Reginaldo Palermo

Una conferenza nazionale sulla scuola

Il 1988 fu per la scuola un anno complicato, forse il più complicato dell’ “era pre-autonomia”. Pochi anni prima, il fronte sindacale aveva visto l’entrata in scena dei cosiddetti sindacati di base; rispetto agli anni precedenti l’inflazione si era ridotta di molto (nella prima metà del decennio era arrivata a valori con due cifre) ma gli stipendi nella scuola ne avevano risentito non poco.
L’anno si apre con una ondata di proteste e di scioperi che mettono a rischio anche gli stessi scrutini. Ma non è quello l’unico problema. Nel dibattito politico irrompe il tema del decentramento amministrativo che sarà poi centrale per tutti gli anni Novanta. Il Governo (un pentapartito DC-PSI-PRI-PLI-PSDI guidato dal democristiano Ciriaco De Mita) comprende che è indispensabile individuare soluzioni adeguate. Per diversi mesi tutti i gruppi politici di maggioranza e di opposizione depositano in Parlamento mozioni e ordini del giorno sui problemi della scuola.
A inizio giugno, intanto, viene siglata l’intesa con i sindacati sul rinnovo del contratto. In quegli anni non esisteva ancora la legge del 1993 sulla privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico e i contratti collettivi della scuola venivano siglati direttamente fra sindacati e Governo.
La trattativa, condotta dal ministro della Funzione Pubblica Paolo Cirino Pomicino, era andata avanti quasi ininterrottamente per diverse settimane. Gli aumenti stipendiali furono significativi (quasi certamente quello del 1988 è stato il contratto più ricco per la scuola) ma non sufficienti per mettere pienamente d’accordo tutte le sigle sindacali: la Cgil Scuola, per esempio, ritardò la propria firma avendo posto alcune riserve (avrebbe voluto, fra l’altro, che gli aumenti stipendiali dei docenti fossero legati anche al merito e non solo alla anzianità di servizio).
La svolta politica arrivò nel mese di luglio e la “sintesi” toccò al ministro dell’Istruzione Giovanni Galloni, simpaticamente soprannominato “la testa più lucida della DC” sia per la sua calvizie sia per le sue indubbie capacità di analisi dei problemi.
Il 27 di quel mese, alla Camera si svolse un intenso dibattito che durò diverse ore; alla fine Galloni riuscì ad ottenere un voto pressoché unanime su una mozione firmata da deputati di quasi tutti i gruppi politici. I “punti” del documento servirono a dare avvio ad una nuova stagione della politica scolastica. In sintesi, la Camera decideva di fatto di convocare una conferenza nazionale sulla scuola entro la fine dell'anno scolastico 1988-1989 e impegnava il Governo a:

  1. favorire, alla ripresa dei lavori parlamentari, una fase intensa e significativa di attività legislativa per la scuola;
  2. effettuare una rilevazione periodica sulla realtà scolastica italiana in modo da fornire al Parlamento dati utili per le decisioni da assumere (un primo rapporto avrebbe dovuto essere presentato proprio alla Conferenza);
  3. realizzare il massimo coinvolgimento delle scuole e delle realtà associative nella organizzazione della Conferenza.

Ma è la lettura dell’intero “stenografico” della seduta parlamentare del 27 luglio a farci comprendere quali erano in quel momento i grandi temi del dibattito politico sulla scuola. C’erano la questione della riforma della “scuola media superiore” (erano gli anni del “progetto Brocca” che aveva consentito l’avvio di importanti sperimentazioni in tutta Italia) e, collegata ad essa, il problema dell’innalzamento dell’obbligo scolastico. Ma non erano mancati interventi per sottolineare l’urgenza di affrontare la questione della formazione e dell’aggiornamento dei docenti.
Il tema più ricorrente fu però quello del modello di “governo” delle scuole: le norme dei “decreti delegati” del 1974 mostravano segni evidenti di stanchezza e la parola “autonomia” veniva usata non solo dagli esponenti della maggioranza ma anche da quelli dell’opposizione.
La Conferenza nazionale si sarebbe dovuta tenere entro la fine dell’anno scolastico 1988/89, ma un cambio di Governo avvenuto proprio in piena estate suggerì di rinviare di qualche mese. Toccò così al nuovo Ministro Sergio Mattarella dare avvio ai lavori dell’evento alla fine di gennaio del 1990.
Alla Conferenza portò il suo saluto anche il Presidente Francesco Cossiga, proprio nelle ore in cui gli studenti universitari erano in agitazione (ed il Presidente colse l’occasione per ricordare che anche lui da giovane aveva partecipato a manifestazioni per protestare contro il tentativo di invasione della Finlandia da parte delle truppe sovietiche).
Nel corso della Conferenza si succedono relazioni corpose sui temi che in quel momento sono al centro del dibattito politico e culturale. Di grande prestigio gli esperti che vengono chiamati a parlare: Giuseppe De Rita, presidente del Censis, che entra nel merito dei temi del diritto allo studio e della qualità dell’istruzione, e l’economista Siro Lombardini che affronta la questione della programmazione delle risorse e delle strutture. Al pedagogista Aldo Visalberghi viene assegnato il compito di toccare il tema delicato del personale e della sua valutazione; Mauro Laeng, che pochi anni prima aveva coordinato i lavori per la revisione dei Programmi della scuola elementare, affronta la questione delle riforme. Il ministro Mattarella traccia un quadro istituzionale della situazione del sistema scolastico e definisce le linee di intervento che il Governo intende percorrere.
Ma la relazione più dirompente fu quella di Sabino Cassese, all’epoca ordinario di diritto amministrativo, che in modo appassionato ma anche estremamente lucido spiegò che, per riformare davvero il sistema scolastico, sarebbe stato indispensabile attribuire più ampi poteri gestionali, organizzativi e didattici alle singole istituzioni scolastiche. Aggiungendo che, in tal modo, al Ministero si sarebbero dovuti riservare poteri di indirizzo politico e monitoraggio complessivo del sistema.
La sua relazione si concludeva con una previsione sui tempi necessari: 3 anni per la messa a punto delle norme di legge e dell’attività di formazione del personale delle scuole e dell’apparato amministrativo, 6 anni per rafforzare gli uffici amministrativi dell’istituzioni scolastiche e altri 6 per adottare le “varianti in corso d’opera”.
Come siano andate poi le cose lo sappiamo bene e non è da escludere che uno dei motivi per cui l’autonomia non ha dato sempre i frutti sperati sia da legare proprio alla tempistica seguita, con scuole che si sono trovate dall’oggi al domani a dover svolgere compiti amministrativi e contabili ai quali non erano né abituate né preparate.