La speranza da osare contro la violenza
"Il secolo appena iniziato richiede di essere rimesso nei cardini. Per riuscirci, come mi scrive un amico (non credente), abbiamo davvero bisogno di coltivare l'idea «pasquale» di «un tempo che ammette il rinnovamento, cioè la liberazione dall'arcaica ripetizione dell'identico. Ovvero, l'idea della 'crisi' come possibile metamorfosi, "rimedio" all'eternizzazione del passato. Dire possibile significa che non è scontato. Che sta a noi anzitutto crederci. Scommetterci. Sperare l'insperato. Tutt'altro che facile. Ma, appunto, possibile" (Mauro Magatti, Corriere della Sera del 7 aprile 2015).
Il senso vertiginoso del tempo che viviamo ci è dato da una scena di continuo conquistata da atti estremi. Come nel caso dei due eccidi che hanno turbato i giorni pasquali.
Da un lato, il gesto folle di quello che è stato efficacemente definito il «primo kamikaze del nostro nulla». Quando, alla guida del potente Airbus - forse con impressa nella memoria inconscia la spettacolarità dell'11 settembre - Lubitz ha preso la decisione fatale, le vite degli altri 149 passeggeri sono diventate invisibili, di fatto inesistenti, perdute nei meandri della sua psiche. Nell'eco tragico delle parole riferite dall'ex fidanzata: «Un giorno tutto il mondo parlerà di me!» risuona il vuoto di un ego che arriva a scambiare l'esistenza con il minuto di notorietà. Poi i 148 giovani universitari, civili inermi trucidati in Kenya senza una ragione se non quella irricevibile di appartenere ad una religione diversa. Dove l'orrore dei dettagli sadici (far chiamare a casa prima della esecuzione a sangue freddo) ci dice che abbiamo a che fare con gruppi privi del minimo senso di una comune umanità.
Due atti estremi, dunque: un Io che non vede più altro che se stesso; un Noi che pretende di cancellare qualsiasi alterità. Lo dice bene Shakespeare in un verso dell'Amleto: «Time is out of joint», il tempo è «fuori dai cardini». Quante volte è già successo nella storia. Ma oggi tutto è così maledettamente grande, interconnesso e immediato che siamo costretti a prendere posizione: farsi attirare dal fascino perverso della pulsione di morte o decidersi a contrastare la follia.
Oltre alla violenza, questi due atti hanno in comune anche la crisi verticale del legame sociale. Che è una costruzione storica e culturale, su cui dobbiamo tornare a ragionare. La formidabile espansione chiamata globalizzazione (1989-2008) ha incrinato gli assetti politici e culturali faticosamente stabilizzati dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi, in gran parte del mondo (compresa in quell'Europa che non riusciamo a costruire), tali assetti appaiono meno solidi ed efficaci. Negli ultimi decenni tutto si è tendenzialmente slegato: relazioni affettive, vincoli politici, interessi economici, significati condivisi.
Nei varchi aperti hanno riacquistato peso le grandi religioni, la cui influenza è cresciuta nel momento in cui, dopo la fine delle ideologie, la politica si scopre sempre meno in grado di produrre il senso necessario per la vita in comune. A trarne vantaggio sono stati però soprattutto i nuovi gruppi politici capaci di strumentalizzare la religione ai propri fini. Sono le forme della sovranità politica e del legame sociale che vanno urgentemente ridefinite. Le sfide poste dalla crescente integrazione tecno-economica globale spingono infatti verso la nascita di soggettività più grandi, meno rigide e uniformi rispetto allo Stato-nazione. Dove occorrono tessiture nuove - verosimilmente di natura «neo-imperiale» (non imperialista!) - tra politica, religione ed economia. Solo la Cina (con la sua ricca e antica complessità interna) e gli Stati Uniti (ancora convinti della missione storica di essere la terra della libertà) sono già strutturati per far fronte a questa nuova sfida. Mentre più complessa è la situazione dell'Europa (che fatica a riconoscere la propria identità), della Russia (che prova a riscoprirsi ortodossa), per non parlare del mondo islamico, dove l'idea di un nuovo Califfato pretende di essere la riposta a questa sfida. In un mondo in cui le religioni tornano a essere attori importanti tanto quanto quelli politici (in crisi) e tecno-economici (giganti dai piedi d'argilla che non possono pensare di prescindere da una base culturale e politica), tutto è in movimento. L'integrazione planetaria economica e scientifica non può limitarsi a combinare individui e sistemi tecnici: se si vuole evitare lo scontro di civiltà, servono nuove forme politiche in grado di governare società dagli equilibri più complessi sul piano etnico e religioso. In questo quadro, libertà di culto e rispetto delle minoranze diventano banchi di prova nodali.
I drammatici fatti di cronaca di questi giorni sono sintomi di questo profondo movimento tellurico. Il secolo appena iniziato richiede di essere rimesso nei cardini. Per riuscirci, come mi scrive un amico (non credente), abbiamo davvero bisogno di coltivare l'idea «pasquale» di «un tempo che ammette il rinnovamento, cioè la liberazione dall'arcaica ripetizione dell'identico. Ovvero, l'idea della "crisi" come possibile metamorfosi, "rimedio" all'eternizzazione del passato. Dire possibile significa che non è scontato. Che sta a noi anzitutto crederci. Scommetterci. Sperare l'insperato. Tutt'altro che facile. Ma, appunto, possibile».
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