Donato de Silvestri

Le Tic rendono più intelligenti?

Dopo quanto detto finora, è ora di rispondere ad una domanda che ricorre quando si parla di utilizzo delle Tic a scuola: il loro utilizzo migliora l’intelligenza e/o le prestazioni scolastiche?
La risposta è molto semplice: non si sa. Sono stati fatti molti studi, ma nessuno di essi è in grado di dimostrare con assoluta certezza che usare queste tecnologie sia una garanzia di miglioramento dell’apprendimento in senso assoluto.
Dobbiamo però entrare nell’idea che la questione, per quanto continuamente posta, è di scarso interesse, anche perché non è lo strumento tecnologico che interessa, ma l’uso che se ne fa e questo vale per qualsiasi tipo di tecnologia si adotti. Si può fare una didattica istruzionista, fondamentalmente centrata sulle conoscenze e sul protagonismo del docente anche utilizzando le più avanzate tecnologie informatiche. Esistono però altre considerazioni che rendono doveroso ed irrinunciabile che i docenti acquisiscano una formazione adeguata sulle Tic e che il loro utilizzo entri a pieno titolo nella scuola.

La questione dei nativi digitali
Con l’espressione nativi digitali (1) (ultimamente si usa molto l’espressione millennial in contrapposizione a boomer) si intendono i soggetti che sono nati e crescono in un ambiente fortemente influenzato dalle Tic. La mia generazione non vi appartiene. Nel nostro caso si parla di immigrati digitali, ossia soggetti che sono nati e cresciuti in un ambiente diverso e che nel digitale ci sono arrivati, se ci sono arrivati, come delle persone che migrano da un posto ad un altro. Ciò non significa che gli immigrati non possano essere talora più “digitalizzati” degli stessi nativi, almeno per alcune pratiche. Penso ad esempio ai boomer che vivono in una situazione di radicata dipendenza dallo smartphone, a chi è costantemente in chat con i più diversi gruppi, a chi non può astenersi dal pubblicare la foto del nipotino o dell’arrosto appena sfornato.
Per i nativi però è diverso perché il loro cervello è diverso.
Detto così potrebbe sembrare eccessivo, ma se vogliamo arrivare al dunque senza tanti preamboli la questione è proprio questa. Gli studi neuroscientifici hanno infatti ampiamente dimostrato che il cervello umano è una struttura fondamentalmente plastica e viene modificata strutturalmente dalle sollecitazioni che provengono dall’esterno. Ciò avviene con la sola esposizione, senza che vi sia una partecipazione volontaria durante i primi anni di vita, ma poi il cervello continua a cambiare modificando i circuiti neurali, per tutta la vita, purché vi sia una stimolazione esterna significativa e l’adesione da parte del soggetto. E’ quindi lampante che i bambini di oggi risentano dell’esposizione ad un ambiente iper-regolato ed iper-determinato dalle Tic.
Si potrà dire che si stava meglio quando non ci sentivamo soli senza lo smartphone in tasca, quando non avevamo bisogno di essere costantemente ed ovunque connessi, quando l’auto non decideva da sola se frenare o quando gli adolescenti scrivevano i propri amori o gli insulti su dei bigliettini di carta, o sui muri, al posto di pubblicarli in un universo senza regole e senza confini, dove tutto diventa di tutti. Magari si stava meglio, ma dobbiamo entrare nell’ordine di idee che le nuove generazioni sono digitali, sono abituate alla velocità, al multitasking, al vagabondare, magari un po’ a casaccio, in universi tecnologici. Si annoiano invece di fronte alla linearità tipica della scuola dritta, all’informazione monocanale, alla testualità ed al linguaggio simbolico.
Detto ciò, una cosa è acclarata: gli educatori boomer non possono limitarsi a denunciare che tutto questo è sbagliato e non sviluppa il tipo di intelligenza che vorrebbero. Non si può nemmeno per compensazione rendere la scuola una sorta di porto franco libero dalla tecnologia. Bisogna innanzitutto capire e sapere trovare conseguentemente le giuste sintonie.

