Paolo Acanfora

Italiani o antifascisti?

Nella permanente “guerra della memoria” che caratterizza il nostro tempo politico, il 24 marzo scorso è stato aggiunto un nuovo significativo tassello. La commemorazione ufficiale della strage delle Fosse Ardeatine ha sollevato, al solito, molte polemiche ribadendo l’importanza della celebrazione del passato come fonte di legittimazione per il presente.
In questa “battaglia del consenso” non importa la veridicità della ricostruzione storica. Il confronto con la storia ha senso nella misura in cui offre strumenti utili per la battaglia politica corrente. D’altronde, l’uso politico della storia c’è sempre stato. La rielaborazione del passato ha svolto un ruolo cruciale in moltissime ideologie e culture politiche. Basti pensare – per limitarci ad uno dei casi più eclatanti e più sfruttati – alla continua e diversificata evocazione della storia romana. Il mito di Roma è stato centrale nella visione nazionalista, nel mazzinianesimo, nel fascismo, nella cultura liberale e in quella cattolica.
Le date-simbolo della storia nazionale diventano spesso momenti cruciali del calendario civile di un paese, nei quali la comunità si riconosce, partecipa ed esprime il proprio sentimento di appartenenza. Nella storia italiana è sempre stato piuttosto complicato trovare date simbolicamente riconosciute e celebrate dall’intera comunità. Il risorgimento è stato attraversato da profonde lacerazioni e da sentimenti antimonarchici o antiliberali che hanno creato fratture tra la classe dirigente e le masse repubblicane, socialiste o cattoliche. Il paradigma delle “due Italie” in età giolittiana richiamava la contrapposizione radicale tra l’Italia istituzionale – “legale”, come si diceva allora – e la società nazionale, la cosiddetta Italia “reale”, l’Italia sana da contrapporre a quella malata, degenerata, corrotta e traditrice. Una rappresentazione manichea che esaltava plasticamente le contraddizioni del paese e le fratture che lo attraversavano. Tutto ciò si riverberava inevitabilmente anche nelle celebrazioni, nelle liturgie, nella difficile condivisione dei miti e dei simboli nazionali.
L’Italia repubblicana, nata dalle ceneri del ventennio fascista, dall’esperienza drammatica della guerra mondiale e della guerra civile, dalla fine della monarchia, ha avuto non di rado i medesimi problemi nell’individuare date simbolo da celebrare unitariamente. Il 25 aprile non ha rappresentato semplicemente la fine della seconda guerra mondiale; non poteva essere celebrato come un altro 4 novembre, perché sanciva una sconfitta e non una vittoria della nazione in guerra. Rappresentava però la fine della guerra civile, la vittoria dell’antifascismo sul nazifascismo declinata nei termini di una “liberazione” dalle forze di oppressione, dalla tirannia. In questo senso, il 25 aprile non ha cucito (e non poteva cucire) le lacerazioni esistenti nella società italiana ma ha sancito il trionfo di una parte sull’altra, indicando quali dovessero essere le fondamenta del nuovo Stato da costruire.
Anche il 2 giugno (la nascita della Repubblica) ha rappresentato una data complessa. Il referendum istituzionale del 1946 aveva infatti restituito l’immagine di un paese diviso a metà, con un meridione a maggioranza monarchica e un settentrione repubblicano. Le polemiche sul voto innescate dai Savoia non aiutarono a rasserenare gli animi. Fu solo la saggezza della classe dirigente, e in particolare di Alcide De Gasperi, a determinare le condizioni di un superamento della frattura. L’elezione di un monarchico, Enrico De Nicola, a capo provvisorio dello Stato fu espressione di una volontà di pacificazione mirante a fare della nuova Repubblica la casa di tutti gli italiani.
Nel corso dei decenni la polemica monarchica si è affievolita sino a sparire; non ha elaborato una memoria alternativa impostasi significativamente all’opinione pubblica nazionale, al fine di mettere in discussione la validità del 2 giugno. Altrettanto non può dirsi per il 25 aprile: la forte politicizzazione, le polemiche sulla “rivoluzione tradita”, le rivendicazioni di parte per determinare chi rappresentasse la vera e autentica resistenza hanno minato l’unità celebrativa, hanno diviso i cortei, le organizzazioni, finendo per renderla una data contesa. All’ombra del diviso mondo antifascista è rimasta per molto tempo ai margini una parte largamente minoritaria della società, ancorata a un’altra rappresentazione della storia nazionale; una parte irriducibilmente contrapposta a quella maggioritaria, figlia dei vinti della guerra civile. Per essa il 25 aprile è sempre rimasto – e non poteva che essere così – il giorno della sconfitta.
Con il tempo questa parte politica è uscita progressivamente dalla marginalità, ha guadagnato consensi e ha fatto, conseguentemente, le proprie esperienze di governo. Nel solco di questa storia, passando attraverso significative trasformazioni e rimodulazioni, è annoverabile, com’è noto, anche parte dell’attuale maggioranza parlamentare e dell’esecutivo che ne è espressione. L’atteggiamento verso le celebrazioni nazionali riflette questa appartenenza. La tragedia del 24 marzo 1944 diviene così non un episodio drammatico della guerra civile (cioè di una guerra combattuta da italiani contro altri italiani) ma un evento subito da una forza di occupazione straniera. Le vittime sono italiani, i carnefici stranieri. Si recide così il legame con il 25 aprile. Si elude il nodo fondamentale della vicenda: le 335 vittime sono la conseguenza di una guerra tra fascismo e antifascismo e l’eccidio avviene su un territorio parte della Repubblica sociale italiana, sotto la giurisdizione del governo guidato da Benito Mussolini.
Soprassedere a questo punto significa cancellare le parti in gioco, disconoscere una semplice ma ineludibile realtà: la contrapposizione era tra due parti politiche portatrici di culture, visioni del mondo e idee di nazione radicalmente alternative. Il 24 marzo 1944 è una data-simbolo inscritta in questa contrapposizione, il cui esito è stato il 25 aprile 1945: la vittoria di una parte di italiani su altri italiani, di un’idea d’Italia su un’altra idea d’Italia. È quella idea vincente che dovrebbe essere, a quasi ottant’anni di distanza, da tutti condivisa e celebrata.