La pace spiegata a mio figlio
Dio non ci donerà la pace. Insegnerò a mio figlio la parola “compromesso”. Non è un atteggiamento di scetticismo, quello di Etgar Keret, è l'esatto contrario: è il richiamo agli uomini ad assumersi la parte di responsabilità che loro compete, a scegliere di rinunciare a qualcosa per costruire l'equilibrio necessario alla convivenza. Un'altra riflessione importante sull'interminabile e tragico conflitto israelo-palestinese (Corriere della Sera, 11 luglio 2014)
A essere sinceri ho cominciato a scrivere questo pezzo già qualche settimana fa, quando tre ragazzi israeliani, che ora sono sottoterra, ancora ridevano e scherzavano e un ragazzo palestinese di sedici anni, il cui corpo carbonizzato è stato pure seppellito nel frattempo, probabilmente se la spassava con i suoi amici. La richiesta mi è arrivata dal quotidiano Haaretz, che ha organizzato una Conferenza di pace in occasione della quale anche Abu Mazen ha scritto un pezzo molto interessante e persino il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, ha inviato un suo commovente contributo. Naturalmente anch’io ho accettato di scrivere qualcosa. In fin dei conti voglio la pace come tutti – e non da oggi – e in queste settimane aride, in cui un simile obiettivo sembra più lontano che mai dalle nostre vite, tutto ciò che resta è scrivere.
Quando però ho provato a mettermi al computer ho scoperto che, a differenza di un tempo, quando riuscivo a comporre un pezzo su questo argomento a scadenza bimestrale per qualunque giornale straniero che volesse trasmettere ai suoi lettori un po’ di speranza per il futuro della regione, questa volta non mi veniva in mente niente.
La situazione era calma all’apparenza anche se, dopo l’interruzione dei colloqui di pace e la diffusione di una generale atmosfera di disperazione che ha contagiato persino gli ingenui Stati Uniti (i quali sembravano aver rinunciato all’idea di una soluzione politica per la regione), era chiaro che fosse solo questione di tempo prima che succedesse qualcosa di criminale e, nel clima afoso e deprimente di questi giorni, trovavo difficile scrivere della pace senza sentirmi un idiota, o per lo meno distaccato dalla realtà.
Nel frattempo sono cominciate le vacanze estive e i Mondiali di calcio e, poco dopo, anche quella follia tanto nota da queste parti che riesce ad messere al tempo stesso sconvolgente, inconcepibile e del tutto prevedibile. Mentre i cannoni tuonavano e i membri del governo israeliano si infiammavano è iniziata la Conferenza di pace israeliana e io ho avuto modo di ascoltare e leggere i discorsi di molte personalità eloquenti e determinate che continuano a parlare dell’agognata pace senza battere ciglio anche in momenti come questi, in cui la terra brucia sotto i nostri piedi.
Cosa c’è in questa pace sfuggente della quale tutti amano tanto parlare ma che nessuno riesce ad avvicinare neanche di un millimetro?
Qualche mese fa mio figlio, di otto anni e mezzo, ha partecipato a scuola a una cerimonia in cui a ogni bambino è stata consegnata una copia della Torah. Al termine della cerimonia tutti gli alunni hanno cantato una canzone popolare che parlava del desiderio di pace. E, alla fine, della canzone, hanno chiesto al buon Dio un unico, piccolo regalo: la pace sulla terra.
Sulla strada di casa ho riflettuto su questa canzone. A differenza di altre che mio figlio canta in varie cerimonie e in cui ci si batte senza paura o si scaccia il buio con fiaccole ardenti, in questa la pace non viene conquistata con il sangue e col sudore, ma viene richiesta. E non solo: viene richiesta in dono. E questa, probabilmente, è la pace alla quale aneliamo. Un qualcosa che saremmo felicissimi di ricevere in dono senza dover pagare nessun prezzo e senza dare nulla in cambio. Ma, a differenza della nostra comprovata capacità di sopravvivenza, che dipende unicamente da noi, questa pace è nelle mani della Divina Provvidenza.
