Paolo Acanfora

Il fiume carsico delle riforme costituzionali

Ciclicamente nell’agenda politica nazionale riemerge il delicato e spinoso tema delle riforme costituzionali. È una peculiarità del nostro sistema politico. Pensare le riforme, predisporre gli organismi incaricati di discuterle ed elaborarle, alimentare un dibattito pubblico sulle opzioni in campo, le proposte concrete, le mediazioni ed infine accantonarle. Non è sempre andata così naturalmente (qualche riforma significativa è andata in porto) ma spesso sì. È una questione di lunga data, divenuta prioritaria soprattutto negli anni Ottanta quando le difficoltà di funzionamento di un sistema bloccato dall’impossibilità dell’alternanza delle maggioranze di governo avevano suggerito riforme strutturali che ponessero rimedio ai veti posti dalle piccole forze politiche (piccole ma necessarie per la composizione delle maggioranze) e allo straripante protagonismo dei partiti. Al centro della questione era esattamente la cosiddetta “partitocrazia”, termine critico per descrivere l’esautoramento del parlamento come luogo politico decisionale a vantaggio delle segreterie di partito e la totale occupazione dello Stato da parte di questi ultimi.
Il progressivo indebolimento del radicamento dei partiti di massa e della loro funzione di rappresentanza, di guida ed illuminazione del proprio elettorato e della società nel suo insieme aveva posto nuovi problemi e palesato l’esigenza di una revisione del complessivo sistema. La “repubblica dei partiti” vedeva messa in discussione proprio la legittimità dei suoi principali protagonisti a farsi interpreti e promotori della volontà popolare e a mettere in strutturale relazione le istituzioni e la società civile. Una legittimazione sempre più fragile nella società a cui corrispondeva, paradossalmente, un ruolo sempre più centrale e pervasivo nelle istituzioni.
A questa situazione di crisi, i partiti hanno risposto provando ad innescare un processo di revisione assai problematico. Tornava così in questi anni il tema della riforma degli istituti di governo, nella convinzione che le lungaggini delle procedure parlamentari non fossero più in grado di rispondere con sollecitudine alle nuove sfide e ai nuovi problemi che richiedevano risposte rapide ed efficienti. Niente di nuovo, naturalmente. L’antiparlamentarismo si è sempre appoggiato a questa chiave di lettura. Partiti e parlamento tornavano ad essere considerati più come un problema che una soluzione nel sistema politico nazionale. La necessità di rivitalizzare l’azione di governo sottraendola alle limitazioni, ai vincoli e ai lacci imposti dalle dinamiche partitiche spingeva alcuni settori verso un consenso alla proposta di rafforzamento della figura del capo dell’esecutivo. In nome di una maggiore stabilità e governabilità del sistema si era disposti anche a ridurre il grado di rappresentatività.
È un tema da sempre dibattuto dagli analisti e dagli attori politici. Governabilità e rappresentatività non vanno spesso di pari passo ed occorre di volta in volta trovare soluzioni pragmatiche ai problemi posti ora dal prevalere dell’uno, ora dal prevalere dell’altro. Per un sistema come quello repubblicano nato dalle ceneri di un regime a partito unico, il dato rappresentativo non è stato per lungo tempo sacrificabile. A diversi decenni di distanza però la questione veniva riproposta. Soprattutto con il cambio di passo dei primi anni Novanta – dettato dal crollo del sistema politico e dall’imporsi di una prospettiva bipolare – si riabilitava la soluzione maggioritaria e si poneva con forza il tema della governabilità e del rafforzamento dell’esecutivo. Le sfide per un’Italia interna all’Europa di Maastricht, immersa in un contesto internazionale in profonda trasformazione dopo la fine della Guerra fredda, si erano radicalmente rinnovate.
La proposta presidenziale riemergeva come la soluzione naturale per una destra guidata da un leader carismatico che aveva cancellato la mediazione partitica e costruiva la propria legittimazione nel rapporto diretto con il popolo. Gli appelli diretti alla sovranità popolare rappresentata nella figura del leader condizionavano anche il rapporto con le altre istituzioni. In questo contesto la riforma costituzionale acquistava la dimensione conflittuale di una contrapposizione politica radicale che vedeva sovrapposte ragioni di sistema – il consenso/dissenso verso la forma presidenziale o semipresidenziale (il modello francese) – e ragioni contingenti, ossia il timore per la figura che avrebbe potuto incarnare il ruolo apicale di un siffatto potere esecutivo.
La questione da allora è rimasta sostanzialmente inalterata. Nessun attore significativo del dibattito politico mette in discussione la piena legittimità democratica della proposta presidenziale – cioè di un sistema, tanto per fare un esempio, che caratterizza la prima grande democrazia moderna (gli Stati Uniti). Da molte parti vi è la convinzione che altri sistemi siano migliori, più funzionali ed equilibrati. Ma il vero punto critico riguarda il giudizio sulle figure che andrebbero ad interpretare quel ruolo politico nel sistema nazionale. In altre parole, la critica alla proposta presidenziale nasce dalla convinzione che in Italia una tale istituzione potrebbe mettere sensibilmente in discussione la qualità del sistema democratico. Che sia Bettino Craxi, Silvio Berlusconi o, oggi, Giorgia Meloni a giocare il ruolo di leader carismatico, il giudizio di opposizione non cambia.
Questa diffusa convinzione si porta dietro, naturalmente, il trauma storico della dittatura fascista guidata da una personalità politica sacralizzata nella figura dell’infallibile duce della nazione. Ma è anche l’esito di un giudizio sulla fragilità dell’ethos democratico del popolo italiano e della sua classe dirigente. Il sottotesto è che, come negli anni Venti e Trenta, il popolo italiano potrebbe essere nuovamente sedotto da una personalità forte, cesaristica, plebiscitaria che si presenti nelle vesti di un liberatore dalle pastoie del parlamentarismo, dell’oligarchia partitica, dell’affarismo politico.
È un giudizio sprezzante, certamente, che forse non tiene sufficientemente conto del lungo percorso di esperienza democratica compiuto dagli italiani dal dopoguerra ad oggi ma, al tempo stesso, è un giudizio sulle crescenti difficoltà che i sistemi democratici stanno attraversando in molti paesi del mondo (compresa la democrazia presidenziale statunitense). L’ansia di semplificazione e le difficoltà di orientamento nella complessità sociale, politica, economica, culturale che caratterizza le nostre società ha fatto emergere nuove forze politiche che vengono definite populiste e che fanno dell’appello diretto al popolo la loro ragion d’essere, proponendo il vecchio ma rinnovato schema di una contrapposizione tra una società genuinamente sana e una classe dirigente irrimediabilmente corrotta. Ancora il paradigma delle “due Italie”, dell’Italia reale e l’Italia legale, che si ripropone in modo carsico nella storia nazionale.
Su questo versante, gli allarmi per gli appelli presidenzialisti non sembrano affatto insensati. Ciò, come detto, non significa in alcun modo che chi propone una riforma costituzionale in senso presidenziale punti a minare le basi democratiche del sistema repubblicano. Ma lo stato di salute delle democrazie occidentali esige che tali proposte siano equilibrate e prevedano un attento ed incontrovertibile sistema di pesi e contrappesi che renda impossibile l’emergere di figure cesaristiche e l’ampliamento incontrollato del potere personale.