Donato de Silvestri

Insegnare con le TIC/2

Coding pensiero computazionale
Chi come me, aveva portato il computer a scuola nei primissimi anni ‘80, convinto che fosse uno strumento per fare un salto di qualità, promuovendo quello che a quel tempo chiamavamo lo sviluppo del ragionamento informatico, si è sentito in qualche modo tradito dalla via intrapresa successivamente, ossia un alquanto banale uso di programmi applicativi, caratterizzato dall’installazione di laboratori dove portare ogni tanto gli alunni a fare delle esperienza e quasi sempre al di fuori del normale percorso scolastico. Infatti, logica del laboratorio, presentava molti punti di debolezza, ma era giustificata dal fatto che all’inizio si potevano avere solo pochi computer e tenerli assieme consentiva di lavorare con gruppi numerosi.
C’era poi un altro aspetto, ossia il fatto che i computer non erano disponibili nella quotidianità necessaria a scuola e erano veramente poche le famiglie che li possedevano; conseguentemente Una parte importante dell’insegnamento era orientato ad imparare come il computer funzionava e come si interagiva con esso.
In quegli anni aveva iniziato a predicare Seymour Papert, un matematico di origini sudafricane, che aveva avuto modo di passare 4 anni a Ginevra nel centro di epistemologia genetica e confrontarsi con l’approccio costruttivista di Piaget. Passato a lavorare al laboratorio di intelligenza artificiale del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, in collaborazione con Marvin Minski, aveva ideato un nuovo linguaggio: LOGO. Il suo motto era lasciate che siano i bambini a programmare i computer e non viceversa: sono passati 40 anni, ma non c’è nulla di più attuale.
Logo era un piccolo robot a forma di tartaruga, capace di muoversi a comando su una superficie piana: diversamente da altri linguaggi si poteva dialogare con Logo grazie ad un lessico molto vicino a quello naturale e una caratteristica fondamentale consisteva in una programmazione di tipo strutturale, la quale disincentiva l’operare in modo sequenziale ed obbliga ad organizzare le procedure seguendo un percorso di scomposizione top down.

Il ritorno al futuro
Il senso pedagogico della proposta di Papert(1), che si identifica in un approccio teorico da lui definito costruzionismo, si situa in stretta continuità con il costruttivismo che aveva conosciuto lavorando con Piaget. Trae origine dalla convinzione che l’apprendimento si debba fondare sull’esplorazione, l’esperienza e la manipolazione. Egli sostiene la necessità di passare dal ruolo di consumatori di informazioni a produttori di conoscenza. Ecco i principi che connotano la sua impostazione (2)

  • La centralità dell’alunno che diventa protagonista attivo del proprio apprendimento
  • L’inversione epistemologica, che consiste nel passare da un approccio in cui si impara per saper fare al fare per imparare
  • La priorità dell’apprendimento basato su quelle che Piaget chiamava le operazioni concrete rispetto alla formalizzazione e teorizzazione del pensiero. Papert nota come spesso anche le più sofisticate elaborazioni teoriche derivino dall’esperienza, talora casuale.
  • L’apprendimento sintonico, ossia significativo per il soggetto, e fondato sulla continuità con il suo vissuto, agendo in progetti ricchi di significato e di valenza culturale
  • L’utilizzazione dei micromondi di Logo(3) come delle palestre cognitive, in cui i bambini sono costantemente impegnati in attività di problem finding e il problem solving
  • L’uso educativo dell’errore, ossia l’errore non deve essere visto come una deviazione rispetto al percorso corretto, ma è proprio l’individuazione dell’errore e la capacità di correggerlo che costituiscono un’importante occasione di apprendimento. È l’operazione che in termini tecnici i programmatori chiamano debugging, ossia eliminazione dei bug che impediscono il corretto funzionamento del programma.

