Paolo Acanfora

La violenza politica e la scuola

Nell’ultimo periodo si è assistito ad una pressante richiesta di intervento contro crescenti episodi di violenza maturati dentro e nei pressi della scuola. Violenza che ha assunto forme diversissime: dal bullismo tra studenti al maltrattamento dei docenti, passando per comportamenti caratterizzati da soprusi e prepotenze in larga parte verbali ma non meno gravi degli uni contro gli altri, spesso coinvolgendo anche la categoria (cruciale nei rapporti scuola-famiglia) dei genitori. La scuola è, d’altronde, un luogo che non può immaginarsi impermeabile alle dinamiche della società ed esse, con tutta evidenza, mostrano una violenza ed un’aggressività diffuse in modo sempre più capillare anche tra i giovani e i giovanissimi.
Tra gli episodi di violenza sono riapparsi anche quelli a carattere politico. Un fenomeno ancora di modestissime dimensioni ma che pure suscita preoccupazione e rievoca vecchi fantasmi. Quelli dei decenni Sessanta-Settanta naturalmente ma anche, andando più a ritroso, le violenze dello squadrismo fascista. Un precedente storico ultimamente richiamato, in seguito a risse e pestaggi scatenatisi davanti alla scuola per ragioni, appunto, politiche. L’ambiente scolastico, come quello universitario, è stato spesso al centro dell’attivismo politico e, quindi, uno spazio in genere particolarmente sensibile alla radicalizzazione ideologica. Per delle sensate comparazioni con il passato, mancano, tuttavia, oggi diversi elementi. Non mi pare si possa dire, infatti, che le nuove generazione siano, in modo significativo, politicizzate. Anche la scena politica nazionale – benché decisamente più polarizzata che in precedenza – non è, almeno al momento, indirizzata verso uno scontro aperto tra concezioni politiche e visioni ideologiche di sistema radicalmente alternative.
Si assiste, insomma, ad una sorta di ossessiva rievocazione storica di vecchie paure in grado di giustificare gli allarmi del presente. Ma è un esercizio che, paradossalmente, rischia – almeno in molti settori della società, poco sensibili a questi richiami – di sminuire e ridimensionare episodi che devono invece essere compresi e rappresentati in tutta la loro gravità. Quanto accaduto nei giorni scorsi di fronte al liceo fiorentino non può, naturalmente, essere letto come il preludio ad un ritorno del fascismo in Italia né come la riedizione aggiornata dei conflitti di cinquant’anni fa. Ma ciò non significa in alcun modo che quegli episodi siano meno gravi e che vadano sottovalutati. Soprattutto, la scuola non può rimanere indifferente ad essi e bene fanno i dirigenti scolastici a lanciare allarmi e a reagire sull’unico piano di propria competenza: la formazione.
Quando si propone – come si è fatto in questi giorni – l’idea che la scuola debba limitarsi a formare buoni studenti, si compie una vera e propria amputazione di competenze e soprattutto si elude il punto fondamentale del discorso (che a qualcuno, magari, apparirà retorico): la formazione di buoni studenti procede di pari passo alla formazione di buoni cittadini. La scuola partecipa in maniera cruciale alla promozione della cultura del dialogo per la costruzione di una “open society” o, come affermava il grande storico George Mosse, una “debating society” dove gli individui e i gruppi sociali si confrontano (e scontrano) liberamente, nel rispetto delle regole di cui un sistema democratico è dotato. La violenza – e ancor più la violenza politica – non può ovviamente avere alcun posto in esso, essendone la più radicale negazione.
In questa direzione, la lettera della dirigente scolastica del liceo “Leonardo Da Vinci” di Firenze può certamente contenere inesattezze e giudizi storici discutibili ma risponde in ultima istanza all’esigenza di promuovere un’educazione alla tolleranza e al dialogo per tutta la comunità studentesca.
Ora, il ministro dell’Istruzione ha, ritengo, tutto il diritto di non condividere personalmente i giudizi di una docente o di una dirigente scolastica in merito agli eventi in questione e ai loro presunti legami ideali con il passato ma ha altresì il dovere di condannare qualsiasi forma di violenza nella scuola e di dotare questa di tutti gli strumenti necessari per costruire una solida cultura civica nelle giovani generazioni. Il presidente della Repubblica Mattarella ha colto perfettamente la gravità degli eventi riconoscendo nella scuola il luogo per eccellenza dove costruire una cultura dell’impegno e della solidarietà che funga da “antidoto”, da “diga” contro la violenza, la prepotenza, la sopraffazione. La risposta alla violenza è la difesa delle ragioni della civiltà. E questa difesa va fatta innanzitutto negli istituti scolastici.
Il richiamo al fascismo incipiente è, ripeto, un espediente spesso controproducente. È del tutto evidente che la violenza non è ipso facto espressione di una concezione politica fascista ma è altrettanto indubitabile che non esiste fascismo senza violenza politica. La visione, la mentalità, la cultura fascista sarebbero inconcepibili senza la convinzione che la violenza debba essere il metodo dell’azione politica.
Qualsiasi educazione civica mirante ad educare gli studenti alla convivenza democratica non può, dunque, che essere il contrario della concezione fascista. Se, in questa direzione, a taluni può dispiacere il richiamo ad un intellettuale comunista come Gramsci, lo si può tranquillamente sostituire con liberali come Croce o Amendola, con socialisti riformisti come Turati, con socialisti liberali come Gobetti o cattolici democratici come Sturzo. Per tutti costoro l’indifferenza era un pericolo per la nostra civiltà.