Paolo Acanfora

Il totalitarismo: una categoria utile?

Foto di Vik M da Pixabay

Tra i temi del dibattito pubblico emersi nel centenario della marcia su Roma va segnalato anche l’uso della categoria “totalitarismo”. È una questione che può apparire ai più di natura specialistica, per soli studiosi. Ed in effetti, su di essa si è sviluppata una discussione lunga decenni che ha coinvolto storici, politologi, giuristi, sociologi della politica. Come spesso accade, di questo intenso dibattito – che pareva aver raggiunto dei risultati almeno in parte condivisi – nulla è arrivato al pubblico più vasto. Negli ultimi anni la questione ha avuto diversi sussulti ripresentando vecchie lacerazioni che sembravano ormai frutto di tensioni passate – per lo più riferibili a scuole storiografiche politicamente connotate – non più riproponibili. Ed invece la pressione dell’attualità politica ha rigenerato le polemiche d’un tempo, stavolta determinate per lo più da confronti personalistici – anche se non è mancato il riflesso prettamente politico-culturale.
La questione tocca innanzitutto la validità della categoria stessa, da taluni derubricata sostanzialmente a moralistica – e, dunque, non una categoria scientificamente significativa. Una categoria utilizzata come strumento di accusa nei confronti del nemico politico di turno (cito a titolo esemplificativo il radicalismo islamico) e che accomuna fenomeni molto diversi; quindi, in ultima analisi, inutile. Sull’utilizzo che si fa oggi della categoria per comprendere i fenomeni contemporanei c’è poco da dire. Si tratta di un palese uso improprio, pericolosamente fuorviante che confonde esperienze presenti e passate in un unico incomprensivo calderone. L’aggettivo “totalitario” è stato, così, applicato a fenomeni che nulla hanno a che fare con esso.
A questo uso distorto si è accompagnata inoltre una tendenza normativizzante della categoria, ossia una sorta di giuridificazione tesa a stabilire per legge ciò che è totalitario, con conseguenti giornate della memoria da inserire nel calendario civile. Una tendenza tutt’altro che esclusiva, che investe invero molti altri fenomeni (si pensi, ad esempio, alla delicata categoria di genocidio). Si tratta di uno spazio pubblico di fatto tolto al confronto e al dialogo tra gli studiosi (per sua natura sempre in divenire) e occupato dai legislatori, i quali naturalmente rispondono ad altre esigenze.
Una delle critiche più comuni all’uso della categoria nasce dal rifiuto della presunta assimilazione di nazismo, fascismo e comunismo, fenomeni tra loro assai diversi. È un’obiezione tutta politica, sorta soprattutto a sinistra e, nel nostro Paese, legata al ruolo cruciale svolto dal partito comunista italiano nella fondazione e nella storia della Repubblica. L’ipotesi di accomunare il comunismo al fascismo ha portato ad una reazione di rigetto istintiva e ad accusare la cultura democratico-liberale di “ideologizzare” lo scontro, facendo dell’anticomunismo e dell’antifascismo un solo ed unico nemico. È una lettura che ha il suo fondamento se si pensa, ad esempio, a come le forze moderate italiane abbiano spesso utilizzato a legittimazione del proprio progetto politico il paradigma della democrazia antitotalitaria. Ma dovremmo essere appunto di fronte ad una critica alla politicizzazione della categoria (giustamente criticabile) e non ad una sua delegittimazione, diciamo così, scientifica e di metodo.
L’incomprensione è innanzitutto sul significato stesso della parola “totalitarismo” e in ciò che gli studiosi intendono descrivere. Nessuno studioso sensato ha mai posto la questione nei termini di una equiparazione o assimilazione delle ideologie e delle culture politiche fascista, nazista e comunista. Al contrario, si è sempre teso ad evidenziare le peculiarità di ciascuno, non solo tra comunismo e nazifascismo (che hanno differenze evidenti sulle quali è del tutto inutile insistere) ma tra nazismo e fascismo (più vicini ma tutt’altro che uguali). Ciononostante, la sfida che tutte queste culture politiche hanno lanciato negli anni Venti e Trenta alle democrazie liberali aveva tratti e proposte comuni: un sistema politico a partito unico; uno Stato pervasivo e portatore di un’etica e una visione del mondo propria; una pedagogia politica mirante ad educare gli individui e le masse a quell’etica e a quella visione del mondo; una concezione sacralizzata della politica a cui spetterebbe il compito di rispondere a tutti i bisogni dell’individuo e delle masse; una presenza capillare del partito e delle istituzioni in ogni settore della società; una leaderizzazione della politica ed una forte gerarchizzazione all’interno di una visione organica della comunità; un principio-guida fondativo e legittimante il potere politico (la classe, la razza, la nazione); la totale identificazione tra questo principio fondativo e la comunità (classista, razziale o nazionale) per cui gli avversari politici diventano ipso facto i nemici della classe, della razza e della nazione e devono essere conseguentemente espulsi ed eliminati; un progetto di rivoluzione antropologica che forgi nuovi individui e nuove masse; un sistema repressivo a più livelli capace di eliminare o di soffocare qualsiasi forma di opposizione. I contenuti – cioè l’etica, la visione del mondo, il progetto di comunità – erano naturalmente diversi. Ma che il sistema, il metodo e gli obiettivi fossero per tutti totalitari dovrebbe essere pacifico.
Così, come si è detto, non è. E le polemiche sul ritorno del fascismo, sui progetti della destra radicale hanno alimentato e riproposto fratture e divisioni. Se si guarda ai lavori a carattere divulgativo pubblicati in questo centenario anche da editori di assoluta rilevanza per la cultura nazionale, si può vedere che vi è una tendenza non banale a riproporre la tesi del fascismo regime autoritario, assimilabile ai molti regimi antidemocratici del tempo. Un tentativo di depotenziamento del carattere tragicamente moderno e rivoluzionario di esso per ricondurlo dentro l’alveo più rassicurante del conservatorismo (semplicemente un po’ radicalizzato) europeo. Ciò produce una sorta di effetto domino, seguendo il quale si torna a mettere in discussione l’esistenza di una cultura, un’ideologia e un progetto di trasformazione della realtà di segno fascista. Si torna indietro nel tempo, a discussioni che si pensavano superate da decenni e che rimettono in gioco consapevolezze che si erano date ormai per acquisite. Tra le immaginifiche rappresentazioni del “fascismo eterno” portate avanti da certo antifascismo militante e le rappresentazioni edulcorate e altrettanto banalizzanti del fascismo conservatore, ci si può però ancora affidare a studiosi che si ostinano a fare gli studiosi, ad interrogarsi e a comprendere i fenomeni storici non piegandosi alle tendenze modaiole (sempre presenti nell’accademia), alla insipiente ferocia delle contrapposizioni personali, alle ragioni della politica corrente. Tra tante voci flebili o stonate in questo centenario, ci si può aggrappare a Emilio Gentile e al suo recente e ponderoso volume (1376 pagine) “Storia del fascismo”, uscito per Laterza. Un’opera comprensibile a tutti – a dispetto del numero di pagine – che ci permette di guardare con fiducia alla storiografia, anche in un momento critico come questo.