Ivana Barbacci

Le mimose non hanno spine

Al netto degli impegni strettamente sindacali, che ci attendono come sempre numerosi nelle prossime settimane, questo mese di marzo mette assieme due ricorrenze di natura diversa, ma tra le quali è possibile individuare affinità significative: la Festa della Donna e la Pasqua, particolarmente “alta” quest’anno, che celebreremo domenica 31 marzo.

C’è una parola che si affaccia alla mente, riflettendo sul significato di ognuna delle due ricorrenze (ma anche di una terza, che celebreremo il mese successivo, il 25 aprile), ed è sacrificio.
Un richiamo che può essere immediatamente colto pensando al 25 aprile e alla Pasqua: termine, quest’ultimo, la cui etimologia peraltro ben si presta a connotare come “passaggio” anche la liberazione dell’Italia dalla tragica esperienza della dittatura fascista. Passaggio che solo attraverso il sacrificio si rende possibile: il sacrificio di Gesù per la redenzione dell’umanità dal peccato, il sacrificio di tante donne e tanti uomini per ridare al proprio Paese libertà e giustizia.

Per l’8 marzo il richiamo al sacrificio non è così immediato, ma credo si imponga per tante e diverse ragioni su cui penso valga la pena riflettere, per evitare che la celebrazione della ricorrenza sia consegnata interamente ai canoni della banalità e della superficialità, come troppo spesso accade.
Senza nulla togliere alla festosità che giustamente deve contrassegnare la giornata, che rimane appunto una festa e come tale va vissuta, credo sia doveroso considerare quanto dal “sacrificio” sia connotata, da sempre e ancora, la condizione della donna anche nei contesti sociali e civili più evoluti, come riteniamo sia il nostro.

A giustificare la stessa esistenza del termine “femminicidio”, che per qualcuno sarebbe da evitare, essendo sufficiente utilizzare - anche quando viene uccisa una donna - quello “onnicomprensivo” di omicidio contenuto nel codice penale, sono i numeri che ci restituiscono, impietosamente, la dimensione del fenomeno. Sono 118 le donne uccise nel 2023: una ogni tre giorni. Coloro che si infastidiscono quando sentono parlare di femminicidio, ci direbbero che le donne uccise sono in fondo solo una parte, nemmeno maggioritaria, delle quasi 300 persone ammazzate nel corso dell’anno. Trascurando però un altro dato, ossia che quasi il 90% di quelle donne ha trovato la morte nel proprio ambiente familiare, o per mano di un proprio partner o ex partner. È proprio questa circostanza a segnare una tragica specificità di quei delitti, giustificando purtroppo ampiamente l’uso del termine femminicidio.

Il sacrificio estremo che si configura nel caso di quelle uccisioni diventa dunque, in qualche modo, la punta di un iceberg la cui parte sommersa è fatta di un’ordinaria condizione in cui la pari dignità delle donne, anche nei contesti familiari, è tutt’altro che una conquista consolidata.

È un dato di fatto che siano le donne a reggere in modo prevalente il peso che la relazione parentale inevitabilmente comporta: fatto di accudimento dei figli, di organizzazione di attività domestiche, di assistenza e cura ai genitori anziani. Sappiamo tutti che la “femminilizzazione” estrema di un settore lavorativo come il nostro si deve a due fattori concomitanti: lo spazio che la dimensione di cura comunque occupa in una professione rivolta pressoché interamente a minori; le opportunità offerte da un orario di servizio più contenuto che in altri contesti lavorativi per chi, nella restante parte della giornata, è atteso da altre e non meno impegnative incombenze.

Potrei continuare a lungo, per esempio osservando che la prevalente composizione femminile del personale scolastico ha probabilmente la sua incidenza anche per quanto riguarda una condizione retributiva che continuiamo a ritenere, nonostante il rinnovo del contratto, non ancora adeguata all’importanza e al valore del nostro lavoro. Ma credo di aver detto quanto basta per sottolineare come non sia affatto fuori luogo evocare il termine “sacrificio” quando si celebrerà, come faremo l’8 marzo, la festa della donna.

È vero, le mimose non hanno spine: potremo tenerle in mano quel giorno senza la paura di essere punte e agitarle festosamente. Facciamolo senza dimenticare che quel rischio, purtroppo e troppe volte, una donna lo corre di più quando le viene offerta una rosa. Non solo perché quel fiore le spine le ha: ma perché una passione non accompagnata dal rispetto pieno della donna come persona, e dalla disponibilità a condividere i pesi che comporta una vita in comune, ha dell’amore soltanto l’apparenza.