Raffaele Mantegazza

La scuola si gioca tutta nel presente perché il futuro è qui e ora

Perciò va pure a scuola
per non fare scoppiare casino
studia la matematica
ma comprati il violino

Eugenio Finardi “Scuola”

La canzone di Finardi che abbiamo citato in esergo è spietatamente ingiusta nei confronti della scuola. In particolare il cantautore afferma che gli sembrava strano “passare tutte quelle ore a studiare il latino/perché allena la mente a mettere in prospettiva/ma adesso io non so calcolare l’Iva”; si potrebbe ribattere che forse se avesse studiato il latino poi sarebbe stato in grado di imparare a calcolare l’iva, anche perché egli stesso afferma “L’unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare” Ma canzone come queste sono vitali nel loro mettere la scuola con le spalle al muro perché possa riflettere sul suo senso e sul suo significato.
A cosa serve dunque la scuola? Perché Pinocchio non solo non dovrebbe salire sul carro dell’Omino di Burro ma potrebbe cercare di convincere Lucignolo a tornare in classe? E soprattutto: siamo davvero convinti che questo dovrebbe accadere? La scuola fa davvero bene ai bambini e ai ragazzi?
La domanda è diventata inevitabile soprattutto dopo la pandemia; la scuola non è più ovvia, e il suo diritto all’esistenza è messo in discussione; lo è già da tempo, almeno da quando l’obbligo di scolarizzazione è stato sostituito dall’obbligo di istruzione, per cui “andare a scuola” non è più un’esperienza ovvia per i bambini e le bambine. La parental education non attecchisce molto in Italia come invece ha fatto negli Stati Uniti ma comunque la legge ha di fatto liquidato il passaggio nelle aule come esperienza obbligatoria per tutti e per tutte. Viene da chiedersi dunque che senso ha parlare ancora di “dispersione” quando sostanzialmente la frequenza scolastica non è più un obbligo.
E del resto non mancano posizioni culturali che propongono la fine della scuola come prospettiva auspicabile; posizioni che non possono essere banalmente liquidate banalmente perché poggiano le loro argomentazioni su critiche del tutto legittime al dispositivo scolastico. Da quando le scuole sono state chiuse per mesi qualcuno ha iniziato a pensare che avrebbero potuto non riaprire mai più, e che forse tutto ciò non sarebbe stata una grande perdita.
Ma appunto, perché dovrei andare a scuola se posso apprendere i contenuti anche dalla mamma o dalla zia nel mio tinello o da un video su Youtube o una pagina di Wikipedia? Non basta dire che a scuola si impara, perché l’apprendimento avviene anche nel Paese dei Balocchi; e nemmeno che la scuola è un contesto relazionale perché sono molte le relazioni che un bambino o un ragazzo possono vivere e quella insegnante/allievo non è detto che sia necessaria.
Ci sono però a nostro parere alcune caratteristiche tipiche dell’esperienza scolastica. A scuola anzitutto vado per imparare questo contenuto da questa persona: dalla mai maestra, dal mio insegnante, dal mio prof. La relazione educativa a scuola non può fare a meno dei contenuti ma non può essere così ingenua da non sapere che i contenuti, lasciati a se stessi, non educano e non suscitano apprendimento. Viene in mente la folgorante frase di Calamandrei “la Costituzione è un pezzo di carta. Se lo lascio andare, cade”: vale per tutti i contenuti, che sono meri oggetti ai quali non possiamo appaltare il compito di educare e insegnare. Dunque la relazione educativa con l’insegnante, triangolata con i contenuti, è il motore dell’esperienza scolastica; un’esperienza che non deve ripetere quella sciagurata frattura tra affetti e cognizioni che l’Occidente si porta dietro almeno da Descartes.
La scuola deve istruire l’affettivo e educare il cognitivo. Nel senso che deve procedere a quell’alfabetizzazione affettiva che da decenni Umberto Galimberti richiede, e che consiste nel dare un nome agli affetti e alle emozioni; ma al contempo deve anche riempire di affetti i contenuti, in modo che la morte di Cesare o il teorema di Pitagora possano parlare a “me” personalmente, affondando le loro radici nel cuore delle mie emozioni e dei miei affetti.
Ma la scuola non è un luogo nel quale la relazione educativa assume la struttura 1:1; il gruppo non è un optional ma l’ambiente fondamentale di un modo di imparare che è tipico della scuola. Dunque vado a scuola per imparare questo contenuto con altre persone. Ma possiamo anche andare oltre, dal momento che anche nella squadra di calcio questo può avvenire. In realtà quello che accade a scuola è imparare questo contenuto per altre persone. Io non studio per l’insegnante, per la mamma e nemmeno solo per me stesso: io studio per gli altri perché la Costituzione Italiana preveda che il lavoro e la cultura abbiano prima di tutto un’utilità sociale.

La scuola è in crisi. Da quando la frequentavamo come bambini con il grembiule nero sentiamo ripetere questa frase. Ma ci sembra che dopo la pandemia questa crisi sia diventata davvero uno snodo fondamentale. La scuola si gioca tutto, qui ed ora; deve decidere se vuole sopravvivere a se stessa (tenendo conto che non le sarà consentito, perché se della scuola restasse sono un involucro vuoto sarebbe fin troppo facile sbarazzarsene) oppure ripensare il proprio senso e le proprie categorie. E se la scelta fosse la seconda (e si tratta di una scelta politica), allora avremo bisogno vitale di tutti i Lucignoli che la scuola spesso ignora. Perché è proprio ascoltando e valorizzando i punti di vista di coloro che la scuola la odiano, la fuggono, la temono che possiamo capire quali potrebbero essere i sentieri da percorrere per valorizzarla. Papa Francesco ha detto una volta che preferisce parlare con un ateo che con un cattolico perché l’ateo mette alla prova la sua fede e lo costringe a riflettere e ad argomentare in favore della scelta di vita cristiana.
Ma dobbiamo fare attenzione: i Lucignoli che hanno il diritto di essere ascoltati e che possono salvare la scuola, se ascoltati, non sono solo i ribelli, i drop-out, i ragazzi che la scuola espelle come già don Milani denunciava decenni fa. C’è un Lucignolo nel ragazzo che ha la media del “nove”, nella ragazza con tutti “sei” che parla poco e quasi non si nota in classe, nell’adolescente che non prende mai una nota disciplinare e che passa le giornate attraversando l’esperienza scolastica come se fosse una specie di vuoto corridoio tra l’infanzia e l’età adulta. La scuola si salva solamente con un patto intergenerazionale che porti, senza confusione di ruoli, ciascuno e ciascuna a vedere nella scuola il deposito del senso, del desiderio e dell’esperienza di cui ognuno e ognuna ha bisogno per crescere.

La domanda però potrebbe essere: ma perché tutto questo deve avvenire proprio a scuola? La risposta potrebbe anche essere tranciante: perché se non accade a scuola non accade da nessun’altra parte. Ma in realtà la scuola deve fare tutto questo perché se non lo facesse non avrebbe il diritto di chiamarsi scuola. Quello che Lucignolo chiede alla scuola è di mantenere le sue promesse, di essere fedele a se stessa; di essere all’altezza della Costituzione, della democrazia ma soprattutto dell’ultimo bambino che sta per essere caricato sul carro dell’Omino di Burro che, qui come a Collodi, ha bisogno di schiavi e li va a reclutare all’esterno degli edifici scolastici.