’ultimo, dopo l’approvazione in Parlamento a fine dicembre e a ridosso delle iscrizioni. E ancora adesso non ne conoscono i contenuti, se non le materie per il biennio. Messe sotto pressione, in molti casi hanno manifestato il proprio scetticismo per una novità nebbiosa, che però percepiscono a danno del Liceo economico sociale. Anche quest’ultimo è un’innovazione abbastanza recente, che ora si sta consolidando e di anno in anno incontra un crescente favore delle famiglie.
E qui torniamo al discorso di prima: ogni nuovo governo cambia la scuola rispetto a quello di prima, senza lasciare il tempo di capire se una riforma nei fatti funzioni o meno: molto faticoso per istituti e docenti. Inoltre, non si è cercato di comprendere se da parte di famiglie e ragazzi venisse una reale domanda di un nuovo indirizzo liceale, che dal risultato veramente risibile delle iscrizioni pare proprio non esserci. Se l’avessero fatto, immagino sarebbe emerso che alcuni dei presumibili contenuti specifici del Made in Italy potevano essere integrazioni utili per chi si orienta verso alcuni indirizzi tecnici, ben più solidi. Insomma, penso che il Liceo del Made in Italy sia stata una proposta non solo frettolosa, ma sbagliata.

E invece cosa è successo per i percorsi tecnico-professionali?
Mi sembra che la sperimentazione dei percorsi tecnico-professionali del 4+2 sia stata, anche dal punto di vista delle scuole e delle famiglie, soltanto frettolosa. Sono, infatti, convinto che l’idea di costruire un legame forte e sistematico degli istituti tecnici e professionali (e della IeFP regionale) con gli ITS Academy possa giovare a scuole e ITS, come pure incontrare l’interesse degli studenti; questi avrebbero un percorso che li qualifica di più per lavori importanti e richiesti, senza però precludersi l’opzione di una laurea universitaria. Anche in questo caso ci sono aspetti da chiarire: in particolare, il passaggio da 5 a 4 anni non può essere solo una contrazione delle ore, ma comporta un profondo cambiamento didattico, sul quale certamente le scuole avrebbero molto da dire.

L’espressione “comunità scolastica” è ormai un leit-motiv che ritorna quasi sempre nelle dichiarazioni politiche e sindacali; ma, se leggiamo le cronache, molto spesso di “comunità” c’è davvero poco. Non le sembra quindi che questa sia una espressione un po’ retorica?
Sì, al di là dei casi più estremi, con episodi di violenza nella scuola, l’espressione suona un po’ retorica. Anche nelle situazioni più normali. Ciò riguarda tanto le famiglie quanto i docenti. Le famiglie, che io credo dovrebbero svolgere un ruolo molto importante, come in altri paesi, per stimolare miglioramenti della scuola, spesso se ne disinteressano; quando invece se ne interessano, scambiano il proprio particolare con il benessere generale.

In che senso?
In due sensi. Il primo è attribuire alla scuola compiti educativi che della scuola non sono e che – anche nelle situazioni più positive – la scuola fatica a svolgere. Il secondo è ragionare e agire principalmente nell’ottica dell’interesse dei propri figli. Atteggiamento per certi versi comprensibile, ma che porta sovente a esagerazioni – se non peggio – che delegittimano la funzione docente. E mettono i docenti sulla difensiva, ostacolando e inibendo, fra l’altro, una propensione all’innovazione che già in questo periodo non mi pare in generale così spiccata.
A loro volta, i docenti – soprattutto quelli delle secondarie, alle primarie va molto meglio – faticano a collaborare con i loro colleghi sul piano didattico e sono abbastanza restii ad assumersi responsabilità maggiori nel funzionamento complessivo della scuola, limitandosi a svolgere la propria lezione. In questo si pagano sia un deficit di formazione, sia una mancanza di incentivi economici e reputazionali.

A proposito di incentivi, va anche detto che la “carriera” docente è pressoché inesistente. Con quali conseguenze, secondo lei?
Io credo che la mancanza di meccanismi di carriera nella professione docente – l’essere tutti uguali nella retribuzione e nelle (poche) responsabilità – non favorisca alla lunga la dimensione collaborativa, l’innovazione didattica, i progressi qualitativi della scuola. Nelle organizzazioni moderne possono coesistere collaborazione e differenziazione. Un sistema di incentivi chiaro ed equo può limitare gli eccessi di competizione e anche i rischi di favoritismi. A questo scopo il ruolo del DS e di un middle management formato allo scopo, che in Italia ancora non esiste, sarebbe decisivo e credo potrebbe essere accettato dai più, a condizione che anche il governo dell’istituto fosse sottoposto a meccanismi di controllo e di valutazione regolari e trasparenti. Questo peraltro era uno degli obiettivi principali del Sistema di Valutazione Nazionale, che dal 2013 a oggi ha fatto ben pochi passi in avanti.

Parliamo degli studenti: sempre di più vogliono essere parte attiva e chiedono di essere ascoltati. Cosa ne pensa?
Non sono sicuro che oggi gli studenti siano davvero più attivi che in altre fasi storiche. Cambiano i modi di manifestare gli interessi, oggi straordinariamente influenzati dal digitale e dai social networks, e i temi su cui agire. Però, è vero che oggi le mobilitazioni degli studenti a favore della difesa dell’ambiente, per uno sviluppo sostenibile e intergenerazionalmente più equo hanno contribuito a modificare la sensibilità pubblica. Forse più di altre mobilitazioni del passato.
Altra cosa è, invece, la richiesta – a volte esplicita a volte più sottotraccia – di essere ascoltati. Questa deve essere una preoccupazione della scuola – non solo, ma anche della scuola - soprattutto dopo il Covid. La pandemia in tutto il mondo ha generato, come sappiamo, gravi perdite di apprendimenti, amplificando in Italia alcune criticità croniche della scuola italiana. Ma ha anche portato una crescita di disagi emotivi, relazionali e comportamentali, talvolta profondi e inediti.