Credo che mio figlio appartenga alla seconda se non alla terza generazione indottrinata a considerare il conflitto israelo-palestinese come una condanna dal cielo. Qualcosa di cui, proprio come il brutto tempo, si può parlare, ci si può lamentare o scrivere canzoni, ma a proposito del quale non si può fare niente.
Due anni fa, nell’ambito di un particolare progetto di Haaretz, intervistai il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e gli chiesi cosa stesse facendo per risolvere il conflitto in Medio Oriente. Lui parlò a lungo della minaccia iraniana e dell’instabilità degli altri regimi della regione ma quando, con un’ostinazione quasi infantile, io insistetti a volere una risposta alla mia domanda iniziale, Netanyahu ammise che non stava facendo niente per risolvere il conflitto, perché il conflitto non può essere risolto.
A quanto pare anche Netanyahu, coraggioso ex ufficiale dell’esercito che non ha avuto paura ad affrontare situazioni impossibili sul campo di battaglia, sul tema della pace la pensa esattamente come mio figlio e i suoi compagni di classe. Non vorrei rovinare il buon umore al Primo ministro e a tutti i bambini della seconda elementare, ma ho la netta sensazione che Dio non ci darà nessuna pace e che saremo noi a dover fare uno sforzo per ottenerla. E se ci riusciremo né noi né i palestinesi l’avremo ricevuta in dono. La pace, per definizione, è un compromesso tra due parti e in un compromesso ogni parte deve pagare un prezzo concreto e pesante, non solo in termini di concessioni territoriali o economici ma anche di un effettivo cambiamento del proprio modo di vedere il mondo.
Quindi, forse, come primo passo per costruire un clima di fiducia tra noi e questa vecchia e mai realizzata fantasia, si dovrebbe smettere di usare la parola “pace”, che da tempo ha assunto sia per la sinistra che per la destra un significato trascendentale e persino messianico, e sostituirla con il termine “compromesso”, forse meno entusiasmante ma che per lo meno ci ricorda, ogni volta che lo utilizziamo, che la soluzione a cui aneliamo non si trova nelle nostre preghiere ma nel perseverare in un faticoso e non sempre prefetto dialogo fra noi e l’altra parte.
Quindi sì, è vero. E’ molto più difficile comporre canzoni sul compromesso che sulla pace, certamente più di quelle che mio figlio e altri bambini possano cantare con le loro voci angeliche. E’ difficile trovare rime adatte a questa parola o una sua rappresentazione grafica che faccia bella figura stampata su una maglietta. Ma contrariamente a “pace”, un vocabolo morbido, che rotola bene in bocca e non pretende nulla da chi la usa, il termine “compromesso” richiede dei presupposti. Chiunque voglia utilizzarlo, infatti, deve essere disposto innanzi tutto a fare delle concessioni, e forse anche di più: ad accettare il fatto che, al di là della propria, assoluta verità, potrebbe essercene un’altra contraria. E nella realtà razzista e violenta in cui viviamo anche questo non è poco.
(traduzione di Alessandra Shamroni)
* Etgar Keret è uno scrittore e regista israeliano di 46 anni, autore di racconti brevi e di sceneggiature per graphic novels, film e trasmissioni televisive. Fra le sue opere di maggior successo, la raccolta di racconti Missing Kissinger e il film Jellyfish, premiato con la Camera d’Or al festival di Cannes nel 2007. Il suo stile di scrittura essenziale e diretto, pieno di termini presi dal linguaggio giovanile e colloquiale, ha influenzato molti scrittori israeliani della sua generazione tanto da essere considerato il fondatore di una nuova scuola letteraria. Keret vive a Tel Aviv con la moglie Shira Geffen e il figlio Lev.
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