Da mille anni nessuno parlava così
"Papa Francesco non inventa nulla, semplicemente legge la quotidianità che rende deforme e sfigura la chiesa quale corpo del Signore. È un’analisi tagliente, frutto senza dubbio anche dell’esperienza quotidiana vissuta da papa Francesco in questi ventuno mesi di pontificato, una disamina rivolta non tanto al passato e agli scandali che hanno preceduto la sua elezione, quanto piuttosto a un perdurante presente" (Enzo Bianchi, La Stampa del 23 dicembre 2014).
Nei tempi recenti nessun papa ha mai parlato come papa Francesco. Nel discorso per gli auguri natalizi alla curia ha detto con parresia quello che pensa e lo ha fatto di fronte alle persone che devono collaborare con lui nel ministero di comunione, tralasciando linguaggi allusivi e stile diplomatico. Questo suo discorso echeggia quel che san Bernardo – monaco però, non papa – osava dire nell’XI secolo al papa e alla sua corte: parole che pochi altri seppero scrivere o proclamare a correzione dei vizi ecclesiastici nei momenti in cui si faceva urgente una riforma della chiesa “in capite et in corpore”. Ma più ancora echeggia il salmo 101, in cui il capo, la guida del popolo di Dio promette al Signore non solo di camminare con cuore integro, ma anche di allontanare chi accanto a lui, al suo servizio, alla sua corte, “ha il cuore tortuoso, l’occhio sprezzante e orgoglioso, chi denigra in segreto il suo prossimo, chi dice menzogne”. Papa Francesco conosce bene la psicologia degli “uomini religiosi”, presenti un tempo tra gli scribi e i farisei, oggi tra i cristiani “in ogni curia, comunità, congregazione, movimento ecclesiale”, soprattutto là dove si dovrebbe esercitare il servizio dell’autorità.
Non solo i padri del deserto dei primi secoli erano soliti stilare “cataloghi” di vizi e peccati “capitali”: ancora le generazioni di cristiani come la mia, formatesi prima del Vaticano II, avevano a disposizione prontuari di peccati “in pensieri, parole, opere e omissioni” per prepararsi al sacramento della confessione, così da compiere un esame di coscienza personale sulla propria inadeguatezza rispetto alle esigenze poste dai dieci comandamenti e, più in profondità, dal Vangelo stesso. È a qualcosa di simile – forte anche dell’analoga tradizione loyolana – che ha pensato papa Francesco nel suo discorso alla curia romana in occasione del Natale. Così ha esposto con parresia un dettagliato elenco di ben quindici “malattie dell’anima”, dalla patologia del “sentirsi immortale o indispensabile”, fino a quella “del profitto mondano e degli esibizionismi”.
Certo in questo catalogo delle malattie degli uomini religiosi emerge l’acconsentire a una tentazione-chiave, quella del potere, tentazione posta dal demonio anche a Gesù Cristo e da lui respinta e vinta. Sì, la sete insaziabile di potere rende colui che vi cede capace di diffamare e calunniare gli altri sui giornali e sui blog tramite giornalisti compiacenti, abili persino a odiare su commissione. Papa Francesco non inventa nulla, semplicemente legge la quotidianità che rende deforme e sfigura la chiesa quale corpo del Signore. È un’analisi tagliente, frutto senza dubbio anche dell’esperienza quotidiana vissuta da papa Francesco in questi ventuno mesi di pontificato, una disamina rivolta non tanto al passato e agli scandali che hanno preceduto la sua elezione, quanto piuttosto a un perdurante presente. Ed è significativo che l’antidoto universale per tutte queste patologie papa Francesco lo offra inquadrando il suo discorso – ricco di citazioni bibliche e di rimandi alla sua esortazione Evangelii gaudium, a riprova del radicamento nella parola di Dio e della progettualità del suo parlare e operare – proprio nella comprensione della chiesa come “corpo mistico di Cristo”. Ora, l’immagine del corpo composto di molte membra come metafora di una comunità appartiene alla tradizione classica prima ancora che al Nuovo Testamento, ma la connotazione precisa che delinea il papa a quanti lo aiutano nel governare la “chiesa di Roma che presiede nella carità” è l’intima comunione di questo corpo dinamico e di ogni singolo membro con il Signore: “la curia, come la chiesa, non può vivere senza avere un rapporto vitale, autentico e saldo con Cristo”.
Ogni cristiano, ma soprattutto ogni persona munita di autorità o impegnata in un ministero pastorale, è invitato a chiedersi “sono un uomo di Dio o sono un amministratore di Satana?”. Non esiste alternativa: perché se è vero che tutti siamo tentati e tutti cadiamo, resta vero che la frattura è tra chi cade e cerca di rialzarsi confessando di essere peccatore e chi invece accetta di cadere fino ad essere un corrotto, magari esibendo se stesso come persona giusta ed esemplare di fronte agli altri.
Questo obiettivo, ben più arduo di qualsiasi riforma funzionale è indubbiamente innovativo e, al contempo, profondamente radicato nella più autentica tradizione cristiana: riportare un apparato burocratico ecclesiastico alla sua vera natura di corpo comunitario a servizio della chiesa universale. Si dirà che le malattie sono così numerose, gravi e diffuse da rendere improba una pronta guarigione e che il tempo della convalescenza non sarebbe comunque immune da ricadute, ma sappiamo bene come condizione preliminare a qualsiasi terapia efficace è una diagnosi accurata e in questo le parole di papa Francesco sono estremamente appropriate.
Sì, ci sono nella curia romana molte persone la cui vita cristiana è una testimonianza di fede, di qualità evangelica, di servizio leale e amoroso al papa e alla chiesa, e ci possono anche essere persone con una doppia vita “nascosta e sovente dissoluta”, altre “vigliacche” che sparlano del fratello, altre ancora “meschine, infelici” perché hanno perso la memoria del loro Signore” e “guardano appassionatamente la propria immagine e non vedono l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri”. Tuttavia papa Francesco non perde la speranza di vedere la curia riformarsi, convertirsi da “un’orchestra che produce chiasso” disarmonico e che provoca “autodistruzione o fuoco amico” in autentica comunità di discepoli del Signore Gesù, in una comunione di peccatori perdonati, capaci seguire l’invito di san Paolo ai cristiani di Efeso a vivere “secondo la verità nella carità, cercando di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità” (Ef 4,15-16).
L’ho scritto e lo riscrivo: papa Francesco si fa eco del vangelo e la sua passione per il vangelo lo porta a misurare la vita della chiesa e di ogni membro sulla fedeltà al vangelo, sulla coerenza cristiana. Ma nessuna illusione: più il papa percorre questa strada e più scatenerà le forze demoniache operanti nella storia e il risultato per i veri credenti sarà l’apparire della croce di Cristo. Non è vero che nella chiesa si starà meglio, è vero il contrario: la chiesa infatti può solo seguire Gesù anche nel rigetto sofferto e nella persecuzione e non potrà ottenere successi mondani se incarna il messaggio del suo Signore.
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