Emidio Pichelan

La nascita del welfare state

Le armi per conquistare sicurezza e giustizia: fede, coraggio, unità, potenza spirituale e materiale

Rivoluzione o riforme? La rottura del vecchio ordine politico e sociale delle cose poteva essere violenta e traumatica, o graduale e a piccoli passi. I due mondi politici dei “rivoluzionari” e dei “riformisti” si accusavano reciprocamente di tradimento. La via riformista poteva vantare al suo attivo due atout di indiscutibile successo: il New Deal di F. D. Roosvelt, capace di riparare il crollo di Wall Street (1929) e la coorte dei tristi cavalieri dell’apocalisse (fame, miseria, disoccupazione, migrazione interna), grazie alla funzione anticiclica dello Stato e dei pubblici poteri, e la “rivoluzione culturale” di The General Theory of Employment, Interest and Money di John M. Keynes (1936, anno della pubblicazione di Umanesimo integrale di J. Maritain e di El Alzamiento di Franco contro la Repubblica spagnola). Con l’influente economista inglese la politica riprendeva il ruolo che le spetta nel governare il mondo, a iniziare dall’economia (la “scienza triste”).
La via democratica di uno Stato al servizio dei cittadini, capace di coniugare un’economia di mercato con la riduzione delle disuguaglianze e l’espansione dei diritti individuali veniva individuata, proposta e articolata in modo plausibile in una data precisa, il 22 novembre del 1942, ottant’anni fa: quando sir William Beveridge consegnava un Rapporto sulla Previdenza Sociale a Sir Winston Churchill, il Primo Ministro in tempi di guerra. Uno studio accademico e burocratico dall’incredibile successo editoriale – 500mila copie nelle varie lingue – e pratico, il Welfare State.
Il Rapporto è un miracolo di “fede”, “coraggio”, “unità nazionale” e “potenza spirituale e materiale”, i fondamentali di un popolo disposto ad “attaccare i cinque giganti” - elencati con la maiuscola: la Miseria, la Malattia, l’Ignoranza (“di cui non deve essere permessa l’esistenza tra i cittadini di una democrazia”), lo Squallore abitativo e l’Ozio (“che distrugge la prosperità ed è sempre fattore di corruzione tra gli uomini”) – e, quindi, “raggiungere la sicurezza sociale e la vittoria della giustizia tra le nazioni” (proposizione 456 del Riassunto, curato dalla Reale Stamperia di Londra, il 20 novembre 1942). In realtà, la situazione politico-sociale era drammatica, apparentemente la meno propizia per slanci visionari: l’anno prima (maggio 1940-maggio 1941) si era svolta “la battaglia di Londra”: “cinquantasette notti consecutive di bombardamenti, seguiti nei sei mesi successivi da una serie sempre più intensa di raid notturni” (E. Larson, Splendore e viltà, un volume di settecento pagine, già ricordato in interventi precedenti). Nessuno si era lamentato, nessuno aveva protestato contro la “politica lacrime e sangue”; il Primo Ministro e la famiglia Reale non si erano mossi dai loro palazzi sui quali cadevano bombe e spezzoni incendiari, come sugli edifici della città; la principessa Elisabetta si era arruolata nel Servizio terrestre e dava il suo contributo come autista e meccanica. Il comportamento del popolo ucraino da quel fatale 24 febbraio dimostra di che cosa sono capaci i popoli quando in palio ci sono la libertà e l’indipendenza.
Era il caso, secondo Lord Beverdige, di capitalizzare e proiettare in un prossimo futuro pacificato le virtù di cui sopra (fede, coraggio, unità, sete di giustizia) per combattere vittoriosamente le cause che ingenerano insicurezza e ingiustizie, i terreni di cultura dei regimi autoritari. La via democratica allo Stato sociale non viene da sinistra e non alberga nessuna velleità di preparare la strada al socialismo.
La proposizione 461, l’ultima del Rapporto, è strabiliante, da rileggere più volte.

L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio, e sentimento di unità nazionale (…) La nostra democrazia deve avere fede nel nostro avvenire e negl’ideali di libertà e di giustizia per i quali i nostri avi, durante un periodo di secoli, sono stati pronti a versare il loro sangue e dare la vita; e finalmente deve avere un sentimento d’unità nazionale forte abbastanza da essere superiore a qualsiasi considerazione di classe e di partito. Il Piano di Protezione Sociale è presentato da chi ha la piena convinzione che in questa crisi suprema il popolo britannico non si troverà a corto né di coraggio, né di fede, né di sentimento di unità nazionale, né di potenza spirituale e materiale per adempiere al compito di raggiungere la sicurezza sociale e la vittoria della giustizia tra le nazioni, dalla quale la sicurezza stessa dipende”.

Welfare State vuol dire fisco progressivo, distribuzione del reddito e servizi pubblici e universali, in primis Salute, Istruzione e Pensioni, a protezione del cittadino “dalla culla alla tomba”. Conosceva un successo clamoroso nella vecchia Europa, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda. Tony Judt, storico cosmopolita, definisce il Novecento “socialdemocratico”, il secolo della “banalità del bene” (rovesciando in positivo una nota espressione di Hannah Arendt.
Il Welfare non è riuscito a conquistare il cuore e la fantasia degli statunitensi: troppo socialista, secondo la destra antica e moderna, troppo egualitario, troppo pubblico (nel senso di Stato), troppe tasse (uno sperpero di risorse maldestramente sottratte al mercato). E dagli USA e dall’Inghilterra partiva la controffensiva politica e culturale della coppia Reagan-Thatcher e del neoliberismo (M. Friedman e F. von Hayek, per citare i due nomi più noti). “Meno Stato e più mercato”, era lo slogan, e le privatizzazioni, la linea politica. Svaniti o gravemente compromessi i fondamentali del Welfare: fede, coraggio, unità, potenza spirituale e materiale, solidarietà, bene pubblico …
Sembrava che con le recenti emergenze (pandemia, guerra, cambiamento climatico) ri-diventasse auspicabile una nuova centralità dello Stato. Non è così: “la pacchia è finita”, si dice in alto loco, i servizi pubblici continuano a essere sottofinanziati, le privatizzazioni avanzano a grandi passi, le tasse non smettono di essere vissute come un furto (B. Brecht lo diceva delle banche), la povertà è una colpa. Non lascia adito a dubbi il documentario di Report, mandato in onda lunedì 5 dicembre scorso: la Sanità lombarda e veneta (ma, per estensione, la Sanità nazionale) è “di eccellenza”, non c’è ragione alcuna per cambiare rotta. La sanità è “di eccellenza” ... per chi se la può permettere.