Ivana Barbacci

Non facciamone una bandiera, ma uno specchio

Mentre percorrevo un’altra volta, sabato 27 maggio, la strada che da Vicchio conduce a Barbiana, mi sentivo a ogni passo più convinta di quanto fosse stato giusto fare di don Lorenzo Milani e della sua straordinaria testimonianza il filo conduttore della nostra Agenda per l’anno scolastico che si avvia alla conclusione e che coincide col centesimo anniversario della sua nascita. Quando poi, imboccato da poco lo sterrato, è comparsa tra il verde quella manciata di case raccolte attorno alla piccola chiesa con la canonica che ospitò la sua scuola, la commozione che ancora una volta mi ha colto me ne ha dato ulteriore conferma. E un’altra convinzione si è fatta strada, rendendomi più pienamente consapevole di quanto avevo da subito intuito: di quanto sia stata opportuna la scelta di focalizzare l’attenzione, nell’ultimo contributo dedicato nel nostro mensile alla figura di don Milani, sul suo profilo di sacerdote, così magistralmente tracciato dal gesuita Giancarlo Pani. Che dall’ordine dei gesuiti provenga anche papa Francesco può essere solo una coincidenza, anche se ho davanti agli occhi la sua immagine mentre, raccolto in preghiera, rende omaggio al priore di Barbiana visitandone la tomba nel cinquantesimo della morte, il 20 giugno 2017. Un gesto che per molto tempo sarebbe stato addirittura impensabile, e che io credo possa considerarsi uno dei segni più evidenti del rinnovamento che questo pontificato sta suscitando nella Chiesa.
Voglio subito dire, in premessa ad altre considerazioni che sento il bisogno di esternare, che la cerimonia di Barbiana, con la presenza del Capo dello Stato, cioè della più alta carica della Repubblica, completa anche sul piano civile una “riabilitazione” (termine che non mi piace e uso solo per comodità di sintesi) già avvenuta sul piano ecclesiale con la visita del Papa che ricordavo poco fa. Quel prete così “coerente e scomodo” da essere costretto a svolgere il suo servizio pastorale in esilio; e a subire, ormai non più in vita, anche una condanna in tribunale per aver difeso l’obiezione di coscienza. È giusto, è bello che le più alte autorità religiose e civili siano salite a Barbiana: una visita che insegna e segna, bisogna esserci, bisogna andarci per capire fino in fondo il messaggio di don Milani.
Difficile aggiungere qualcosa alle tante parole scritte e dette in questi giorni: di altissimo profilo il discorso del Presidente Mattarella, che condivido in tutto, parola per parola. E poi quello del cardinale Matteo Zuppi, presidente dei Vescovi italiani, che non ha voluto ammorbidire il termine quando ha parlato di “esilio”: un esilio trasformato da don Milani “in un esodo, ha preso per mano la Chiesa, rivendicando il suo servizio agli ultimi come dimensione spirituale e servizio ecclesiale”. E Rosy Bindi, con l’immagine “francescana” di un “uomo inquieto, assetato di assoluto, che a vent’anni ha voltato le spalle ai privilegi della sua influente famiglia cosmopolita e borghese per farsi prete”. E potrei continuare, del resto anche noi da dieci mesi gli dedichiamo uno spazio importante sui nostri approfondimenti, e continueremo a farlo, così come abbiamo ricordato con un bel convegno al Centro Studi di Firenze, il giorno prima delle celebrazioni, il contributo prezioso che il libro scritto con i suoi ragazzi, "Lettera a una professoressa", diede al rinnovamento della scuola e del sindacato.
Ma non ho potuto rimuovere, mentre ero alla cerimonia che ha preceduto la marcia, una sensazione che ho trovato ben espressa nelle parole di Sandra Gesualdi, figlia di quel Michele, scomparso pochi anni fa, che di don Milani fu allievo prediletto. Il disagio di ritrovarsi sul “palcoscenico” nel quale per un giorno, anche se inevitabilmente e – voglio ripeterlo – giustamente, Barbiana è stata trasformata. Chissà se e quanto don Milani avrebbe gradito quella trasformazione. Faccio mia la preoccupazione espressa da Sandra, nelle battute conclusive del bel filmato andato in onda il 27 maggio su RAI Scuola: che non lo si trasformi, magari inconsapevolmente, in un “santino”. Andiamo a cercare don Milani, ha detto, non a Barbiana, ma là dove sono gli ultimi, quelli per i quali ha speso il suo sacerdozio e la sua vita.
Io aggiungo: non cadiamo nella tentazione di “usarlo”, di promuovere noi stessi in suo nome. È quello che può accadere se una celebrazione rimane fine a se stessa: occorre dunque assumere l’impegno di andare oltre l’omaggio, doveroso, reso quel giorno alla sua figura. Non se ne faccia una bandiera, ma uno specchio: in cui guardarsi per misurare, nei suoi confronti, le nostre insufficienze e i nostri limiti. Per rafforzare la volontà di onorarne con i fatti, e non solo a parole, la memoria. Vale soprattutto per noi, persone di scuola, perché sappiamo trarre esempio dalla dedizione con cui ha svolto il suo compito di educatore, lasciandoci in eredità un’esperienza che rimane una stella polare per chiunque voglia una scuola che accoglie, include, colma differenze, istruisce e forma, educa all’impegno nello studio e nella vita, assumendo la centralità della persona, e della sua promozione, come connotati costitutivi imprescindibili.