Donato de Silvestri

Gli studenti non vogliono più i voti

In un articolo pubblicato di recente su “La Repubblica” Ilaria Venturi riflette su un fenomeno che sta sempre più interessando la scuola italiana, ossia la richiesta di abbandonare il tradizionale sistema dei voti anche nella scuola secondaria (nella primaria la cosa è stata parzialmente superata dal disposto dell'OM n. 172 del 2020). Nell’articolo viene riportata l’istanza degli studenti del liceo del liceo Manzoni di Milano e dell’artistico di Bologna. Si segnala anche la sperimentazione pionieristica del Morgani di Roma, coordinata dai docenti universitari Guido Benvenuto e Stefano Livi, i quali ricordano che "quello che viene eliminato non è la fatica dello studio, ma la fatica inutile e cioè l'ansia provocata dai voti". Al liceo Peano, sempre a Roma, a settembre partiranno tre sezioni senza voto, mentre al Cecchi di Bergamo si è deciso di non bocciare nel biennio e al Giordano Bruno di Mestre si è optato per eliminare i voti nel primo quadrimestre.
Questi esempi, ancora isolati rispetto alla nostra realtà scolastica, hanno sollevato un’interessante riflessione sul senso della valutazione e sui rischi che essa comporta.
La richiesta di togliere di mezzo i voti sarebbe determinata in larga misura dal diffuso disagio psicologico che graverebbe sugli studenti che sono oggetto di valutazioni negative, o ritenute inadeguate, o ingiuste. Questo fatto è ampiamento provato da una serie di ricerche empiriche.
Già in uno studio pubblicato dall’Ocse nel 2015 risulta che nel nostro Paese il 56% soffrirebbe da stress da verifica, a fronte di una media europea del 37%. Nel 2019 un rapporto dell’Unicef evidenzia che il 16,6% degli studenti italiani di età compresa fra i 10 e i 19 anni soffre di acclarati problemi psichici. Da un sondaggio recentemente realizzato dal media brand ScuolaZoo in collaborazione con UniCredit Foundation nella scuola secondaria di II grado, risulta che Il 92% degli studenti si considera insoddisfatto dalla frequenza scolastica e la causa più rilevante di malessere consisterebbe nello stress eccessivo causato da compiti e interrogazioni (45%). Ad aggravare il tradizionale disagio dei nostri studenti avrebbe non poco contribuito il periodo della pandemia. Da un’indagine condotta dal Consiglio Nazionale Ordine Psicologi (CNOP) per conto del MIUR, infatti, su bambini tra i 5 e i 13 anni e ragazzi tra i 14 e i 19 anni, ansia, calo del tono umorale, tristezza e chiusura in sé stessi, ma anche irritazione e rabbia, sarebbero aumentali del 24%.
Ma perché le interrogazioni e i compiti in classe sarebbero così mal tollerati?
La risposta sta anche in una crescente incapacità di far fronte alle frustrazioni delle nuove generazioni, imputabile – pare – ad un diffuso atteggiamento di iperprotezione dei genitori (genitori elicottero) che, anche in conseguenza del fatto che i figli sono sempre meno e sempre più una sorta di oggetto prezioso, tendono a porli al riparo in modo quasi ossessivo, impedendo di fatto che sviluppino autonome capacità di reagire positivamente al disagio.
Ciò ha indubbiamente acuito una tradizionale caratteristica della nostra scuola, ossia il fatto che le verifiche sono spesso utilizzate in modo improprio.
Mi spiego meglio.
La valutazione è un ingrediente indispensabile di ogni progetto educativo. Essa dovrebbe intervenire in un primo momento all’inizio del progetto (valutazione ex ante) per fare l’analisi del contesto e dei bisogni, operazione necessaria per l’individuazione di obiettivi mirati al successo formativo di tutti e di ciascuno. Durante lo svolgimento del progetto interviene la verifica che dovrebbe rispondere alla necessità di ritarare la programmazione in relazione all’apprendimento degli alunni. Alla fine del periodo temporale stabilito (quadrimestre o fine anno) dovrebbe esserci la valutazione sommativa, che risponde alla necessità di capire se e in quale misura gli obiettivi previsti siano stati conseguiti. In cosa consiste quindi la scorrettezza citata più sopra?
