Raffaele Mantegazza

L’originalità non è un presupposto o un mito ma uno degli obiettivi della scuola

Le otto e mezza tutti in piedi
il presidente, la croce e il professore
che ti legge sempre la stessa storia
nello stesso modo, sullo stesso libro
con le stesse parole da quarant'anni di onesta professione

Antonello Venditti
Compagno di scuola

“Ma che senso ha andare a scuola per ripetere sempre le stesse cose ad un professore che le sa già perché se la sente ripetere da anni e che nonostante ciò vuole che vengano dette esattamente come la dette lui?”; nelle parole di un liceale sedicenne c'è un grande punto di domanda che dovrebbe riguardare tutta la scuola; purtroppo sembra impossibile per la scuola italiana liberarsi dal fardello della didattica trasmissiva, che era già stata criticata negli anni 70 da grandi anti-pedagogisti e anti-pedagoghi (Mario Lodi, Marcello Bernardi, Gianni Rodari), ma che sembra essere dotata di una resilienza incredibile.
La scuola italiana è molto spesso fondata sulla ripetizione. Si potrebbe obiettare che anche imparare a suonare il pianoforte o giocare a pallacanestro richiede la lenta e paziente ripetizione di movimenti; e questo è ovviamente vero, ma in quei casi la ripetizione è un metodo e non il fine, è la via stretta da percorrere necessariamente per arrivare poi al gesto originale, all'interpretazione personale. Di tutto questo nella scuola spesso non c'è traccia e la ripetizione viene messa in campo come se fosse un fine per se stesso.
C'è però un movimento uguale e contrario, anche se nettamente minoritario, all'interno della scuola che potremmo definire la mitizzazione dell’originalità. Si tratta cioè di quell'atteggiamento che ritiene per esempio che una classe di quindicenni possa discutere di argomenti filosofici e storici senza prima conoscerli, dando prova di un'originalità che purtroppo non essendo rafforzata dalla conoscenza rischia di essere solo improvvisazione. L’originalità a scuola è un risultato e non è il presupposto del lavoro con i ragazzi e le ragazze, anzi dovrebbe essere presentata come un fine verso cui ogni apprendimento è rivolto. I ragazzi e le ragazze dovrebbero essere stimolati attraverso la conoscenza a raggiungere sempre maggiori gradi di originalità e di capacità di esprimere e articolare le loro idee, in un dibattito che naturalmente non deve essere rimandato sine die ma che può essere da un certo punto di vista sbocconcellato come strumento di verifica dei vari argomenti trattati. Pensiamo a verifiche dell’apprendimento che permettano il confronto tra i ragazzi, a coppie o a gruppi, chiedendo loro di motivare le loro affermazioni ma permettendo anche la libertà di espressione attraverso i muovi linguaggi e i nuovi codici che i giovani padroneggiano.
Tutto questo però richiede anche che la scuola si apra a questi nuovi linguaggi, non in modo demagogico, inseguendo le mode, non per forza trasformando una lezione su Euripide in un rap venuto male, ma chiedendo ai ragazzi e alle ragazze quali sono i codici di accesso ai loro linguaggi e ai loro modi di essere nel mondo. Ricordando peraltro che ogni volta che un adulto ha compreso un linguaggio degli adolescenti, questi sono già altrove: Perché i ragazzi non si fanno vedere/Sono sfuggenti come le pantere/E quando li cattura una definizione/Il mondo è pronto a una nuova generazione (Jovanotti, “Tempo”).
