Ivo Lizzola

Don Milani, la parola per gli scartati

La parola in tempo di durezza rischia d'essere svuotata e tradita. Non impegna più chi la scambia in una promessa di attenzione e giustizia. Per chi la cerca non è più il sentiero per un cammino di "approssimazione" e di accoglienza della verità. La parola non è più l'antica esperienza della capacità di ricevere e di rispettare la vita e la realtà offerta, e di risuonarne come "parola aurorale".
La parola si fa, nella durezza, esercizio di forza, ricerca di primato, o strumento di esclusione. Si fa luogo di giudizio duro, anche violento, espressione della volontà di potenza, della riduzione dell'altro a cosa, disponibile per trattamenti ed utilizzi. La parola è il potere, la parola è la cecità, la parola è la negazione, la distruzione. Questo diventa la parola che afferma e che dispone: quella che non ascolta, che non tesse, che non cerca risonanze. È parola "prima" che prende cose e persone: "rapace" direbbe Raimón Panikkar.
Pietro Stefani in un piccolo e denso libro, I volti della misericordia (1), parla di una parola “seconda”, quella che nasce da altro, da un incontro che ti provoca, che ti scuote: ti mette in movimento e ti chiede un posizionamento. Ogni parola seconda ha bisogno di un interlocutore che è altro da sé e chiama oltre. Le realtà che si disegnano nelle parole seconde si collocano tra noi: tra noi può esserci non solo rispetto ma anche annuncio soprattutto quando l’incontro si dà nella fragilità estrema, nella quasi impossibilità dell’incontro.
La fragilità estrema porta lontano, in un luogo dove non si può essere raggiunti: lì non ci si riconosce facilmente, si può temere di riconoscersi. La fragilità e la ferita incontrate evocano la nostra fragilità e le nostre ferite non ricomposte. A volte questo provoca un movimento di allontanamento. Eppure, altre volte, a questo sa resistere il nostro desiderio profondo di comunione, e allora diventiamo capaci di un gesto di amore. Gesto che non è “nostro”, frutto di una nostra intenzionalità, anche se passa attraverso la nostra presenza e la nostra disposizione. La parola che la scuola deve offrire agli "scartati" è quella che può aprire un cammino per accogliere la realtà dell'umanità che cerca la liberazione dalla oppressione, dalla disumanizzazione, dallo sfinimento. Un cammino molto impegnativo: non si dà come una facile e luminosa palingenesi, non garantisce neppure un affrancamento pieno e desiderato. È un cammino verso un più pieno esercizio della libertà.
La libertà è dura e difficile specie per chi vive da tempo fuori dall'"influsso vivificatore della parola”, cioè del mezzo per ricevere l'apporto degli altri, per cercare significati e verità, per cogliere responsabilità e dire riconoscenza e stupore meravigliato. Da tutto questo son tagliati fuori molti e non solo “perché son sicuro che proprio manca loro materialmente un possesso sufficiente della parola”, ma soprattutto “per non volerla possedere, per non volerle dar luogo nella vita, per non aver conosciuto la sua dignità vivificatrice, la sua capacità di spiegare, di trasformare, di costruire” (2).
La parola è qualcosa che può espandere o che invece può murare i tesori dei figli scrive don Lorenzo Milani su Il Mattino nel marzo ’56. È la parola che segna “la soglia tra il dentro e il fuori (…) anzi è la soglia stessa”(3). La parola deve, però, essere parola libera, consapevole, responsabile. Se ai poveri è tolto di esprimersi, di conoscersi e di scegliere, denuncia più volte il priore, ai ricchi che possiedono una parola che non è libera e non è responsabile, è tolta la conoscenza delle cose, della vita.
Dominare la parola aiuta a pensare ma per pensare bene occorre pensare ciò che è giusto. Pensare in modo libero è una meta da raggiungere, a volte ardua: non è un dato di partenza, serve un’esperienza della vita. Occorre “appartenere alla massa” (alla vita con gli altri, alla vita con gli esclusi diremmo oggi) e insieme possedere la parola. E non una parola qualsiasi, che non impegna in nulla chi la dice, ma una parola che arricchisce, che cerca, che lega e che “obbliga”.
