Chiudere col passato che non passa
"No, non è solo l’articolo 18 a dividere Renzi dalla pattuglia dei suoi avversari nati nel Pci. È un groviglio di passioni, un vissuto che sta sotto le insegne del «lavoro» e dei «lavoratori»". Da Marcello Sorgi (La Stampa, 20 settembre 2014) una lettura delle polemiche sull'art. 18 come resa dei conti fra le due generazioni che oggi convivono - non senza tensioni - nel maggior partito della sinistra italiana
No, non è solo l’articolo 18 a dividere Renzi dalla pattuglia dei suoi avversari nati nel Pci. È un groviglio di passioni, un vissuto che sta sotto le insegne del «lavoro» e dei «lavoratori», ma richiama alla memoria tutto l’insieme «comunista», in cui rientrano a pieno titolo le celebrazioni di Togliatti e Berlinguer.
Entrambi emarginati prima e oggi pienamente riabilitati: il partito, il sindacato, le sezioni, la fabbrica, le assemblee, i cortei, le lotte, le vittorie e le sconfitte di mezzo secolo di vita di un’organizzazione che a dispetto della sua cuginanza con l’Urss, s’è sempre sentita molto italiana. Un edificio - meglio sarebbe dire una cultura, un gran pezzo della recente storia italiana - che sembrava ormai sepolto. Almeno da quando, nel 2007, è nato il Pd, sulle ceneri novecentesche dei grandi partiti di massa, e con l’intenzione di scrivere una pagina nuova nell’esperienza della sinistra al governo.
Ma ora che il ciclone renziano, dopo aver rottamato gli ultimi eredi di quella tradizione, si appresta a cancellarne anche le tracce - il complesso di slanci e dubbi, di convinzione e ambiguità, quei due passi avanti e uno indietro che accompagnano da sempre l’evoluzione della sinistra -, Bersani, D’Alema e Cofferati dicono no. Il paradosso è che i leader che più si sono spesi per costruire una sinistra riformista, ora invece si oppongono e non riconoscono a Renzi, non tanto il diritto di fare ciò che ha in testa, ma di farlo alla sua maniera.
Così difendono un mondo che loro stessi hanno contribuito a superare: il comunismo italiano condannato, da limiti ideologici e internazionali, a stare all’opposizione per quasi cinquant’anni; ma non per questo escluso dalle grandi scelte. Il vecchio partito «di lotta e di governo», il gruppo dirigente «forgiato nella lotta antifascista», il Pci berlingueriano del «non si governa senza di noi».
Ora che il Pd ha un segretario nato nel ’75, e una segreteria fatta di trenta-quarantenni, è difficile spiegare ai ragazzi che hanno preso il loro posto che una stagione, finita quanto si vuole (e finita da venticinque anni, verrebbe da aggiungere), non può essere messa da parte sbrigativamente. Senza quelle riflessioni, liturgie, pedagogie, di cui appunto si nutriva il Pci. Il partito delle grandi battaglie e manifestazioni popolari, eternamente riconvertite negli accordi e negli inevitabili compromessi di cui è fatta la politica. Il partito del centralismo democratico, in cui tutti discutevano, ma presto o tardi dovevano adeguarsi alla linea del segretario. Il partito dei grandi intellettuali, Moravia, Calvino, di cineasti come Visconti e Pasolini, di pittori come Guttuso. Il partito in cui un buon dirigente, per crescere, non doveva fare a botte con la polizia e doveva andare a distribuire i volantini davanti ai cancelli della Fiat.
La dimensione dell’antagonismo - operai contro capitalisti - era sempre fondata sul rispetto. Gianni Agnelli ricordava che «per un periodo i segretari comunisti parlavano solo piemontese». Quando Agnelli morì, nel gennaio 2003, gli operai torinesi, inaspettatamente, per un giorno e una notte sfilarono davanti al feretro, in segno di rimpianto. Questo perché la fabbrica era, sì, il teatro dello scontro: eppure, il sistema di relazioni tra parti avversarie prevedeva di fermarsi un attimo o un centimetro prima dell’irrimediabile: non a caso - e fu l’eccezione che confermava la regola - l’unica volta che quest’imperativo non venne rispettato, dalla fabbrica insorse la rivolta dei «colletti bianchi».
