Gianni Gasparini

Interstizio

Interstizio è una parola che si rivela di sorprendente ricchezza e polivalenza. Il termine deriva dal latino interstitium, che ha dirette corrispondenze in tutte le lingue romanze oltre che in inglese e allude a ciò che “sta fra”, in mezzo: si tratta di fenomeni, esperienze, situazioni, oggetti che come si dice in inglese sono in-between e in francese entre-deux. L’interstizio richiama dunque anzitutto una dimensione spaziale, vale a dire lo spazio che separa due corpi o due parti di uno stesso corpo. Un altro significato importante del termine coinvolge il tempo, in modo particolare l’intervallo di tempo tra due eventi o comportamenti. In questa linea, talvolta la poesia esprime l’aspirazione a un intervallo silenzioso, a una sorta di sospensione del tempo che interrompa la routine e il dominio del quotidiano. È il caso di Garcia Lorca quando scrive “Mi sono seduto in un interstizio del tempo. Era un ristagno di silenzio, di un bianco silenzio” (dalla suite ‘La selva degli orologi’, Poesie, Rizzoli 1994).
Un altro ampliamento semantico degli interstizi ci porta a illustrare fenomeni che rappresentano la periferia in luogo del centro, l’eccezione rispetto alla regola, le esperienze marginali in confronto al mainstream. Un esempio in proposito può essere offerto dal fenomeno del dono, la cui importanza e pregnanza cambia completamente a seconda delle società considerate: ben presente nella realtà di parecchie società antiche (come quella greca e romana), poco rilevante nelle società industrializzate dell’Otto-Novecento, esso conosce nei sistemi postindustriali dei nostri anni un significativo revival che si esprime in forme nuove e antiche.
E Italo Calvino, nella feconda creatività che anima il suo testo sulle Città invisibili di mezzo secolo fa (Einaudi 1972), illustra nella città di Cecilia i rapporti tra un cittadino e un capraio – e dunque le relazioni secolari che si svolgono tra città e campagna – in un modo che illustra mirabilmente la dialettica tra ciò che per l’uno e per l’altro è rispettivamente centrale ovvero periferico-marginale, vale a dire interstiziale. Dell’illustre città di Cecilia, così come è definita dal cittadino, il capraio non conosce neppure il nome delle vie, così come specularmente il cittadino ignora le denominazioni di quei luoghi di verde e di pascolo posti nei margini urbani che sono ben presenti al capraio e da lui distinti con nomi specifici.
Vorrei citare poi l’affinità e la vicinanza tra gli interstizi e le piccole cose, quelle di cui parla Simone Weil, la grande filosofa francese, nei suoi Quaderni. La Weil avverte che è bene considerare le piccole cose come una prefigurazione di quelle grandi: in questo modo si evitano i due estremi della negligenza da un lato, della pignoleria dall’altro. C’è in effetti un legame tra piccolo e grande che è analogo a quello delle esperienze che possiamo definire interstiziali: apparentemente banali, in realtà esse alludono a valori di fondo, come la qualità della vita, l’innovazione nella pratica della vita sociale; essi talvolta indicano i primi passi di un nuovo movimento sociale che sta nascendo dal basso.
Per concludere, credo che il termine dello Zibaldone minimo di cui ci siamo occupati in questo numero ci permetta di porti dare un supplemento di senso a parecchi fenomeni in cui siamo coinvolti o che osserviamo nel corso della nostra vita quotidiana.