Quanto realismo magico nelle parole dei bambini
Il mistero del linguaggio infantile ci interroga da sempre. Perché per i più piccoli parlare non è uno strumento ma un incontro che “crea” il mondo e apre all’Altro. Così Massimo Recalcati presenta il suo articolo (Repubblica, R2, 5 novembre 2015), il cui testo altro non è che un estratto della prefazione al libro "Maestra, ma che ne sarà di me?" di Angela Maria Borello (casa editrice, Grantorino Libri)
I bambini non sono minorati che necessitano di un padrone che li guidi, ma soggetti di parola, inventori di teorie, sognatori, incarnazioni viventi della speranza. È questo il ritratto che di loro ci offre il bel libro di Angela Maria Borello, direttrice didattica di una Scuola d’infanzia di Torino.
Il lettore che lo incontrerà farà una esperienza nuova. Non dovrà sorbirsi le dottrine psicopedagogiche più paludate o più in voga, spesso anni luce distanti dall’esistenza singolare dei bambini e destinate fatalmente a morire esangui in qualche scaffale di una biblioteca universitaria. Il lettore farà l’esperienza dell’incontro con le parole viventi dei bambini.
La parola dei bambini trova la sua matrice prima nel grido. Lo sappiamo: la vita viene alla vita attraverso il grido. Il piccolo dell’uomo è sempre, all’inizio della vita, un grido, solo un grido, un grido perduto nella notte. Questo grido è una invocazione rivolta all’Altro affinché l’Altro risponda. È questa la prima responsabilità (il cui etimo deriva appunto da “risposta”) che l’esistenza di un bambino attribuisce alla vita di coloro che si occupano di lui.
È questa, se volete, una definizione primaria della genitorialità ma, più in generale, della funzione di chi deve promuovere l’umanizzazione della vita: non lasciare la vita sola, persa, non abbandonarla alla notte, rispondere al grido. L’accesso alla lingua sposta i bambini dall’universo chiuso della famiglia a quello aperto del mondo. La lingua per loro non è solo uno strumento che devono imparare ad usare, ma un incontro generativo che apre a mondi sconosciuti prima; la lingua dei bambini sa essere incantevole perché fa risorgere ogni volta l’atto mitico della prima nominazione quando fu la parola a fare esistere le cose.
È così: le parole dei bambini aprono e ci aprono al mistero del mondo. È la pioggia la prima pioggia, è la lumaca schiacciata sotto la pietra la prima lumaca schiacciata sotto la pietra, è la scoperta del proprio corpo la prima scoperta del proprio corpo.
Manca in queste parole l’interrogazione inquieta, forsennata, acida e assetata, dell’adolescenza; manca il pensiero critico che vuole ribaltare le convenzioni, manca la necessità spasmodica della contestazione dell’Altro.
Il mondo appare al loro sguardo come un puro fenomeno ancora sottratto alle griglie corrosive della teoria critica. Il loro sguardo non è teoretico. Si posa semplicemente sulle cose del mondo con meraviglia. Per questo le parole dei bambini assomigliano a quelle dei grandi mistici. Si adagiano sulle cose trasformando le cose in parole. Facendo esistere le cose come cose; la rosa come la rosa, la pietra come la pietra.
Non c’è ancora l’ansia — che irromperà con l’adolescenza — di cambiare il mondo, di trasformarlo, ma la visione del mondo come un miracolo che si ripete sempre nuovo: «Maestra lo sa che oggi la scuola è proprio bella? Grazie ma è proprio come ieri. Sì ma io ieri non l’avevo capito», dice una bimba stupita.
Le parole non servono solo a comunicare. I bambini ci insegnano che le parole servono innanzitutto a fare esistere le cose. «In bagno — Mi passi il phon? — Quale phon? — Inventalo no! Non vedi che stiamo giocando!». «Maestra, vogliono sempre farmi fare il cane... dice Paolo - Ma tu sei un cane... risponde Giacomo e ride». «No! Io non sono un cane e mi sono stufato di fare il cane, anzi adesso il cane lo devono fare un po’ anche loro, se no non è valido, vero maestra?». «Maestra, lo sai che mi è venuta un’ape sul mio prosciutto ma io gli ho detto che se ne voleva ne poteva mangiare un po’ e lei ha mangiato e poi mi ha fatto zzzz che era un grazie e poi è volata via? Che bello! Eh sì, adesso quella è una mia amica».
Anche la morte non ha uno statuto separato dalla parola, ma è innanzitutto una parola: «Maestra, lo sai che io avevo un nonno che prima era vivo e poi è morto e da quando è morto non l’ha più visto nessuno?».
I bambini trasfigurano costantemente la realtà perché hanno una necessità vitale dell’illusione. Non solo di pane vive, infatti, l’essere umano, ma di parole, segni, gesti, desideri. L’illusione è come un secondo pane, un altro alimento, un lievito che separa la vita umana da quella meramente animale. Il bambino si nutre di fantasia per non restare ustionato dal carattere osceno del reale. La scoperta del mondo, della vita e della morte, del reale del sesso, della violenza e dell’amore, deve poter avvenire attraverso il velo dell’illusione. Altrimenti la luce senza schermi del reale potrebbe bruciare le fragili pupille dei bambini.
Ce ne ha dato una immagine indimenticabile Roberto Benigni ne La vita è bella: l’orrore del campo di sterminio è filtrato dalla parola di un padre capace di inventare, raccontare, generare una storia dentro la quale il proprio figlio può trovare riparo dal trauma violento e illegittimo del reale. Per questo il fondamento del mondo per loro resta sempre l’amore dei genitori. L’affidabilità dell’Altro — il suo amore — rende affidabile il mondo. La vita riceve sempre un senso dall’Altro. Nessuno può farsi da sé il suo nome. «Io so che non sono nato dalla pancia di mia madre, però sono nato nel suo cuore, l’ho seguito e lei mi ha trovato».
Anche l’interrogazione sul mistero del mondo non assume mai le forme critiche che ritroveremo con lo sviluppo adolescenziale del potere acuminato del ragionamento astratto. Non c’è astio verso il mondo, non c’è odio verso l’essere, non c’è rivendicazione risentita. Il pensiero di Dio non è mai un pensiero fanatico. «Dio è forte come Star Trek?» chiede un bimbo alla sua maestra. L’umano non è in competizione con Dio, non lo combatte, non lo sfida ancora.
Il sapere dei bambini mostra che c’è un limite al sapere, che non si può sapere tutto il sapere. È il mistero stesso della loro esistenza fa risuonare questo limite. C’è un impossibile da sapere che i bambini sanno custodire con cura perché sanno di essere figli, cioè di non poter bastare a se stessi. Loro sanno che senza l’Altro sprofonderebbero nella notte più fredda. Sanno bene che solo l’amore dell’Altro può dare fondamento al carattere infondato del mondo. Per questo la parola evangelica affida proprio a loro il destino del Regno.
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