Monica Lazzaretto

“Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua”

«[....] Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata. Una utopia? No. E te lo spiego con un esempio. Un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola. Ebbene a questa parità si può portare l’operaio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua)». Di un’attualità ancora sorprendente queste riflessioni scritte dal Priore di Barbiana in una lettera del marzo del 1956 al direttore del Giornale del mattino di Firenze, lettera mai pubblicata.
L’importanza fondamentale del “dare la parola” è presente in molte riflessioni di Don Milani che con questo “imperativo”, come un fil rouge, connette l’ambito educativo a quello più sociale e politico. È infatti convinto che una delle povertà più radicali per l’essere umano sia la mancanza di parola, sia il non trovare le parole per esprimere con chiarezza bisogni, desideri, progetti, diritti, emozioni. Il compito educativo diventa, nella sua visione, un pilastro della giustizia sociale: dare la parola ai poveri è un fondamentale pre requisito per pensare di rimuovere le radici profonde della povertà, della subalternità e dell’emarginazione.
Le parole, infatti, costituiscono strumenti indispensabili per padroneggiare le esperienze, rendendo possibile allo stesso tempo dare un nome a cosa accade ed agire sulle esperienze stesse. Mettere in parole una esperienza è già un modo per trasformarla. Trovare le parole è atto di aderenza con la realtà, segno di consapevolezza, Don Milani ha sempre insistito nelle sue riflessioni sull’importanza della conoscenza del linguaggio e delle parole, in Lettera a una professoressa viene ribadito: «Dobbiamo insegnare a leggere la realtà in cui si vive imparando a dominare la parola» o «l’insegnamento della lingua per ridare la parola ai poveri: per spezzare il circolo vizioso secondo il quale le classi superiori condizionano la lingua rimarcando così il divario tra le classi sociali».
Non possono non tornare alla mente alcune più recenti riflessioni, sempre sul potere generativo e di emancipazione della parola, di Andrea Marcolongo che nel suo libro Alla fonte delle parole, scrive: «Le parole sono il nostro modo di pensare il mondo, il mezzo che abbiamo per definire ciò che ci sta intorno e quindi, inevitabilmente, per definire noi stessi. Ogni volta che scegliamo una parola diamo ordine al caos, diamo contorni e corpo al reale, ogni volta che pronunciamo una parola essa è riflesso di noi. Ci rivela. Senza il linguaggio non faremmo che brancolare scomposti nella confusione, incapaci di dire la realtà e ciò che sentiamo. Proprio per questo delle parole dobbiamo avere estrema cura. Sono un giardino da coltivare con pazienza ogni giorno, da mantenere fertile e vivo, fino alle sue radici». Don Milani aveva chiaro questo concetto: la consapevolezza di sé, la crescita e la possibilità di emancipazione di ogni persona è proporzionata quasi alle parole di cui dispone, monete rare e preziose. Per questo riteneva che l’analfabetismo fosse una delle prime piaghe da rimuovere, primo compito di cura. “Dare la parola”, passare dal mondo dei forconi a quello della cultura, permette di rimuovere le radici più profonde della povertà, “la parola” è per il Priore di Barbiana chiave di volta di ogni conquista. In Esperienze pastorali scrive: «La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale».
I poveri analfabeti non avevano (e spesso non hanno ancora) diritto di cittadinanza nella società, essi, scrive il Priore in una lettera del 1956: «Non vengono menzionati dalla storia altro che quando uccidono i letterati. E questo avviene proprio perché sono analfabeti e prima di quel giorno non sanno scrivere né farsi in altro modo valere e così son condannati a scrivere solo colla punta dei loro forconi quando è già troppo tardi per essere conosciuti e onorati dagli uomini per quelli che erano innanzi a quel triste giorno». La visione è chiara, l’analisi è lucida: solo dando la parola si può «tentar di prevenire la rivoluzione sanguinosa con una rivoluzione volontaria e interiore».
Il profondo valore “politico” della sua scuola è evidente in un’altra lettera di don Milani scritta ad una signora fiorentina nel 1950: «La scuola serale di cui le parlai più volte dove vengono i giovani operai. È sempre stata l’opera su cui ho posto più speranze. Necessaria più del pane. Istruire gli ignoranti, levar la ruggine a tante belle intelligenze abbrutite nel lavoro e nell’inferiorità sociale. Estendere a tutti il privilegio più geloso dei figli dei ricchi perché è la chiave di ogni conquista».
Compito fondamentale della scuola è quello di “dare la parola”, levar la ruggine alle tante belle intelligenze che bisogna aver occhi per saper vedere, solo così si potrà emancipare i più poveri, gli esclusi, i vulnerabili da una situazione endemica di inferiorità, permettendo ad ogni uomo di poter avere quella dignità che lo “fa eguali”. Scrivono a questo proposito don Milani e suoi ragazzi in Lettera a una professoressa: «... è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. [...] Quando possederemo tutti la parola, gli arrivisti seguitino pure i loro studi. [...] Basta che non chiedano una fetta più grande di potere come han fatto finora». Il sogno che don Milani ci ha consegnato: «sogno che tutti possiedano la parola», resta ancora, purtroppo, un sogno, “dare la parola” è progetto non ancora realizzato, non compiutamente, non per tutti, perché la giustizia sociale capace di rimuovere le povertà educative di tanti alunni e famiglie è ancora lontana da essere pienamente realizzata. A questo sogno, che ancora orienta l’operare di molti insegnanti, si aggiunge oggi una nuova emergenza che la scuola e l’educazione stanno vivendo come sfida quello di saper: “ri-significare la parola”, restituire il vero significato a parole ormai svuotate, disinnescate, impoverite, banalizzate al punto da portare con sé, inevitabilmente, un impoverimento anche del saper dire, saper rappresentare, poter narrare e argomentare. Chissà cosa penserebbe e farebbe don Milani… vedendo che la parola che lui diceva essere “chiave fatata che apre ogni porta” viene svilita, troppo spesso semplificata in modo sciatto e sbrigativo… tanto da diventare moneta di latta! Forse inviterebbe, con stile risoluto e scarno, ad una nuova resistenza capace di immaginare percorsi di ri-generazione che devono partire prima di tutto dalla cura delle parole, dal ritorno agli etimi e ai significati profondi, perché le parole ormai svilite vanno risanate. Questo atto educativo ri-generativo deve essere personale, familiare e di comunità per poter ri-dare significato e nome alla realtà e alle esperienze di sé, per ri-generare voglia e capacità di senso, di cambiamento, di nuove relazioni di comunità, di prospettiva sociale e di crescita culturale.