Ivana Barbacci

Non è una questione di empatia

Non andavo ancora alle elementari – da grande ci avrei insegnato – quando uscirono, nel maggio del 1974, i decreti delegati, formula giuridica diventata quasi subito un “nome generico” con il quale si indicava soprattutto il primo di quei provvedimenti, il DPR 416, che istituiva in tutti gli ordini e gradi di scuola gli organi collegiali. Nei consigli di classe, di circolo e di istituto si aprivano spazi di partecipazione a rappresentanti dei genitori, sancendo così in modo formale e istituzionale il loro coinvolgimento diretto nella condivisione di un progetto educativo, nell’ottica di quella “comunità educante” cui fa esplicito riferimento il nostro contratto, non circoscritta all’ambito del personale scolastico ma aperta al contesto in cui la scuola agisce e interagisce. Con i “decreti delegati” la scuola spalancava le sue porte alla società, quest’ultima era chiamata a farsi carico in modo più responsabile di una missione (istruire, educare, formare) non delegabile in toto all’istituzione scolastica.
Parto un po’ da lontano per venire a un episodio di stringente attualità su cui sento il bisogno, e un po’ anche il dovere, di sollecitare tutti a una riflessione molto attenta, perché non è soltanto uno sgradevole fatto di cronaca, ma molto di più. Parlo dell’insegnante di Rovigo presa letteralmente di mira e bersagliata dai suoi alunni con una pistola ad aria compressa. Il tutto ripreso e diffuso col telefonino, come lo sviluppo di tecnologie sempre più alla portata di tutti oggi consente, ma vorrei dire di più: impone. Se uso il verbo “imporre”, è perché quando si invoca un utilizzo critico delle tecnologie e dei linguaggi di cui la rete si alimenta bisognerebbe farlo partendo proprio dalla consapevolezza del forte condizionamento che questi esercitano sui nostri comportamenti. A quanti, commentando l’episodio, sostengono che in fondo si tratta solo della versione aggiornata e moderna delle goliardate di cui, anche in altri tempi, gli alunni si sono resi talvolta protagonisti verso qualche loro insegnante, faccio notare che la “modernità” consiste anche e soprattutto nella possibilità di proiettare l’evento ben oltre le mura entro cui si è svolto, sicché diventa quanto meno discutibile la tesi per cui la questione si sarebbe dovuta discutere e risolvere solo in ambito scolastico.
Che poi il fatto non debba essere esaminato solo dal punto di vista disciplinare, cioè sul se e sul come sanzionarlo, ma vada inquadrato in termini più complessivi nel contesto delle dinamiche relazionali all’interno della comunità scolastica, in cui l’educare rimane assoluta priorità, credo debba darsi per scontato, almeno per gente di scuola consapevole del ruolo che svolge, come ritengo siano i nostri insegnanti; ne parlo in generale, ma il pensiero è rivolto soprattutto a quelli dell’istituto Viola Marchesini e alla professoressa Finatti, cui esprimo piena e totale solidarietà.
A chi ha pensato di poter ridurre la questione alla maggiore o minore capacità dell’insegnante di suscitare empatia, consiglio anzitutto un uso più ponderato delle parole. Consiglio che dovrebbe essere superfluo quando rivolto a un personaggio per il quale le regole della comunicazione dovrebbero rappresentare un connotato non secondario sotto il profilo professionale. Ma soprattutto rivolgo l’invito a riflettere su un altro aspetto della vicenda, segno di quanto siano cambiati i tempi rispetto a quelli della sua precedente e lontana esperienza di docente.
Se da alunna fossi stata sanzionata per qualche mancanza di rispetto più o meno grave verso un mio insegnante, mai avrei potuto avere come avvocati difensori mio padre e mia madre. A Rovigo, invece, pare che le cose siano andate diversamente, tanto che i provvedimenti disciplinari adottati dalla scuola sono stati annullati a seguito del ricorso presentato dai genitori di un alunno per asseriti vizi di procedura. Mi chiedo quanto possa avere senso, in una situazione del genere, parlare di patto educativo.
Qui il mio ragionamento si collega al punto di partenza, a quella grande stagione della nostra storia, non solo scolastica, in cui l’apertura al sociale sollecitava anche una presa in carico, da parte dell’intera collettività, del compito fondamentale svolto dalla scuola. È innegabile che a motivare la spinta partecipativa vi fosse, in quegli anni, anche la volontà di promuoverne un profondo rinnovamento, rendendola più aderente ai dettami della Costituzione, affrancandola da una funzione prevalentemente selettiva che i ragazzi di Barbiana, pochi anni prima, avevano denunciato nella loro “Lettera a una professoressa”: ma il senso della riforma sta nelle parole che ritroviamo nell’articolo 1 del DPR 416/1974, dare alla scuola “il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica”.
Forse non è un caso se il progressivo venir meno di quella spinta partecipativa è andato di pari passo col crescente isolamento della scuola italiana, a lungo dimenticata nelle scelte di investimento, lasciata sola a reggere l’urto di una scolarizzazione di massa che ha riversato al suo interno disagi, problemi e contraddizioni di ogni sorta, caricandola di un peso che è sempre più difficile sostenere in solitudine.
Se gli alunni che sparano a un’insegnante possono essere l’emblema del disagio che vive oggi la scuola, i genitori che li difendono ci aiutano a capirne in gran parte la causa.