Mantenere il liceo classico e innovare col digitale
Ciò che serve davvero alla scuola per un cambiamento che non sia solo fine a sé stesso, ma autentica ed efficace innovazione (Mario Pirani su La Repubblica del 26 gennaio 2015)
I temi messi sul tavolo dall’annunciata riforma scolastica del governo sono molti e vanno dall’innovazione didattica alle architetture scolastiche, dalla valutazione degli insegnanti fino al valore formativo del liceo classico.
Il dibattito, su cui è intervenuto l’ex ministro Profumo, intorno a quest’ultimo tema, deve interrogarsi se l’innovazione tecnologica necessita di legarsi all’idea di abbandonare uno studio certamente complesso, duro e concentrato su materie inutili, vecchie e poco spendibili nel mondo del lavoro. In realtà sappiamo bene che proprio la difficoltà e la complessità di materie come il latino e il greco, allenano gli studenti all’apprendimento. Inoltre il valore formativo di queste materie per la costruzione del pensiero logico e per la formazione del pensiero critico è altissimo. D’altra parte sappiamo che i nostri laureati sono apprezzati all’estero per la loro flessibilità cognitiva, per il loro eclettismo, per la capacità di uscire da un dominio di conoscenza: in poche parole per la loro intelligenza. La nostra scuola dunque funziona nel suo impianto di contenuti.
Questo fa pensare, quindi, che non dovremmo rincorrere il mondo del lavoro nelle sue “specializzazioni”, infarcendo il curricolo scolastico di sempre nuove materie quando non è inserendo sempre nuove discipline che si tiene aggiornata la scuola. Piuttosto credo che sia necessario lavorare e riflettere sul metodo, visto che negli ultimi 30 anni l’innovazione tecnologica ha portato gli studenti a metodi di apprendimento completamente differenti da quelli della generazione precedente. La rivoluzione necessaria deve portare ad analizzare seriamente ciò che deve essere preservato e ciò che deve cedere alle esigenze delle nuove generazioni. Intervenire su questo tema richiede infatti di rimettere in discussione il cuore stesso della scuola, in qualche modo la sua identità operativa. Rinunciare alla lezione classica, frontale, significa rimettere in discussione tutto: il ruolo degli insegnanti, la loro attività ed il loro orario di lavoro, gli spazi, le architetture, il tempo, gli strumenti della scuola. È qui che si dovrebbe fare una scelta coraggiosa e rivoluzionaria: scelta ben più sovversiva e radicale di quella che vede l’aggiunta di un’ora di storia dell’arte o di informatica nel curricolo.
La carriera stessa dei docenti dev’essere premiata per la qualità e non solo per il numero delle ore passate a scuola. Questo in particolare, il tema della valutazione, è un tema spinoso a cui ci siamo dedicati numerose volte, sul quale sono caduti ministri e su cui si sono espressi con forza i sindacati di categoria “blindati dietro la convinzione che fosse ingiusto essere pagati diversamente a parità di lavoro” e che rappresenterà un banco di prova per questo governo, che deve però essere consapevole che molti bravi insegnanti pensano che i loro colleghi inadempienti “danneggiano sia i propri allievi che il prestigio di tutta la categoria”.
Col tempo, una persona anziana come me, che è partita nella scrittura scolastica con la penna, l’inchiostro e il calamaio e che ha attraversato la penna stilografica, quella a sfera, la macchina da scrivere “lettera 22”, poi quella elettrica e infine il computer, il cui uso ha necessitato un intervento psicoanalitico, che mi aiutasse a superare la sensazione di essere improvvisamente divenuto analfabeta, ha compreso che è necessario inserire nella scuola un nuovo paradigma, un nuovo linguaggio. E questa opportunità oggi concretamente la offre il digitale che, coniugato con i libri di testo di approfondimento necessario, permettono di imparare in modo “costruttivo”, portando gli studenti ad essere protagonisti, coinvolti direttamente in percorsi personalizzati di apprendimento. L’Ocse dice che la scuola perderà nei prossimi anni il suo monopolio di agenzia formativa se non saprà passare da «una scuola dell’insegnamento ad una scuola dell’apprendimento». Il digitale è una gigantesca opportunità di cambiamento, richiesta a gran voce anche dai nostri studenti, non una nuova materia e tanto meno l’introduzione di informatica, che oggi viene definito “coding”, che spinge il computer nel chiuso di un laboratorio. Parlare di “scuola digitale” non significa che una tecnologia possa cambiare la scuola, ma che il cambiamento usufruisca delle opportunità che questa oggi mette a disposizione. Bisognerà vedere quanto e come la scuola saprà cogliere queste opportunità. Molti segnali incoraggianti, stanno però emergendo: le Avanguardie Educative, ad esempio, sono reti di scuole che collaborano per questa trasformazione e che stanno crescendo grazie all’entusiasmo e alla capacità di insegnanti e dirigenti scolastici che guardano al nuovo. Il governo dovrebbe assecondare, incoraggiare questi processi, senza burocratizzare l’innovazione mettendola sotto il controllo di organismi amministrativi, che ci sembrava di aver capito il presidente del Consiglio volesse arginare.
La costruzione della “Buona Scuola” deve puntare sull’autonomia, togliendo “il gesso” alla nostra scuola e responsabilizzando insegnanti e dirigenti scolastici, per garantire pari opportunità a tutti gli studenti, dando l’avvio finalmente al sistema nazionale di valutazione e non solo all’autovalutazione. Sostenere le scuole nei loro processi di cambiamento alimentando la ricerca in questo settore, che monitorizzi il processo di evoluzione, per mantenere la qualità dell’impianto dei contenuti, e selezioni le buone pratiche. Si tratta del futuro del nostro Paese e va affrontato con la consapevolezza che costruire una nuova generazione di europei passa attraverso un coordinamento con gli altri Paesi dell’Ue, facendo pesare la qualità dei nostri giovani e della loro formazione.
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