Sono queste le stesse logiche sottese oggi al cosiddetto Coding e al Pensiero computazionale. La pratica del coding, ossia della programmazione, è oggetto di progressiva diffusione nei sistemi scolastici europei, e in qualche caso è addirittura introdotta all’interno dei curricula obbligatori. In Italia è stata ufficialmente assunta come una competenza da acquisire con la legge 107/2015, che ha posto tra gli obiettivi prioritari una forte incentivazione dell’uso delle tecnologie informatiche e delle prassi educative ad essa connesse. È bene chiarire che qui l’obiettivo non consiste nell’acquisire competenze in vista possibilità lavorative aperte nel mondo della programmazione (si pensi solo all’esplosione delle app per gli smartphone), o meglio questo è uno scopo secondario. Il fine è quello di costruire un “pensiero computazionale”, ossia nel promuovere la capacità di saper affrontare e risolvere i più diversi tipi di problemi. Uno dei guai di quella che io chiamo scuola dritta, caratterizzata da lezione, esercizio, approfondimento a casa e verifica, è di aver coltivato prioritariamente la via dei problemi ben posti e ben definiti, risolvibili con l’applicazione, più o meno automatica, di algoritmi risolutivi. Ricordo che da studente i problemi di matematica erano degli artifizi teorici per vedere se sapevi applicare le regole che avresti dovuto studiare. Accade ancora? Promuovere il pensiero computazionale significa uscire da questa logica, imparare ad analizzare lo spazio di un problema, anche mal posto, imparare a semplificarne la complessità scomponendo i problemi in sottoproblemi, inventare delle procedure risolutive, saperle rappresentare, scrivere e verificarne la correttezza con l’uso di un automa, che, in quanto tale, esegue pedissequamente gli ordini ricevuti. L’uso dell’automa, che caratterizza anche l’impianto educativo della robotica, è focale perché è un modo molto efficace per verificare la correttezza della procedura, individuare eventuali errori e fare il debugging, ossia risolverli autonomamente. Con gli studenti all’università o con i docenti in formazione io propongo dei problemi, anche di natura molto pratica e legati ad esperienze comuni come, ad esempio, fare il caffè con la moka. Chiedo cioè di predisporre l’algoritmo risolutivo di qualcosa che dovrebbero saper fare molto bene e sistematicamente vengono presentate procedure scorrette, che danno per scontate variabili molto importanti. C’è chi parte dicendo che bisogna riempire d’acqua la parte inferiore, trascurando il fatto che la moka deve essere stata aperta, chi mette il caffè nel filtro senza aver chiarito se contenesse ancora i fondi del precedente, e così via. Se chiedi ad un automa di provare la procedura immediatamente emergono gli errori. Vediamo quindi che l’automa non deve necessariamente essere un software, come Logo, o un robot: può essere anche una persona che è stata istruita ad agire solo e soltanto eseguendo dei comandi prestabiliti. Con i bambini si possono fare, o meglio si debbono fare, esperienze preliminari di quella che nei tempi pionieristici chiamavamo informatica povera, ossia senza l’uso dei computer, che allora non ci si poteva ancora permette di avere. Il CEDE (Centro Europeo dell'Educazione) di Frascati, con il coordinamento di Mario Fierli, aveva predisposto una serie di unità d’apprendimento all’interno di un progetto denominato IRIS ed io stesso avevo approntato delle piccole pubblicazioni stampate con il ciclostile che avevano sollevato un diffuso interesse tra i docenti. Ho detto “devono” perché è importante che i bambini abbiano un approccio di tipo corporeo, che sperimentino muovendosi nello spazio, provando su di sé, entrando fisicamente nell’esperienza. Posso però assicurare che la cosa è altrettanto utile con gli adulti, anche se quando li bendi per farli diventare automi e li costringi a passare tra bottiglie di plastica, dentro cerchi, o su bascule precarie, devono vincere un imbarazzo che i bambini non hanno. L’automa, quindi, può non essere necessariamente tecnologico, ma usare un software o un robot, magari affiancandolo ai giochi di percorso, è molto efficace per una serie di ragioni. Primo perché è difficile che l’automa persona si limiti ad eseguire meccanicamente, ma soprattutto per l’attrattiva che ha l’oggetto tecnologico. In questo caso, come accennavo, si può ricorrere a due opportunità: la più semplice e meno costosa è un software e la seconda e la via della robotica. Purtroppo non è più disponibile il linguaggio Logo che io ritengo per certi versi tuttora più interessante delle soluzioni più attuali. Come ho spiegato più sopra, Logo ha il vantaggio della sua natura procedurale che porta ad imparare e risolvere i problemi strutturandoli in sottoproblemi.

[continua]

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NOTE

  1. Papert S., (1980), Mindstorms. Children, Computers and Powerful Ideas, Inc., New York; Reggini H.C. (1984), LOGO Ali per la mente, Mondadori, Milano
  2. Harel I., Papert S. (1991). Constructionism, Ablex Publishing, New York.
  3. Papert S. (1998). Strumenti di didattica multimediale. MicroMondi. Il logo multimediale per imparare nel 2000, Garamond, Roma