Nel fatto che le verifiche dovrebbero essere “formative”, ossia dovrebbero servire ai docenti per capire come stanno andando le cose e consentire loro di effettuare le correzioni necessarie per assicurare il buon andamento del progetto.
Nella gran parte dei casi accade invece che le verifiche vengano utilizzate per attribuire dei valori agli studenti (i voti), sulla cui base poi effettuare la verifica sommativa, che spesso viene automaticamente ricavata dalla media aritmetica dei suddetti valori. Questa cosa non solo distorce il senso della verifica, ma crea delle situazioni di palese incompatibilità rispetto alla valutazione delle competenze. Voglio dire che potrebbe anche aver senso fare la media dei voti attribuiti a diverse verifiche se finalizzate ad appurare l’acquisizione di conoscenze o singole abilità, ma sarebbe assurdo fare la media all’interno di un percorso di maturazione competenze: la competenza valutata alla fine di un percorso non può che essere quella misurata allora. Mi spiego meglio. Prendiamo ad esempio la produzione di testo scritto, ossia una classica prova di competenza tra quelle tradizionalmente effettuate a scuola. Produrre un testo scritto è un compito di problem solving che prevede l’utilizzazione progressivamente esperta di tutta una serie di conoscenze ed abilità. Ora, che senso avrebbe valutare la competenza acquisita a dicembre facendo la media aritmetica con i livelli di competenza che si erano registrati a settembre e a novembre? Del resto, salvo per quanto avvenuto in un creativo periodo della nostra passata storia, è unanimemente condiviso che le competenze non si possano valutare con dei voti.
Il suddetto uso improprio delle verifiche diventa particolarmente drammatico in relazione alla loro scarsità, ossia gli studenti che sanno che la loro valutazione sommativa sarà effettuata facendo la media delle singole verifiche sanno anche bene che un voto negativo può essere recuperato solo con un altro capace di rendere positiva la media: un 4 può essere rimediato solo con un 8 o due 7 e se le verifiche sono poche anche un solo compito in classe o una sola interrogazione possono determinare una condanna. La cosa quasi ridicola è poi che tutto ciò avverrebbe in nome dell’oggettività: in questa prassi in realtà non c’è nulla di oggettivo, salvo che non si voglia considerare tale l’uniformità della procedura erga omnes.
Ora, come non capire le ragioni degli studenti che vorrebbero una scuola senza voti o con un uso meno drammatico degli stessi?
È noto che molti insegnanti ritengono che i voti siano un corretto ed insostituibile strumento per premiare il merito e segnalare il demerito, ma siamo davvero convinti che sia il modo giusto per incentivare la motivazione allo studio e garantire il “successo formativo” che sta alla base della nostra Costituzione e delle leggi che regolamentano la scuola italiana?
Io credo che siano maturi i tempi per una riflessione seria e positiva sull’uso improprio generalmente fatto di quelle che, come ho detto, dovrebbero essere verifiche formative.
Non si tratta di non riconoscere meriti e di favorire il disimpegno, tutt’altro. La verifica può essere comunque un’occasione di crescita e miglioramento, che è ciò che dovrebbe starci più a cuore.
Nel mio corso di Progettazione e documentazione del lavoro socioeducativo all’università durante l’anno propongo più elaborati scritti che concorrono poi alla valutazione conclusiva. Ogni anno tutti gli studenti ottengono in questi elaborati dei giudizi differenziati, ma tutti positivi. Come è possibile? Quando mi arrivano gli elaborati io li esamino e se ci sono delle cose da migliorare li restituisco chiedendo che lavorino sui punti di debolezza. Capita anche che le mie richieste debbano essere reiterate, ma non demordo perché ciò che mi interessa non è trovare un semplice espediente per escludere qualcuno, ma che tutti arrivino al LORO successo.
Parliamone, amiche ed amici insegnanti: forse gli studenti stanno suggerendo qualcosa che migliorerà la loro vita e la vostra.