Ivana Barbacci

Un anno di guerra

Il 24 febbraio è trascorso un anno dall’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. Quella che doveva essere una fulminea operazione speciale non solo si è protratta nel tempo, ma ha purtroppo margini non irrilevanti di ulteriore sviluppo verso scenari che non si esagera a definire apocalittici.
Avvertiamo tutti il desiderio e la necessità di individuare una via d’uscita che non faccia dello scontro armato l’unica possibile soluzione del conflitto: voglio augurarmi che il lavoro delle diplomazie, per sua natura sottratto alle luci della ribalta, sia comunque in atto.
Credo sia importante che contro la guerra e a sostegno della pace ci si mobiliti con la stessa intensità e ampiezza di partecipazione registrate in altre stagioni e per altri conflitti. Se possibile – aggiungo – con meno ambiguità di quanto ogni tanto oggi accada: credo anzi che siano anche quelle ambiguità a non favorire la coralità di risposta di cui ci sarebbe tanto bisogno.
Se è vero, come si afferma, che la guerra in atto - come tante altre più nascoste e spesso dimenticate – è il prodotto di un modello di sviluppo e delle relazioni internazionali dominato dal mercato, è almeno altrettanto vero che il 24 febbraio dello scorso anno un paese sovrano è stato invaso dalle forze armate di un altro paese. Una palese evidenza che sono in troppi a negare. È lo stesso svolgimento del conflitto, interamente ed esclusivamente in territorio ucraino, a dirci in modo inequivocabile chi siano gli invasori e chi gli invasi. A mettere in pericolo la pace nel mondo, in base ad alcune letture degli eventi, sembrerebbero invece più gli aggrediti che gli aggressori. Se li hanno invasi – questo è il sottinteso – qualcosa avranno fatto. Un modo di ragionare che vede saldarsi alleanze inimmaginabili (Vauro che dichiara di voler “baciare in bocca” Berlusconi ne è un bell’esempio), e che porta molto spesso a nobilitare come anelito alla pace una mera e molto diffusa aspirazione al “quieto vivere”. Al “proprio” quieto vivere, per l’esattezza. Col quale come è noto non si fanno rivoluzioni, né si cambia il mondo.
Come si fa a non condividere l’aspirazione a vedere intensificati gli sforzi per una soluzione diplomatica, per un cessate il fuoco da ottenere quanto prima possibile? Ma non sta scritto da nessuna parte che tale aspirazione presupponga un atteggiamento di equidistanza, ingiusto e ingiustificabile alla luce di quanto è accaduto e sta accadendo. È proprio quella malcelata equidistanza, che talvolta si traduce addirittura in vero e proprio rovesciamento delle colpe, a togliere credibilità agli appelli di tanti neo-pacifisti.
A desiderare più di ogni altro un cessate il fuoco penso sia soprattutto quel “martoriato popolo ucraino” al quale ogni domenica, da un anno, all’Angelus rivolge il suo accorato pensiero papa Francesco. Parole ripetute ogni volta in modo chiaro, diretto, inequivocabile, come lo furono l’anno scorso quelle del Presidente Mattarella quando, nelle celebrazioni del 25 aprile, citò in riferimento all’invasione dell’Ucraina – come prima di lui aveva fatto la senatrice Liliana Segre – la frase iniziale di “Bella ciao”.
Corro il rischio, dicendo quello che sto per dire, di sentirmi definire guerrafondaia: ma mi chiedo se una pace che si limiti di fatto a registrare e sancire il sopruso condotto nei confronti di uno stato sovrano possa rappresentare davvero la premessa di un ordine mondiale diverso e migliore di quello a causa del quale, come si afferma, questa guerra sarebbe esplosa. Questa mi sembra la domanda che dovremmo porci, anche con una certa urgenza. A meno di non coltivare, più o meno consapevolmente, qualche nostalgia per un mondo diviso in blocchi e per il “quieto vivere” che quella divisione, insieme alla miseria sopportata pazientemente da quattro quinti dell’umanità, bene o male ci ha per qualche decennio garantito.

Post scriptum
ono ancora del Presidente Mattarella, pronunciate pochi giorni fa, le poche, essenziali e chiare parole con cui viene definita la natura del conflitto in Ucraina: “Nella nostra Europa – ha sottolineato il Presidente - non si vedeva una guerra con cui uno Stato aggredisse un altro Stato per conquistarne territori o addirittura per annetterlo interamente, non si vedevano fenomeni del genere dagli eventi drammatici che hanno preceduto e condotto alla Seconda guerra mondiale”.
Altrettanto chiare le parole di condanna per l’aggressione agli studenti davanti alla scuola Michelangiolo di Firenze, accomunata ad altri comportamenti riconducibili a modelli di vita improntati a prepotenza, sopraffazione, violenza: contrastarli è uno dei presupposti per affermare politiche di pace. Quella pace che, ci ammonisce Mattarella “non è soltanto frutto degli accordi tra governi… è anche frutto dei sentimenti dei popoli, di come all’interno di essi si vive e ci si esprime”. È questo a rendere profondamente sbagliato ogni atteggiamento di sottovalutazione, indifferenza o peggio verso atti che avrebbero meritato da parte di tutti, in primo luogo da chi riveste ruoli di governo, una condanna immediata, esplicita e inequivocabile, di cui siamo ancora in attesa.