La «marcia dei quarantamila» del 14 ottobre 1980 a Torino, con quasi dieci anni di anticipo sull’89 della caduta del Muro di Berlino, rappresentava la fine di quel mondo e di quel modo di essere, in cui perfino il calendario era segnato da scadenze corrispondenti: la riunione delle «Alte direzioni» Fiat in cui i vertici del gruppo si confrontavano sul modo di accrescere i profitti e aumentare la produttività, anche a costo di ridurre i posti di lavoro. E, parallelamente, la «Conferenza di produzione» in cui Pci e Cgil facevano il lavoro opposto. A quel tempo - è trascorso più di un trentennio, lo Statuto dei lavoratori aveva dieci anni, Craxi e il grande scontro sul taglio della scala mobile evocato in questi giorni erano alle porte - la fabbrica fordista era già finita. Dario Fo continuava a cantare nei teatri la ballata del lavoratore «parcellizzato» sottoposto alla rigorosa «misurazione dei tempi e dei metodi» («Prima prendere/poi lasciare/destra sinistra/ quindi posare/dare un giro/poi sorridere/questa è la vita del parcellizzato/l’operaio sincronizzato»), ma negli stabilimenti era già stata introdotta la lavorazione «a isola», che integrava il rispetto dell’autonomia artigiana del singolo dipendente con l’esigenza di contrarre gli organici.
È il periodo in cui il capitalismo nostrano comincia a interrogarsi sulle conseguenze della globalizzazione e la sinistra di opposizione, al contrario, si rifiuta di farlo. Errore imperdonabile, che condizionerà tutto il decennio successivo, quello in cui sulle macerie della Prima Repubblica arriva a sorpresa Berlusconi. E il Pci, poi Pds e Ds, invece di competerci sul piano dei programmi di governo, decide di combatterlo e basta, magari a ragion veduta, ma senza porsi il problema di cosa accadrà se e quando ad andare al governo sarà la sinistra. Così che quando succede, nei sette anni complessivi dei governi Prodi, D’Alema, Amato e ancora Prodi, il partito ha cambiato nome varie volte, ma sotto sotto è ancora quello «di lotta e di governo»: pro e contro i magistrati, secondo se se la prendono con Berlusconi o con i primi gravi casi di corruzione che affiorano all’interno del centrosinistra; pro e contro le riforme economiche, se è al governo o all’opposizione; e addirittura pro e contro la tv privata, con D’Alema che in campagna elettorale va a Cologno Monzese a elogiare Mediaset come parte importante del patrimonio culturale del Paese, ma poi cambia idea quando il Cavaliere torna a Palazzo Chigi.
Per questa strada si arriva alla grande manifestazione del 23 marzo 2002, contro la cancellazione dell’articolo 18 decisa da Berlusconi. Tre milioni di persone a Roma, nel catino del Circo Massimo, Cofferati sul palco e il governo di centrodestra, spaventato dalla prova di forza, che fa marcia indietro. È l’ultima foto di gruppo della generazione post-comunista, prima della confluenza nel Pd e della diaspora correntizia. Da quella radiosa «giornata di lotta», alla malinconica chiusura della campagna elettorale del 2013, quando Bersani si rivolge ai suoi dal palcoscenico dell’Ambra Jovinelli, un teatro romano di cabaret, sembra passato un secolo. A riempire la piazza del Primo maggio, una San Giovanni traboccante, è arrivato Grillo. È la vigilia della terribile sconfitta, pardon, della «non vittoria», come sarà definita, del 25 febbraio, che porterà Renzi alla guida del partito e poi a Palazzo Chigi, e riporterà Napolitano al Quirinale.
Ma se tutto era finito da un pezzo, viene da chiedersi cosa c’entri ancora questo con l’articolo 18 e l’accelerata impressa dal premier al Jobs Act. In fondo in fondo, quasi niente. Bersani e D’Alema lo sanno, anche se vorrebbero che questo pezzo di storia, il passato che non passa mai e gli errori di questi anni, venissero archiviati con un po’ più di cura. Senza i calci nel sedere e le maniere spicce con cui Renzi li ha trattati finora.
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