Da Wojtyla a Bergoglio
"Un Papa venuto dall'Est aveva aperto un percorso. Un altro Papa, venuto dal Sudamerica, oggi lo completa" (Joaquín Navarro-Valls, La Repubblica del 18 dicembre 2014)
Era già sera. Il congedo, sotto l'aereo, dopo il viaggio di Giovanni Paolo II a Cuba. Poche parole. Le mani strette. Sorrisi evidenti. Finivano dei giorni pieni. Certamente con delle sorprese. Ma anche con un evolversi dei fatti prevedibile. Un Papa venuto dall'Est aveva aperto un percorso. Un altro Papa, venuto dal Sudamerica, oggi lo completa. Quella sera Fidel Castro e Wojtyla erano, per la seconda volta, all'aeroporto dell'Avana.
Si erano salutati all'arrivo pochi giorni prima. Poi si erano incontrati nell'Università dove il Papa parlò della storia di Cuba. Poi, nel Palacio de la Revolución. Era questo l'incontro ufficiale. Il momento di parlare da soli. Il colloquio fu lungo. Fidel sapeva che il Papa voleva ascoltare da lui le sue ragioni. Lo aveva detto ai giornalisti nell'aereo che lo portava a Cuba: «Io voglio ascoltare sempre e soprattutto la verità: che lui mi dica la verità, la sua verità, quella che conosce soltanto lui..., come uomo, come presidente, come comandante». E proprio dall'aereo, a metà dell'Atlantico, mi avevano trasmesso quel testo: ero all'Avana per cercare di sistemare con le autorità locali alcune questioni relative all'imminente viaggio. E quel testo lo feci arrivare a Castro che era già all'aeroporto per aspettare l'arrivo del Papa. Lui sapeva che cosa voleva sapere il Papa da lui.
E quando due giorni dopo si incontrarono nel Palacio de la Revolución, parlarono a fondo. E a lungo. Con un ordine del giorno già scritto da Giovanni Paolo.
Castro aveva lasciato passare un momento, anni prima, in cui alcuni cambiamenti nell'isola potevano aver luogo. Fu dopo l'incontro tra Gorbaciov e lui, quando furono tagliati gli aiuti della Russia al sistema cubano. Quello diede inizio al "periodo speciale": grandi difficoltà economiche, isolamento anche dall'area socialista russa che completava l'embargo americano. Quel momento non fu l'inizio di alcun cambiamento nel comunismo cubano. Fu visto da molti come un'opportunità perduta. Lo era stata anche l'opportunità aperta con la visita del Papa?
Castro si è preso sempre del tempo prima di decidere. Le sue decisioni, quando ho parlato con lui per la prima volta, dovevano apparire sensate, ragionate, e, soprattutto, non espressione conclusiva di pressioni esterne. L'Apparato del Partito non avrebbe tollerato né scelte incomprensibili, né, tanto meno, una mancanza di autonomia e di razionalità nella gestione del potere.
E Giovanni Paolo II sapeva aspettare. Dal suo primo viaggio in Polonia nel 1979 alla caduta del muro di Berlino erano trascorsi dieci anni. Con Cuba sarebbe successo anche qualcosa di analogo. Dal 1997 quando Giovarmi Paolo II fece il suo storico viaggio a Cuba è passato del tempo. Ma non un tempo inutile. La chiesa cubana è stata accettata sia dalla gente che dal Partito; il suo riconoscimento anche come elemento attivo della società è stato quasi istantaneo in quel viaggio ed è cresciuto in questi anni. Perfino è stata accettata una mediazione della Chiesa in una delle molte questioni spinose del "corpus" cubano. Fidel ha facilitato questi passi.
Una rivoluzione nasce senza dubbio da quel fenomeno che Elias Canetti, in "Massa e potere" ha definito una mobilitazione di energie collettive. Esse sono una forza trainante e invisibile che si muove come la lava sotto i piedi fino a quando non trova un canale per esplodere. Ma anche le società, cioè la gente, cambia. L'ho visto già un anno dopo la visita di Giovanni Paolo II a Cuba. Mi ero recato all'Avana e Castro, per la seconda volta, mi aveva invitato a un pranzo, sempre nello stesso Palacio de la Revolución. Ma il suo stile sembrava cambiato. Tutto era molto più disteso, si rideva di più. Forse si respirava un'aria, se non di cambiamento, almeno di trasformazione.
Ma ricordando quel testo che diedi a Castro sul colloquio del Papa nell'aereo coi giornalisti, c'era anche un elemento che adesso non sarebbe possibile storicamente ignorare. Alla domanda di un giornalista americano su che cosa consiglierebbe lui al presidente degli Stati Uniti riguardo a Cuba, Giovanni Paolo II rispose solo con una frase ripetuta per due volte in un crescendo di intensità nella sua voce: «To change. To change». Il suo unico consiglio agli Stati Uniti era cambiare. È passato del tempo anche per questo cambiamento. Al posto di Giovanni Paolo II c'è oggi Francesco che Obama e Castro hanno pubblicamente ringraziato per il ruolo giocato nella riapertura del dialogo tra i due Paesi. È il primo Papa venuto dal continente sudamericano. Un segno della provvidenza per chi crede, della provvidenza della storia per tutti.
E un altro muro, adesso, cade.
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