Tutto questo rinvia ad un evento educativo nel quale si diano apprendimenti strettamente connessi con l’esperienza di vita. Apprendimenti pensati dall’ascoltare, dall’interrogare, dal credere. Un educatore che vive queste realtà si sente profondamente debitore verso i suoi allievi. Proprio loro sono stati decisivi nel percorso di conversione e di trasformazione di don Lorenzo Milani: “sono debitore”, annota, “sono i ragazzi che fanno vibrare noi per cose alte”, che conducono a “edificare noi stessi” (4).
La parola è importante per chi non (ne) è ricco perché permette alla vita di farsi esperienza: attraverso l’incontro, i legami, le verità incontrate, e con la cura della scrittura, della lettura, della critica. Nella vita dei poveri questo spesso non si dà. “A vivere nella solitudine, senza il contrappeso della cultura o del pensiero, o di un’intensa spiritualità, sono diventati davvero animali inferiori. I volti gelidi mi dicono che le mie parole non passano nemmeno la soglia delle orecchie. C’è di mezzo un rifiuto preconcetto all’ascolto, al ragionamento, alle decisioni”.
Non sono uomini e non vogliono esserlo. “E se anche questa parola pare una bestemmia al nostro essere tutti figlioli di uno stesso Padre, lo dico per esprimere quanto l’immagine divina sia seppellita in loro sotto un cumulo di sovrastrutture che non sono né divine né umane (…). Mi rispondono con l’unica parola che sanno dire; il broncio. Un broncio cieco, sordo e muto. (…) Sono chiusi in se stessi, nell’egoismo più elementare. L’egoismo dell’infante e della belva”  (5).
Il morso della durezza della vita e la mancanza di parola avvelenano, portano all’ottundimento, alla passività complice o alla violenza. Nella vita dei poveri quando la parola riesce a entrare svela invece l’essenzialità di quel che è esperienza della vita. Riporta all’origine delle passioni, delle ambivalenze, dei legami; svela adattamenti, paure, furbizie, rabbie. Crea legami e progetti.
La povertà vera è il non sapere esprimersi, è povertà dell’anima, della immaginazione, della responsabilità. La parola serve per ascoltare sé e dentro di sé, oltre che per “prendere” parola. E apre alla possibilità di parlare con altri, di collaborare, di trasformare. “É solo la lingua che fa eguali”, e che fa unici. Non è questione solo di pratica del concetto, è capacità di apertura di nuovi mondi possibili, è impegno reciproco, è immaginazione.
Educare a questa parola significa ferirsi scrive Eraldo Affinati ne L’uomo del futuro: parla di don Milani, ma anche dell’uomo che si annuncia in ogni ragazzo. L’adulto, l’educatore sa che andrà dove si farà male, si scotterà le mani davanti all’irriducibilità dell’altro, sarà condotto là dove non si aspettava di trovarsi, a volte dove non voleva. D’altra parte se è maestro ed ha la responsabilità ha già ricevuto molto: e sa che non è merito, è dono da mettere a disposizione d’altri.
La parola, specie se si è poveri di parole, serve per sciogliere i nodi dell’esistenza. Se non lo si fa si rischiano il cinismo, la volgarità, l’egoismo, l’indifferenza. Con la scuola e la parola si può tornare a dare buoni frutti, e rifiorire, partecipando alla creazione, realizzando l’umanità propria grazie anche all’altrui. Poi chi educa lascia, si fa da parte, resta indietro e guarda. Vive come una consegna. Un maestro quando parla guarda negli occhi, è felice dei ragazzi vivi e ribelli, e sempre “fa entrare la propria scomparsa nell’impostazione pedagogica” (6).

NOTE

  1. P. Stefani, I volti della misericordia, Carocci, Roma, 2015
  2. Ibidem, p.57
  3. don L. Milani, Lettere a Meucci, in Esperienze Pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1997, p.306
  4. ibidem
  5. don L. Milani, Esperienze Pastorali, cit. p.57
  6. E. Affinati, L’uomo del futuro, Mondadori, Milano, 2016, pp.159-160