Reginaldo Palermo

Il dialogo si nutre di ascolto. Intervista a Anna Oliverio Ferraris

Educare i giovani alla relazione sta diventando un tema sempre più attuale anche per il clamore mediatico di episodi di violenza in cui sono coinvolti studenti e studentesse. C’è chi osserva ad essere carente è proprio il rapporto con i giovani che, oggi più che mai, hanno il bisogno di essere ascoltati. Ne parliamo con la professoressa Anna Oliverio Ferraris, che per 40 anni ha insegnato psicologia dello sviluppo all’Università di Roma. Da anni svolge una intensa attività di divulgazione sui temi di cui si è occupata come studiosa e ricercatrice. “La ricerca dell’identità” è il titolo di un importante testo del 2022 (ed. Boringhieri) in cui affronta anche i problemi di cui parliamo in questa intervista.

Perché per un ragazzo e per una ragazza è importante sentirsi ascoltati dagli adulti? Essere ascoltati aiuta a crescere?
Sì, se si è veramente ascoltati con l’obiettivo, da parte dell’adulto, di capire più che di imporre il proprio punto di vista, di giudicare o di volere avere sempre ragione. È sempre stato importante sentirsi ascoltato per un ragazzo (e anche per un bambino), ma forse oggi lo è ancora di più perché i giovani contemporanei si trovano spesso davanti a schermi che inviano molti messaggi, molte informazioni, ma non comunicano.

Cosa intende dire?
Voglio dire che non si stabilisce un dialogo. Manca l’ascolto. Nelle chat, il dialogo può esserci ma in genere è veloce e superficiale. Il ragazzo che si sente ascoltato pensa di valere per il suo interlocutore. Pensa anche che ciò che sta dicendo o esprimendo è degno di attenzione. Ha la sensazione, addentrandosi nella conversazione, di imparare qualcosa sul mondo, sugli altri e su sé stesso.

Secondo lei, oggi i giovani, gli studenti in particolare, si sentono “ascoltati” a sufficienza dai loro insegnanti?
Alcuni sì, ovviamente, ma molti altri no. Anche perché molti insegnanti sono soprattutto preoccupati di svolgere il programma e non pensano di dover “perdere tempo” in chiacchiere. Temono anche di perdere il controllo della classe. In realtà è possibile ascoltare i ragazzi sia a livello individuale che nel gruppo classe. Sta all’insegnante creare un clima favorevole al dialogo, dove ognuno può esprimersi senza sentirsi valutato ma con la sensazione che le sue parole non cadono nel vuoto. Ascoltare significa anche osservare e capire i ragazzi mentre lavorano o interagiscono tra di loro. Sappiamo quanto sia importante a livello espressivo e comunicativo il linguaggio non verbale. L’insegnante deve dunque cercare di comprendere ciò che non è immediatamente esplicito, ma facilmente decodificabile da una serie di comportamenti, atteggiamenti e interazioni tra compagni, oltre che nei confronti dell’insegnante.

Educare alle relazioni è il tema di cui si discute con insistenza da qualche settimana, ma per gli studenti è davvero così importante parlarne a scuola?
Si può parlarne ovviamente, anche perché i risvolti sono tanti; ma ciò che più conta è il clima, o atmosfera, che l’insegnante riesce a creare in classe attraverso una didattica attiva e partecipativa: la sua capacità di comunicare, di incuriosire, di coinvolgere e anche di far lavorare i ragazzi sia in gruppi che individualmente. È l’insegnante, con i suoi comportamenti e interventi, che crea il “clima” e trasmette il modello di relazione. A ciò si aggiunga che ogni alunno deve trovare una collocazione che lo gratifichi. Deve sentirsi ascoltato. Come accade quando si suona in orchestra: ognuno contribuisce al buon esito dell’esecuzione con il proprio strumento.

