Pier Cesare Rivoltella

Quando le tecnologie fanno comunità

Sherry Turkle (1995) è un’antropologa che tutti abbiamo conosciuto diversi anni fa quando scrisse un libro che si intitolava La vita sullo schermo. Erano gli anni ’90, si iniziavano a conoscere i fenomeni legati all’identità e alla relazione nella Rete e quel libro aiutava a muoversi in quel campo ancora sconosciuto. Lo faceva osservando come la Rete stesse materializzando quanto la filosofia aveva immaginato anni prima: la frantumazione del soggetto, la moltiplicazione degli stati identitari, il mascheramento dell’autenticità.

Diversi anni dopo, la Turkle (2011) torna sugli stessi temi in un altro libro: Alone together, insieme ma soli. La tesi alla base di questo volume è molto semplice: quando siamo insieme, ciascuno con il suo dispositivo, è come se fossimo da soli. Capita sul treno, quando viaggiamo accanto anche a persone conosciute ma ciascuno con lo sguardo sul proprio schermo; capita in famiglia, quando sul divano, davanti al televisore, uno lavora al computer e l’altro chatta con gli amici. Insieme, ma soli. Detto in termini più generali e in forma di tesi sociologica: i media digitali indeboliscono i legami sociali, li allentano fino a dissolverli.

Nel 2017, in un libro intitolato Tecnologie di comunità, sono partito da questa tesi per chiedermi se non sia possibile dimostrare il contrario (Rivoltella, 2017). Le tecnologie digitali indeboliscono per forza i legami o non vi sarebbe spazio per un loro uso che invece aiuti a costruirli e a sostenerli? Basta pensare al caso della famiglia distribuita (nonni in una città, genitori in un’altra, figli all’estero) che comunica e mantiene le relazioni grazie a Zoom e a un gruppo in WhatsApp. Ma è anche il caso di un ragazzo in istruzione domiciliare per motivi di salute che grazie alle tecnologie rimane in contatto con i compagni. In questi casi la tecnologia rende possibile la comunicazione, genera uno spazio per coltivare il legame. Non siamo più insieme ma soli: siamo soli (ciascuno nel proprio luogo) ma insieme (grazie al luogo sociale che i media ci rendono disponibile).

La scuola non fa eccezione. Ci hanno appena fatto sapere che dall’infanzia alla secondaria di primo grado è meglio non far utilizzare lo smartphone, nemmeno per motivi didattici. La motivazione è sempre quella: distrae, sottrae tempo alle relazioni, si presta a essere utilizzato per atti di bullismo. Dietro lavorano due precomprensioni: la stessa idea negativa della Turkle e cioè che la tecnologia sia nemica dei legami sociali; e l’altra idea, tipica del determinismo tecnologico, in base alla quale lo strumento produce effetti indipendentemente dai suoi usi sociali. Si tratta di due idee che vanno corrette.
Vediamo anzitutto in che senso grazie alle tecnologie la scuola possa essere pensata come comunità.

Una scuola della comunità è una scuola profondamente radicata nel suo territorio, sul modello di quanto avviene nel Nord Europa. È una scuola aperta che offre i suoi spazi al di là dell’orario scolastico. Una scuola le cui dotazioni tecnologiche servono per la alfabetizzazione degli anziani, per offrire dispositivi e connessione a chi non se li può permettere. Una scuola vissuta, saldata alla vita. Una scuola della comunità è anche una scuola della partecipazione. Una scuola di tutti, in cui non ci si senta ospiti ma padroni di casa. Una scuola che lavora a soluzioni didattiche ibride, senza più distinguere tra presenza e distanza, analogico e digitale.

Quanto al determinismo tecnologico, si tratta di un errore, nel bene e nel male. Il determinismo sbaglia quando pensa che la semplice introduzione di tecnologia in scuola cambi tutto in meglio: le prestazioni degli insegnanti, l’attenzione degli studenti, gli apprendimenti. Sbaglia anche quando pensa che il problema sia rappresentato dal digitale: sperare che proibendo il cellulare si risolvano i problemi della scuola significa non aver capito cosa è una società mediatizzata, ignorare le trasformazioni della famiglia, non aprire gli occhi su docenti spesso inadeguati e lontanissimi dai mondi culturali dei loro studenti.

Il correttivo del determinismo tecnologico è l’accompagnamento, l’umanizzazione della tecnologia attraverso il ruolo guida di adulti significativi e competenti. Senza dei tutor di comunità, le tecnologie da sole non riuscirebbero a costruire la comunità. Gli insegnanti possono diventare questa figura, accettando le nuove regole di ingaggio che le giovani generazioni suggeriscono loro: non hanno bisogno di controllori ma di guide. Un lavoro difficile, che richiede passione e competenze accettando in cambio scarso riconoscimento sociale e salariale. Se all’insegnante tutor di comunità brillano gli occhi quando insegna, anche gli occhi dei suoi studenti brilleranno. E non c’è ricompensa migliore a qualsiasi fatica.

Riferimenti bibliografici
Rivoltella, P.C (2017), Tecnologie di comunità, Brescia: Scholé.
Turkle, S. (1995), La vita sullo schermo, Tr. It. Apogeo, Milano 1999.
Turkle, S. (2011), Insieme ma soli, Tr. It. Einaudi, Torino 2019.