Se il Papa ama il dialogo vero più della verità
«Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è una questione di vita o di morte». (Z. Bauman, La Repubblica 21 ottobre 2014: anticipazione dell'intervento che l'autore terrà giovedì 23 presso l'Università Cattolica di Milano durante il convegno "Dieci parole. Perché la nostra epoca ha bisogno di Dio", organizzato dal 22 al 24 ottobre per celebrare i 100 anni della rivista "Vita e Pensiero")
Maciej Zieba adopera il concetto di “società veritale” per significare quella forma di coesistenza umana in cui «l’intera vita individuale, dalla culla alla tomba, così come la vita collettiva» sono imperniate su «una verità trascendente universalmente riconosciuta». E per chiarire che forma ha in mente, Zieba si affretta ad aggiungere che «questo vale non solo per gli Aztechi e i Masai ma anche per i seguaci di Marx e Mao, e per chi nutre una fiducia acritica e quasi-religiosa nella fisica e nella genetica». Aggiungerei i credenti quasi religiosi nel Pil, nel commercio, nell’informatica. In tutti questi casi la divinità è una; questo tratto comune relega ai margini le differenze tra un caso e un altro.
Nell’idea di “verità”, non importa se associata o no al termine “uno”, c’è dal principio un suggerimento arduo da togliere che qualcosa di “unico” ci sia o almeno vada presupposto. Quella di verità è un’idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto che può emergere solo dall’incontro col suo contrario, con un antagonista. La necessità del concetto di verità è avvertita dal momento in cui l’affermazione «è quel che è» diventa insufficiente e occorre aggiungere «e non è quel che dicono alcuni (chiunque siano)». “Verità” è a suo agio in un lessico del monoteismo, e, in ultima analisi, in un monologo. Ed effettivamente, usare “verità” al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire con una mano sola... Con una mano si può dare un ceffone, ma non applaudire.
Ecco perché le parole di papa Francesco sull’aprire le porte e andare incontro a tutti, pronunciate ad Assisi, e più ancora le sue parole sul comunicare non per far proseliti ma per capirsi, mi hanno così toccato; soprattutto perché pronunciate conversando con un agnostico dichiarato e direttore di un autorevole giornale anticlericale, che stampa regolarmente nelle sue colonne punti di vista mal deglutiti dai cardinali. Mi hanno commosso perché succede molto di rado, per non dire mai, nei monologhi a puntate spacciati per “dialoghi”. Non è a queste forme molto comuni di finto dialogo che Francesco guarda, né nelle conversazioni a cui partecipa di persona né nella teoria del dialogo che, tenacemente, promuove da anni. In un articolo pubblicato in origine nel 1990, riproposto nel 2005 solo con modifiche minori, egli considerava il finto dialogo un segno di corruzione, la corruzione essendo, diversamente dal peccato (che si può perdonare), imperdonabile; la corruzione, lungi dall’andar perdonata, «andrebbe curata». Il marchio dell’individuo corrotto, secondo Jorge Mario Bergoglio, sta nel «prender male qualunque critica. [Un individuo così] svaluta chi lo giudica negativamente, e vorrebbe disfarsi di qualsiasi autorità morale atta a disapprovare qualche aspetto della sua condotta; giudica gli altri e disdegna chi è di parere diverso. Il loro [dei corrotti] modo di perseguitare è imporre un sistema di terrore a chiunque li ostacola; si vendicano rimuovendo [gli oppositori] dalla vita sociale». «Il corrotto non riconosce la fratellanza né l’amicizia, solo la collaborazione. L’amore verso i nemici per lui conta nulla, al pari della distinzione di amico e nemico su cui si basava il diritto antico. Piuttosto, egli si muove nell’ottica dell’opposizione collaboratore-nemico. Così un corrotto con un incarico pubblico finisce sempre per coinvolgere altri nella propria corruzione. Li abbasserà al suo livello e li farà complici della scelta». Inoltre la persona corrotta non vede la sua corruzione. È come con l’alito cattivo: chi ne soffre non se ne accorge».
Tirando le somme, è possibile indicare un’emozione tipica del corrotto e del suo comportamento: l’odio, l’opposto dell’amore. Quell’amore che Henryk Elzenberg, un importante filosofo etico polacco, ha definito come «la gioia dell’esistenza di qualcun altro». In particolare, il corrotto odia chi non collabora, chi si sente in diritto di pensare diversamente, chi fa resistenza. Chiudo gli occhi, mi turo le orecchie... mi affretto a premere “cancella” quando sul monitor mi imbatto in un’idea in disaccordo con le mie. Hic, davanti al portatile, all’i-Pad o allo schermo dell’i-Phone; e nunc, nelle circa sette ore che l’uomo medio di oggi passa a guardarli. Questo hic et nunc che abbiamo avuto in dono dall’intelligenza artificiale, è una “comfort zone”; uno spazio al riparo dalle controversie, dalla stancante necessità di portare prove e argomenti a sostegno di ciò che diciamo, e dal pericolo di esser smentiti in uno scambio dialettico. Hic et nunc, in un mondo sempre più affollato e congestionato in cui chiese cattoliche, luterane e ortodosse, moschee, sinagoghe e luoghi di culto metodisti, battisti e dei Testimoni di Geova, si contendono lo spazio disponibile a volte nella medesima strada, ignorarsi a vicenda è sempre meno possibile.
Come Jorge Bergoglio prima di lui, papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo, ma la pratica. Di un dialogo vero, tra persone con punti di vista esplicitamente diversi, che comunicano per comprendersi. Non di un dialogo all’insegna dell’elogio reciproco, pensato dall’inizio per concludersi con una standing ovation; né un “dialogo” (solo in apparenza di tipo opposto) che sia in realtà una mera giustapposizione di monologhi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la prima intervista alla stampa del suo pontificato all’apertamente anticlericale La Repubblica, rappresentata, con Eugenio Scalfari, da un decano del giornalismo che non fa mistero di non essere credente.
Di sicuro l’arte che papa Francesco predica, e pratica lui stesso ogni giorno, è difficile da imparare e, più ancora, da attuare quotidianamente. La sua meno rischiosa alternativa è molto più allettante. Dopo tutto, in un dialogo degno del nome si deve mettere in conto anche l’insuccesso; la possibilità che il nostro punto di vista, ciò in cui crediamo, risulti errato, o che il nostro interlocutore risulti più nel giusto di noi... Simili timori tendono ad aggravarsi e moltiplicarsi, perché meno ci confrontiamo con persone e punti di vista diversi dai nostri, più si indebolisce la nostra capacità di provare i meriti della nostra posizione (che è tutt’altro, naturalmente, dal cercare di aver la meglio alzando la voce, o dal turarsi le orecchie per non sentire le ragioni di chi consideriamo nient’altro che un nemico) e aumentano i nostri motivi di temere il confronto. Ma non lasciamoci indurre in tentazione! Sottrarci al dialogo, voltare le spalle al dovere di confrontarci con la varietà delle umane ricette per una vita decente, ci darà forse la pace mentale (benché, senza dubbio, solo per un po’) ma non risolverà nessuno dei problemi che minacciano il pianeta di estinzione e avvelenano la vita dei suoi abitanti. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è una questione di vita o di morte.
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