Molti affermano: a scuola si va per imparare la storia e la matematica, l’educazione è un compito della famiglia. Cosa ne pensa?
Che l’educazione sia compito della famiglia è fuori discussione, ma la scuola non può esimersi dall’educare. I ragazzi trascorrono molte ore tra le mura scolastiche, ossia in una comunità diversa dalla famiglia – con le sue esigenze organizzative e le sue regole di comportamento – in cui hanno modo di fare una varietà di apprendimenti e di esperienze, formali e informali, che in famiglia non potrebbero fare. Devono imparare a convivere in un contesto più ampio e più composito, con persone simili a loro ma anche diverse per stili di vita, abitudini a volte per religione, appartenenza sociale e cultura familiare.

Cioè lei vuol dire che la scuola non è preparazione alla vita ma è essa stessa vita, come ci aveva insegnato Dewey un secolo fa…
Proprio così, la scuola è una palestra di vita importante che fa da ponte tra la famiglia e la società più vasta. D’altro canto, gli insegnanti, al centro della classe e sotto gli occhi degli alunni, offrono quotidianamente un modello di comportamento e di relazione. Anche se ritengono di dover soltanto insegnare, in realtà educano… oppure diseducano.

C’è chi sostiene che oggi ai ragazzi piacciono più le relazioni virtuali di quelle reali, perché sono più facili da gestire e meno “ansiogene”. Lei è d’accordo?
I ragazzi non sono tutti uguali, per fortuna. Ci sono, è vero, quelli che si sono abituati ai ritmi del mondo virtuale e lo preferiscono al mondo reale, che ovviamente è più complesso da gestire e consente un migliore sviluppo personale e sociale. Nel mondo virtuale i rapporti sociali tendono ad essere rapidi e superficiali e se qualcuno ha opinioni diverse dalle nostre lo si “elimina”. Nel mondo reale è più difficile eliminare chi non ci piace, è più facile, per convivere, doversi impegnare nella soluzione dei conflitti. Non è detto però che il mondo virtuale non abbia aspetti ansiogeni, ci si può trovare intrappolati situazioni sgradevoli e il bullismo in rete, per la diffusione che può assumere, può avere conseguenze più drammatiche del bullismo nel mondo reale. Si pensi alla diffusione di certi video rubati, o montaggi a carattere sessuale che circolano in rete e che la persona presa di mira non riesce a bloccare.

Forse per saper ascoltare davvero gli studenti, i docenti avrebbero bisogno anche di una formazione diversa. Cosa ne pensa?
Se la maggior parte degli insegnanti, nel nostro Paese, sono preparati nelle materie che insegnano, non tutti però possiedono abilità collaterali molto importanti come una didattica attiva e coinvolgente, la capacità di comunicare e di relazionarsi con allievi colleghi e familiari dei ragazzi, modi autentici e convincenti di porsi in classe, la capacità di gestire lo stress e le proprie emozioni, ascolto ed empatia, comprensione dei singoli alunni in modo da sfruttare i loro talenti.

E quindi cosa bisognerebbe fare?
Per esempio, in altri paesi europei lo studente universitario che insegnerà nei diversi livelli di scuola segue negli ultimi due anni di corso materie come psicologia dell’età evolutiva e delle emozioni, gestione della classe, comunicazione, didattica. Mi sembra una buona strada.

Da ormai mezzo secolo gli studenti hanno anche uno “spazio” istituzionale all’interno degli organi collegiali. È ancora utile o bisognerebbe trovare spazi diversi?
In alcune scuole questi spazi funzionano. In altre molto meno o hanno soltanto un ruolo formale: i pochi studenti che partecipano non hanno seguito tra i compagni. Penso ci sia una propedeuticità, nel senso che prima di intervenire negli organi collegiali i ragazzi debbano imparare a lavorare in gruppi tra loro. Esistono delle modalità collaudate che consentono a tutti di svolgere un lavoro nell’ambito di un gruppo di studio e di ricerca, dove imparano a dialogare, a confrontarsi, a trovare soluzioni condivise.