Raffaele Mantegazza

Gli insegnanti non si sottrarranno al conflitto ma nemmeno al dovere di decidere

Una bambina e suo padre stanno giocando nel salotto della loro casa; ad un certo punto la bimba dice: “Papà ho fame” e il padre risponde “È vero, dobbiamo cominciare a pensare a qualcosa per la cena”. La bimba chiede “cosa mangiamo papà?”. “Beh in frigo ci sono i cannelloni ripieni da passare al microonde oppure possiamo scendere nella pizzeria qua sotto e prendere una pizza d'asporto”. “I cannelloni e la pizza! Sono buoni tutti e due” dice la bambina “Si ma non si possono mangiare tutti e due: bisogna decidere”. La bambina pensa un po’ e poi chiede “Papà, ma chi decide?” “Decidi tu se vuoi” risponde il padre: la bambina riflette ancora un po’ e poi chiede: “Papà ma chi decide chi decide?”.
Questa piccola storiella che mi è stata raccontata moltissimi anni fa dal mio professore di psicologia sociale all'università mi sembra davvero emblematica di quello che può essere il ruolo dell'adulto in una relazione educativa. Un adulto cioè che non decide sempre tutto, ma che decide chi decide, che disegna il perimetro all'interno del quale il bambino, il ragazzo, il giovane possono prendere delle decisioni.
Ovviamente questa storia presenta anche altre caratteristiche interessanti. È possibile che in frigorifero ci fossero anche i profiteroles al cioccolato ma il padre non li ha nominati proprio perché stava tracciando i confini della possibile decisione presa dalla bambina. Questo significa anche che probabilmente la bambina andrà lo stesso a intingere il dito nella salsa di cioccolato dei profiteroles e il padre dovrà decidere se tollerare la piccola trasgressione o intervenire. Inoltre nei giorni successivi il padre potrà ulteriormente allargare il perimetro proponendo altre scelte e infine, se la bambina avrà scelto i cannelloni e a metà cena ne se ne pentirà, il padre potrà dire che la pizza la si potrà mangiare il giorno successivo e insegnare così alla ragazzina la responsabilità rispetto alle proprie decisioni. La stessa cosa ovviamente in positivo accadrà se la pizza sarà particolarmente buona e il padre farà i complimenti alla figlia per la scelta, Parlando una volta tanto di responsabilità in senso positivo, cosa che si fa di rado con i ragazzi che sentono usare questa parola soltanto quando devono essere rimproverati o puniti.
Come si traduce questa storiellina in ambito scolastico? Per esempio proponendo ai ragazzi due date alternative per una verifica, magari la prima ravvicinata e la seconda più in là nel tempo, e dicendo loro che se sceglieranno la data più lontana dovranno affrontare un argomento in più: a questo punto si lasciano decidere i ragazzi ma il buon insegnante osserva le dinamiche di decisione e fa poi riflettere la classe su come è arrivata alla scelta. La quotidianità scolastica è piena di queste possibilità: pensiamo alla decisione rispetto alla durata dell'intervallo o al tipo di giochi da svolgere nella scuola primaria fino alla possibile scelta, per i ragazzi più grandi, rispetto alla tempistica relativa alla didattica: sì proprio alla didattica, proprio a quell’oggetto sacro che molti insegnanti pensano essere soltanto una versione rinnovata delle Dodici Tavole da far calare dall'alto e che invece deve essere oggetto di incontro e di continua contrattazione con i ragazzi. La didattica è un sapere relazionale, e non esiste relazione senza conflitto.
Ed è proprio la parola “conflitto” a fare tanta paura agli adulti, agli insegnanti, agli educatori. Come ci ha insegnato il pensiero nonviolento il conflitto non è assolutamente sinonimo di guerra, anzi semmai quest'ultima è la peggior soluzione possibile alle situazioni di conflitto. La scuola dovrebbe insegnare ai ragazzi e alle ragazze a vivere dentro il conflitto, a non fuggirne, a cercare soluzioni creative che permettono di non fare male a nessuno e soprattutto che garantiscano la tutela e il rispetto dei diritti di ciascuno. Una delle forme del conflitto che si manifesta a scuola è ovviamente quella intergenerazionale, acuita dal fatto che gli insegnanti dispongono di un potere sui ragazzi; anche questa parola, “potere”, vissuta con difficoltà dagli educatori, come se di per sé si trattasse di qualcosa di negativo, come se fosse un sinonimo di autoritarismo, punizione, coercizione.