Secondo lei stiamo facendo abbastanza per “ascoltare” gli studenti e per aiutarli a superare le situazioni di disagio?
Sulle perdite di apprendimento si è fatto oggettivamente poco a livello istituzionale; serviva un piano di recupero specifico, massiccio e sistematico, non episodiche iniziative estive. Sui disagi psicologici, la scuola credo sia il luogo forse più importante dove osservarli e valutarli nella loro gravità e pericolosità per il benessere dei ragazzi. Ma la scuola non può essere lasciata da sola ad affrontarli, anche se più formazione dei docenti in tal senso e la presenza dello psicologo a scuola possono essere utili. Il disagio crescente deve essere una preoccupazione dell’intera società e un tema delle politiche nazionali. Non ci si può allontanare dalle proprie responsabilità, scaricando tutto sulla scuola. La retorica che si è fatta in questo senso su Caivano è stata insopportabile.

Recentemente lei è intervenuto pubblicamente anche sul tema dell’inclusione ed ha espresso più di un dubbio sulla efficacia del modello attuale. Non sarebbe forse necessario, anche in questo caso, aprire un ampio confronto nel mondo della scuola per capire meglio le esigenze degli alunni, delle famiglie e degli operatori scolastici?
Per uscire dall’attuale crisi – crisi delle pratiche, non dei principi – e fare progredire il nostro modello d’inclusione scolastica, senza nostalgie per il passato delle classi differenziali, serve un dibattito pubblico approfondito. A molti esperti, a tanta gente di scuola e anche a me sembra evidente, infatti, che non si può andare avanti lasciando tutta o quasi tutta l’inclusione sulle spalle dei docenti di sostegno, a maggior ragione quando da anni non si riesce a qualificarne in numero sufficiente. E che va presa una strada più coraggiosa, superando la netta separazione fra l’insegnante di sostegno, concentrato sugli allievi speciali e isolato dal resto delle attività di classe, e gli altri docenti, poco o nulla coinvolti nelle azioni inclusive, anche perché spesso senza le competenze per farlo.  

In particolare cosa ne pensa della proposta della “Cattedra inclusiva” lanciata da Dario Ianes e altri esperti?
La proposta ha esattamente questo spirito e – come ho scritto - va sostenuta. Però, come ogni innovazione importante, va spiegata e discussa con scuole e famiglie. Perché, se non viene capita, può incontrare diffidenze comprensibili. Può spaventare le famiglie che hanno figli con disabilità, da anni e anni abituati – nonostante difficoltà e malcontenti – a considerare il docente di sostegno la loro unica ancora di salvezza e sono interessate soprattutto ad avere il massimo delle ore. Ma può anche preoccupare le famiglie degli altri allievi, timorose che un maggiore coinvolgimento di tutti i docenti nella didattica inclusiva in definitiva danneggi gli apprendimenti e rallenti il passo dei propri figli.
Una positiva esperienza che qualche anno fa la Fondazione Agnelli ha realizzato in alcune scuole del Trentino - insieme a Iprase e a Dario Ianes, che è fra i promotori della cattedra inclusiva - suggerisce che le cose non vanno così e queste paure possono essere superate. Però, sono del tutto legittime; perciò, un cambiamento così profondo ha bisogno di preparazione e maturazione, non di essere imposto senza discussione.

Secondo lei sono maturi i tempi per una Conferenza nazionale della scuola che coinvolga non soltanto gli addetti ai lavori ma anche gli amministratori locali, il mondo produttivo e la “società civile” più in generale?
Sinceramente, non saprei. In generale, momenti come gli Stati generali o le Conferenze nazionali suggellano visioni o politiche su cui si è già raggiunto un ampio consenso fra le parti interessate. Non sono sicuro che nel dibattito sulla scuola in Italia siamo a questo punto.  

Vorrei chiudere con una battuta che riguarda una questione della quale lei è certamente un esperto. Una delle critiche maggiori emersa nei confronti della sperimentazione del 4+2 riguarda il fatto che si tratterebbe di un “modello” troppo piegato alle esigenze del mondo dell’impresa. (Per la verità questa critica viene estesa spesso anche a buona parte del sistema scolastico). Molti sostengono che, al contrario, la scuola deve tendere a fornire conoscenze e competenze “disinteressate”. È una questione vecchia. Forse si tratta di trovare un punto di equilibrio. Lei cosa ne pensa?
Sono d’accordo che il compito della scuola non sia quello di insegnare a lavorare in uno specifico posto di lavoro e con specifiche tecnologie: spetta alle aziende, non allo Stato, provvedere a una formazione così finalizzata. Alla scuola compete invece dare conoscenze e competenze utilizzabili di diversi contesti, così come definite in sede europea, per creare buoni cittadini. Detto questo, la critica alla “aziendalizzazione della scuola”, così come alla “scuola delle competenze”, è un po’ pelosa e tesa a difendere la scuola che fu e i posti di lavoro dei docenti in quelle materie tradizionali che più faticano a tenere il passo con i tempi. Peraltro, non trovo nulla di male a che la scuola si preoccupi di che mondo del lavoro gli studenti e le studentesse dovranno affrontare una volta terminati gli studi: sarebbe un tragico errore pensare alla scuola come un’entità avulsa da quello che la circonda.