Emidio Pichelan

L’unica rosa nel pianeta delle verità perdute

Foto di Hans da Pixabay

Questa pagina di storia non sarà mai scritta”, giurava Himmler agli ufficiali delle SS, consapevole della mostruosità della Soluzione Finale. Altro che la banality of evil, la banalità del male, di Hannah Arendt (Processo Eichmann, 1961). L’umana salute mentale non poteva nascondere sotto il tappeto un evento unico come la Shoah. Il Giorno della Memoria (27 gennaio) ci ricorda ogni anno il dovere di non dimenticare. Per non ripetere.
Era un Paese colto e all’avanguardia la Germania della Soluzione Finale; evidentemente anche la ragione può andare in letargo, intossicata da miraggi millenaristici. Non è stato facile, per i sopravissuti di quel 27 gennaio 1945, quando i cancelli di Auschwitz spalancavano sotto gli occhi del mondo orrori indicibili e imperdonabili, esercitare la memoria e avere la meglio sulla voglia di rimuovere, minimizzare, negare, guardare altrove.
La Soluzione Finale è condannata dalla storia; non c’è garanzia che lo sia per sempre. Non c’è che una formula per tener distanti i mostri dell’irrazionalità, abitanti permanenti dell’animo umano: “La memoria è un fuoco che dobbiamo alimentare in una foresta scura. Mentre il fuoco brucia e crea un cerchio luminoso, tutti i mostri del passato mantengono le distanze (…). Il passato si nutre della nostra smemoratezza” (Georgi Gospodinov, vincitore del Premio Strega Europeo 2021).
Sorella memoria ci tiene a ricordare che quest’anno ricorrono cento anni dalla nascita di don Milani, i settantacinque dall’entrata in vigore della Costituzione e dalla sottoscrizione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e i cinquanta dal 1973. Le ricorrenze sono legate tra loro da un evidente filo rosso; un anno specialissimo il 1973, srotolatosi in un decennio di polarizzazione muscolare: da una parte, una destra nostalgica, stragista e golpista; dall’altra, gli ultimi epigoni di una rivoluzione improbabile e non auspicabile, mentre i partiti e i nuovi soggetti sociali, in primis il sindacalismo confederale e un cattolicesimo postconciliare, proseguivano fruttuosamente nel cammino delle riforme e delle innovazioni avviate dal centro-sinistra (d’obbligo le lettura di Miguel Gotor, Generazione Settanta).
Un anno tumultuoso quel 1973: dimissioni di Nixon (30 aprile, Watergate); l’ordigno fatto esplodere da Gianfranco Bertoli nella Questura di Milano (17 maggio, 4 morti e 52 feriti); golpe in Cile (11 settembre, morte del Presidente Allende, Berlinguer lancia il “compromesso storico”); la quarta guerra arabo-israeliana (Yom Kippur, 6-25 ottobre); golpe in Grecia (25 novembre); adozione dell’austerity (2 dicembre: città vuote, luminarie spente); deprecabile agonia del quarantennale franchismo spagnolo (assassinio dell’ammiraglio Carrero Blanco; condanna alla garrota dell’anarchico Puig).
Ha dell’incredibile quello che sboccia in quel tormentatissimo 1973: la sottoscrizione del primo contratto dei metalmeccanici che, tra molto altro, istituiva le 150 ore e la pubblicazione dei Decreti Delegati (luglio 1973-maggio 1974; d’obbligo la rilettura di Francesco Lauria, Le 150 ore per il diritto allo studio, Edizioni Lavoro 2011). La scuola nuova e di massa, disegnata dalla 1859/62, diventava adulta, mentre l’istruzione assurgeva a pietra angolare del nuovo mondo in costruzione dopo il secondo conflitto mondiale, secondo la raccomandazione del Rapporto Beveridge (novembre 1942: dell’ignoranza “non deve essere permessa l’esistenza tra i cittadini di una democrazia”; l’abbiamo ricordato nell’ultimo “il mondo intorno”) e in consonanza con il dettato costituzionale (artt. 3 e 34).
Tutto bene, ma che c’entra in tutto questo il sindacato operaio? L’ha ricordato recentemente Bruno Manghi, formatore di intere generazioni cisline e protagonista delle 150 ore: “il sapere è un bene inestimabile e il sindacato deve andare prima di tutto alla ricerca del sapere”. C’entra come c’entrano don Lorenzo e la tradizione operaia: non c’è emancipazione delle classi subalterne se non con l’istruzione.
Quasi tutto è cambiato da allora. Anche a questo serve la storia: a non spaventarsi del corso degli avvenimenti – tra i quali la riemersione (meglio, la permanenza) di –ismi tossici -, a coltivare le rose. “Nel pianeta delle verità perdute serve soprattutto la storia, l’unica rosa, piena di spine, che bisogna continuare ad annaffiare, stando attenti a non graffiarsi” (M. Gotor, Generazione Settanta). Le culture politiche, annota ancora Gotor, sono come particelle solide: esaurita la loro funzione, non evaporano, “si sedimentano sul fondo e si rimescolano in attesa di tempi e occasioni migliori per ritornare in superficie”.
L’aveva scritto, agli inizi del presente secolo, un altro storico di valore, Tony Judt, in controtendenza all’eccessiva euforia seguita alla caduta del Muro (1989): lo sviluppo, il progresso, la sconfitta del comunismo non cancellano il male. Il quale evil non è qualcosa di contingente, non è solo mancanza o deformazione o sovvertimento della virtù, but a stubborn and unredeemable fact, un fatto ostinato e non riscattabile” (T. Judt, Reappraisals).
Insomma, estote parati, le sentinelle siano pronte con le vesti strette ai fianchi e le lampadine accese, pronte a combattere le buone battaglie. Che, come la storia e come gli esami, non finiscono mai.