È vero che purtroppo la scuola italiana attuale è ancora fortemente modellata su un modello impositivo e punitivo, che non ha altro effetto sono quello di allontanare i ragazzi dalla scuola o di colpire in modo molto profondo quelli più deboli e più fragili. L'immagine che molti ragazzi restituiscono dei loro rapporti con gli insegnanti purtroppo spesso si snoda a partire da due poli: da un lato le persone che sono state loro indifferenti perché non hanno minimamente influito sulla loro vita, dall'altro quelli che hanno giocato un autoritarismo pesante e non hanno accettato l'autonomia degli studenti. Ovviamente c'è anche dell'altro, per fortuna, nella scuola, ovvero le figure di insegnanti (non poche ma purtroppo spesso isolate) che sanno utilizzare il loro potere con autorevolezza. Il potere degli insegnanti può infatti essere utilizzato a vantaggio del ragazzo: diventa così non un potere di reprimere, censurare, punire ma un poter far crescere, un poter-lasciar-essere; è chiaro che in quest'ultima definizione il potere educativo vive di un paradosso, perché sceglie di limitarsi, sceglie di tramontare, sceglie di lasciar essere l'altro invece che occupare tutta la scena. Il difficile equilibrio del quale stiamo parlando è un problema che gli esseri umani si sono posti da sempre quando hanno dovuto impegnarsi in una relazione educativa. Ricordiamo la famosa metafora di Freud che sosteneva che l'educatore deve trovare un equilibrio tra l'lo Scilla della lasciar fare e la Cariddi del reprimere, indicando con i nomi di due famosi mostri marini, in mezzo ai quali i navigatori dovevano passare senza sbilanciarsi da una parte e dall'altra, le due posizioni estreme che occorre evitare. Ma in realtà c'è qualcosa di più profondo che un’equidistanza tra disinteresse e punizione; quella dell'educatore e dell'insegnante non è soltanto una terza posizione ma è il superamento della falsa dialettica, è un atteggiamento realmente educativo che prevede la possibilità di giocare i conflitti in modo non distruttivo ma anche di imparare qualcosa dei ragazzi, di crescere insieme a loro, di costruire con loro regole che probabilmente l'adulto da solo non avrebbe mai immaginato.
Certo non è semplice reggere il conflitto soprattutto con gli adolescenti: occorre sempre ricordare che l'educatore ha un piede dentro il conflitto e l'altro fuori, che non si lascia mai coinvolgere totalmente nella dialettica con il ragazzo. Questo vale, per i ragazzi più grandi soprattutto, quando si parla di punti di vista, di idee, di posizioni politiche. L'insegnante non deve mai nascondersi, non deve fingere una neutralità falsa, con buona pace di quelli che continuano a dire che l'insegnante non deve fare politica, una frase totalmente vuota di significato. Ovviamente l'alternativa non può essere il plagio. Un'insegnante che crede nella democrazia (e in un paese fondato sulla nostra Costituzione non ci può essere alternativa: la democrazia non è un punto di vista ma è l'ossigeno che permette a tutti i punti di vista di confrontarsi) deve lasciare che i ragazzi manifestino le loro idee insegnando loro ad argomentarle, a confrontarle con le proprie e soprattutto a fare in modo che nessuno possa mai essere escluso dalla discussione.
Da che cosa fugge dunque Lucignolo? Forse da una scuola noiosa, da una scuola che non gli permette di esprimere le sue opinioni e i suoi punti di vista, forse da una scuola nella quale non ha trovato adulti con i quali confliggere, forse da una scuola che lo ha ignorato o punito senza mettersi mai in condizione di capirlo, di fargli giocare liberamente le sue dinamiche di adolescente ma anche di dare a queste dinamiche uno sbocco adulto. La scuola che vorremmo per Lucignano deve essere una scuola nella quale si impara ad argomentare, non si incontrano censure ma ci si confronta con adulti che sanno ragionare da adulti. Uno sguardo all'interno delle nostre riunioni collegiali potrebbe farci capire se siamo veramente in grado, tra noi adulti, di mettere in campo questo tipo di dialettica e di confronto, di gestire serenamente i conflitti. Forse il nostro lavoro coi ragazzi deve iniziare anche e soprattutto nei momenti in cui siamo insegnanti ma i ragazzi non sono presenti.