In definitiva TIC cosa e come
Diciamo subito che si possono distinguere due vie maestre: insegnare le Tic ed insegnare con le Tic. Nel primo caso si tratta di spiegare cosa sono e come funzionano, compito che potrebbe sembrare inutile con dei nativi digitali. Non è però detto, perché il tipo di apprendimento spontaneo con cui si entra in contatto con questo mondo non è accompagnato quasi mai da un’adeguata riflessione e dall’acquisizione di alcune fondamentali conoscenze di base su come la tecnologia funziona, sui suoi limiti e sui rischi che comporta. Da una ricerca della Polizia Postale e dell’Università La Sapienza di Roma, in collaborazione con il dipartimento della Giustizia minorile, che ha interessato 1874 adolescenti tra gli 11 e i 19 anni di 20 province italiane, è emerso che solo il 35% degli studenti liceali è cosciente che quando posta una foto o un commento su un social questi diventano visibili a tutti e il 37% degli alunni delle secondarie di I grado è del tutto convinto che rimanga qualcosa di privato tra sé ed il destinatario. Una ricerca condotta da Ipsos per Save the Children dimostra poi che gli adulti hanno gli stessi livelli di inconsapevolezza dei loro figli nell’uso di Internet e ciò fa capire che una corretta informazione può arrivare solo dalla scuola. Lo studio sostiene che il 90% degli utenti non adotta alcuna misura di protezione della propria immagine e quasi mai si cura di cancellare i post vecchi, solo il 12% toglie il tag del proprio nome quando posta una foto e solo 19% degli adolescenti e il 16% degli adulti ha effettuato dei blocchi di accesso nei propri profili social. C’è poi la pesante questione del cyberbullismo, ossia del bullismo praticato utilizzando Internet, che sappiamo avere effetti catastrofici e spesso nella più totale mancanza di consapevolezza da parte di chi esercita l’azione. Gli autori normalmente si giustificano dicendo che si trattava solo di un gioco ristretto ad alcuni amici.
Bisogna poi rendere consapevoli dei rischi legati alle fake news. Alcuni ricercatori del MIT hanno pubblicato su Science una ricerca da cui emerge che le fake news sono più veloci di 20 volte delle notizie vere ed hanno il 70% di probabilità in più di essere condivise con un retweet (2). I diffusori di notizie false, umani o algoritmi, utilizzano metodi sempre più sofisticati e bisogna educare le nuove generazioni a difendersi. Bisogna dare loro gli strumenti per verificare l’attendibilità di ciò che arriva da Internet, perché si tratta di un enorme contenitore, ricco di immense potenzialità, ma dove per pubblicare non è richiesto alcun requisito. Inoltre i nativi digitali sono dei grandi smanettoni sui social, nelle comunicazioni via chat e nella navigazione in Rete, ma usano pochissimo i programmi applicativi come i fogli elettronici ed i data base, che sono oggetti utilissimi sia nella vita personale che in quella professionale. Non bisogna, in sintesi, dare per scontato che i nativi digitali conoscano la tecnologia ed il suo uso corretto.
La seconda via maestra è quella dell’utilizzo delle Tic come mezzo per potenziare l’azione didattica, come ho detto a proposito di coding e pensiero computazionale, all’uso del word processor, alla flipped classroom ed alla classe virtuale ed alla DID (Didattica digitale integrata) che gli insegnanti hanno avuto modo di conoscere a causa del Covid, ossia l’approccio blended (3), che consiste nell’utilizzare l’aula virtuale a fianco di quella in presenza, rendendole complementari.
Una terza questione fondamentale è quella legata all’errore che spesso si fa nel considerare le Tic come alternative alle tecnologie tradizionali: nulla di più sbagliato. Un buon insegnante fa un uso integrato di tutte le tecnologie disponibili, utilizzandole in relazione al diverso potenziale che possono offrire.
Infine, c’è il problema, che in questi tempi è all’attenzione dei mezzi di informazione, ossia la questione dell’Intelligenza artificiale, portata alla ribalta dalla disponibilità di strumenti come la Chat Gtp. Un nuovo pericolo o una nuova opportunità?
(continua)

NOTE

(1) Il termine è stato usato per la prima volta da M. Prensky: Prensky (2001), Digital Natives, Digital Immigrants, On the Horizon
(2) Studio pubblicato in http://news.mit.edu/2018/study-twitter-false-news-travels-faster-true-stories-0308
(3) Questo approccio è stato impiegato in modo massiccio in Italia per la formazione del personale docente e dirigente dalla Piattaforma Puntoedu gestita da Indire.