Tutto ciò ovviamente parte dal presupposto che la didattica non è una scienza superinfusa nella coscienza degli insegnanti ma è una scienza relazionale, perché parte dalla relazione e si articola soltanto all'interno di essa. Nessun insegnante degno di questo nome può dire di saper insegnare la geografia all'adolescente medio, per il semplice fatto che l'adolescente medio non esiste, e se è presente nelle statistiche non serve assolutamente a nulla per chi svolge una professione che si rinnova giorno per giorno nel rapporto coi ragazzi e le ragazze in carne ed ossa. È del tutto ovvio che esistono elementi generalizzabili nello sviluppo cognitivo ed affettivo dei ragazzi e delle ragazze, sono quelli che la psicologia dell'età evolutiva ci offre come strumenti fondamentali per svolgere la nostra professione. Ma la didattica è sempre in situazione, si ridefinisce sempre sul campo, e questo significa che l'originalità deve essere prima di tutto una caratteristica dell'insegnante. Non c'è stanchezza, non c'è forza dell'abitudine che possa giustificare la ripetizione pedissequa di metodologie, di parole, di schemi da un anno all'altro da parte di un insegnante che dovrebbe anzi continuamente ripensare alle proprie pratiche professionali. Questo non significa naturalmente che l'esperienza non serva: al contrario, tutte le metodologie sperimentate in passato possono essere riprese, riviste e soprattutto condivise. Perché l'originalità a scuola non è mai soltanto individuale ma risiede sempre nella collettività, anzi nelle due comunità che si incontrano e si confrontano, quella degli adulti e quella dei ragazzi.
Spesso gli insegnanti hanno il terrore di perdere il loro ruolo chiedendo ai ragazzi quale può essere la lezione ideale dal loro punto di vista. In realtà è esattamente il contrario: saper leggere i gusti, le inclinazioni, i linguaggi dei ragazzi e delle ragazze rafforza il ruolo dell'insegnante, che saprà quando proporre una lezione maggiormente apprezzata dai giovani e quando invece provare a sfidarli con linguaggi differenti, che essi non padroneggiano ancora o che addirittura non conoscono. Non si tratta dunque di trasformare la scuola in una specie di centro commerciale o di sala giochi per proporre sempre agli studenti e le studentesse ciò che a loro piace; al contrario si tratta di far piacere loro oggetti culturali, linguaggi e metodologie che forse non hanno mai incontrato nella loro vita. Ma il piacere è sempre al centro dell'apprendimento, altrimenti non si vede proprio per quale motivo una persona dovrebbe affaticarsi per imparare.
Sia chiaro che quando pensiamo a una lezione originale non ci riferiamo al cosiddetto “edutainment”, ovvero quella pratica che trasforma gli insegnanti in clown di seconda categoria che riciclano vecchie battute da show americani. La lezione originale è quella che viene pensata come tale a partire dal gruppo classe, può anche essere una lezione frontale ma ovviamente deve sempre essere progettata partendo da quelle che sono le sensibilità dei ragazzi e delle ragazze. La stessa cosa vale per gli strumenti di verifica, che spesso sono assolutamente ripetitivi, con il tragico risultato di penalizzare i ragazzi e le ragazze che utilizzano linguaggi diversi da quello legato all'intelligenza logico-matematica o linguistica. Da decenni abbiamo imparato con Howard Gardner che esistono un'intelligenza spaziale, una temporale, una corporea, un linguaggio della musica, della danza, del teatro. Spesso questi entrano a scuola dalla porta di servizio e se vengono utilizzati anche in modo egregio per arricchire una lezione quasi mai diventano strumenti di verifica. Il che è veramente abbastanza incredibile quando si pensa che tutto ciò porta all'inaridimento di quei novantanove linguaggi che secondo Loris Malaguzzi vengono sottratti ai bambini fin dalla scuola primaria.
Dunque osiamo essere originali. Sapendo che questo significa sempre uscire da se stessi, abbandonare i propri cliché e le proprie abitudini, superare quella coazione a ripetere che caratterizza l’essere umano soprattutto quando è stanco o si sente troppo sicuro di sé. Questo significa introdurre il dubbio e l’autocritica nell’esercizio della professione docente. Ma non è proprio nei momenti di dubbio che gli esseri umani hanno sempre dato prova della loro straordinaria creatività e originalità?