Emidio Pichelan

La libertà secondo il Signor G.

I Settanta si preannunciavano come anni “animati”. Confusi ma riformisti. Giorgio Gaber, un cantautore affermato, decideva di dare vita a un personaggio singolare: il Signor G. Un uomo qualunque, ma tutt’altro che qualunquista: un tipo ordinario, lavoro casa e famiglia, ma pur sempre animato da ideali e passioni; sopratutto, incapace di rinunciare alle domande fondamentali, e alle relative risposte, sulla vita e sulla quotidiana esistenza. Allo stesso tempo, affermava tutta la sua contrarietà alla moda del movimentismo parossistico e anarcoide, e alla contestazione infinita e perenne. Il Signor G., chitarra a tracolla, si presentava solo sul palcoscenico e metteva in musica e parole le delusioni (tante), le frustrazioni e anche, ovviamente, le certezze dell’uomo della strada.
Nel 1973, esattamente mezzo secolo fa, i metalmeccanici – allora l’aristocrazia operaia – firmavano il loro primo contratto nazionale che, tra le altre conquiste, istituiva le 150 ore; e il governo si prendeva un anno di tempo per emanare i Decreti Delegati. Come a dire che, al centro della scena politica e della platea sociale, troneggiavano la scuola e l’istruzione. Il possesso delle parole, nel pensiero e nelle opere di don Milani. Di quel decennio, nel 2007, Giovanni Moro, figlio di Aldo, pubblicava una descrizione-interpretazione insieme originale e convincente, in un agile volumetto Einaudi dalla copertina bianca, essenziale. Altrettanto essenziale la tesi del sociologo G. Moro: i Settanta non sono solo il “decennio di piombo”, della violenza armata. Meglio, non sono solo quello. Sono, soprattutto, gli anni nei quali (quanto sorprendentemente?) vincevano (alla grande) la democrazia rappresentativa e il riformismo. Un libricino che il personale della scuola dovrebbe leggere: per iniziare a capire il significato entusiasmante (pagg. 34-35 di “Anni Settanta”) della prima edizione della elezione degli Organi Collegiali (migliaia di assemblee, alle urne 9 milioni di studenti, genitori e insegnanti!).
Come spesso succede, non abbiamo saputo apprezzare, come dovuto e meritato, il valore di quel decennio. Succedeva anche con la canzone “La Libertà” del Signor G. di quel 1973. O, meglio, ci siamo fermati al ritornello, orecchiabile e “scanzonato”: “la libertà non è stare sopra un albero, / non è nemmeno il volo di un moscone, / la libertà non è uno spazio libero,/ libertà è partecipazione”. Vale la pena, invece, di leggere e rileggere attentamente la seconda strofa:

Vorrei essere libero come un uomo che ha bisogno
di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia,
che ha diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare,
e nel farsi comandare
ha trovato la sua libertà

Complimenti sentiti alla storia: per quanto confusa, tragica e contraddittoria trova sempre il modo di sorprendere. E “pietra di scandalo” doveva risultare quel decennio al Signor G., un signore comune, ma pur sempre dotato di antenne sensibili. In quegli anni post-sessantottini tutto sembrava rimesso in discussione, i partiti di massa all’angolo, frastornata la società civile mentre nell’aria risuonavano gli alti lai dei nostalgici irriducibili – in nome dei “valori occidentali” e della patria non si facevano scrupoli nel piazzare bombe nelle banche, in piazza, sui treni –, le rivendicazioni degli anarchici irresponsabili, le velleità dei rivoluzionari parolai (“la fantasia al potere”). La contestazione, la ribellione, la rivoluzione sembravano a molti la poesia, mentre la democrazia e la quotidianità non andavano al di là di una prosa incapace di scaldare i cuori della gente. Anzi, per dirla tutta, la democrazia era “incompiuta”, e il riformismo, “un tradimento”.
Il Signor G. (classe ’39) aveva poco più di trent’anni quando scriveva la ballata “La libertà”, appena sei quando nella sua Milano il CNLAI dava l’ordine dell’insurrezione popolare “prima” che in città arrivassero gli Alleati. I quali erano i benvenuti, ma i “partigiani-patrioti” volevano “conquistare” il diritto-privilegio di scriversela la Costituzione (non sotto dettatura, come succederà nel Giappone liberato dai marines yankee).
La libertà, cantava il Signor G., non è uno spazio vuoto, non è un alito di vento che, leggero e invisibile, scorazza senza meta, senza vincoli, senza regole. La democrazia è un sistema politico delicato e complesso, che vive di responsabilità, di scelta e di partecipazione (il voto), di rappresentanza e di delega (i partiti politici di massa). Niente a che fare con l’anarchia, la palingenesi, l’utopia (chiamiamole, se vuoi, populismo, democrazia diretta, uno vale uno, pacifismo disarmato e disarmante).

De te fabula narratur, anche i tempi presenti hanno i caratteri della “pietra di inciampo”. La Resistenza (anziana signora di anni 78) e la Costituzione (nozze di diamante per lei, come per la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) ci hanno portato in dono la democrazia: un sistema politico poco appariscente - come arcinoto, il migliore dei sistemi politici salvo tutti gli altri – ma piuttosto affidabile e solido. Tanto che agli scranni più alti del potere ha potuto accedere un movimento nostalgico tetragono a ogni riconoscimento del verdetto della storia. Li abbiamo visti arrivare da lontano, hanno avuto tutto il tempo per prepararsi. E, dunque, risultano inutilmente irritanti recenti dichiarazioni sbagliate e/o semplicemente strampalate: prontamente riaggiustate. Non ingannano nessuno: stanno perdendo tempo. Stanno distraendo noi tutti dai tanti pesanti macigni che, non da oggi, stanno sfidando l’umanità (e non già il piccolo cortile di casa).
Meno male che c’è lui, il saggio, prudente e navigato Presidente: il quale, però, ha bisogno che noi tutti ripetiamo il vecchio, efficace slogan degli anni Cinquanta. Hanno una bella storia quello slogan e quella lapide – “Ad ignominia” -; il tempo tiranno ci permette solo di scriverne solo la premessa. Kesselring, il generale tedesco responsabile della spedizione tedesca in Italia dopo l’8 settembre, condannato a morte “per crimini contro l’umanità”, rispondeva alla sentenza del tribunale (e al popolo italiano) con una sprezzante alzata di spalle. “Gli italiani dovrebbero dedicarmi un monumento”, mormorava beffardo. È bell’è pronto, rispondeva in poesia Piero Calamandrei, il monumento per te. Ed è imperituro perché costruito da un “popolo serrato”:

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci troverai,
morti e vivi collo stesso impegno,
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama ora e sempre
RESISTENZA”.

(P. Calamandrei, “Ad ignominia”)