Novembre 2022

Note di apertura: La scuola che il nostro Paese merita (Ivana Barbacci)
Un anno con don Milani: Una scuola semplicemente democratica (Emidio Pichelan)
Il mondo intorno: ... starsene disteso, la spiga tra i denti (Emidio Pichelan)
Con gli occhi della storia: Il racconto pubblico sul fascismo (Paolo Acanfora)
Una scuola per Lucignolo: Le opinioni di Lucignolo (Raffaele Mantegazza)
Conoscere la nostra scuola: La nascita della scuola media unica (Reginaldo Palermo)
Strumenti per il mestiere: L'osservazione (Donato De Silvestri)
Una pagina d'autore: 1951. L'alluvione tra sogno e visione (Leonarda Tola)
Zibaldone minimo: Spreco (Gianni Gasparini)
Il mese sindacale

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La scuola che il nostro Paese merita

di Ivana Barbacci

La decisione, annunciata nel corso della cerimonia di giuramento del governo Meloni al Quirinale, di cambiare denominazione al nostro Ministero ha fatto sì che si parlasse più del nuovo nome che del nuovo Ministro. Non so se lo meritasse il professor Valditara, al quale ho espresso – e qui rinnovo – le felicitazioni e gli auguri di buon lavoro per l’incarico ricevuto, in attesa del suo primo incontro con i sindacati, convocato per il 3 novembre.
La diatriba sulla nuova denominazione si è scatenata in modo tanto acceso quanto prevedibile e ognuno dei protagonisti ha giocato la partita con le carte di cui dispone: a contributi di notevole spessore e qualità* ne hanno fatto riscontro altri, di respiro molto più corto, piegati a fini di immediata polemica politica, e non sorprende nemmeno troppo che questa si sia sviluppata in qualche caso tra componenti diverse dell’opposizione più che fra quest’ultima e la maggioranza.
Io non torno a ripetere quanto ho avuto modo di dire, commentando a caldo le novità annunciate, con dichiarazioni scritte e parlate alle quali rimando chi avesse voglia di un “ripasso”.
Aggiungo solo una postilla: mi rimane l’impressione che questa giustapposizione del termine “merito”, con tutto il carico di ambiguità che si trascina appresso, sia un po’ forzata e non del tutto congruente con ciò che si richiede al titolo di un ministero, ossia di indicarne in modo chiaro, sintetico e diretto la missione. In questo senso avrei ritenuto molto più carico di significato, e senz’altro meno divisivo, recuperare l’aggettivo “pubblica”, che dall’unità d’Italia e fino all’avvento del fascismo accompagnò il termine istruzione, dando vita a quella definizione che ancora oggi, dopo aver rimosso quella voluta dal regime (Ministero dell’educazione), campeggia sulla facciata del palazzo di viale Trastevere. Il termine “pubblica” non è affatto sinonimo di “statale”, come scioccamente qualcuno immagina o teme: si tratta invece di un aggettivo che sottolinea in modo molto chiaro ed efficace come istruire e formare i cittadini sia compito la cui rilevanza sociale si traduce in un preciso dovere per l’intera collettività e per le istituzioni che a ogni livello la rappresentano.
Se la scelta fosse stata questa, sarebbe stata certamente più in sintonia con le riflessioni sviluppate qualche giorno fa a Palermo nel corso della nostra Assemblea Nazionale. Un dibattito ampiamente partecipato, al quale hanno offerto spunti di notevole interesse anche i pregevoli contributi di Damiano Previtali, Roberto Ricci, Giulia Gioeli e Luciano Monti, con numerosissimi interventi che hanno messo in evidenza il ruolo fondamentale svolto dalla scuola per la formazione delle persone e la coesione del Paese, tanto più forte quanto più si realizzano condizioni di effettiva parità e uguaglianza nell’accesso ai diritti di cittadinanza (tra cui l’istruzione) nelle diverse realtà territoriali. Non a caso uno degli obiettivi della missione 4 del PNRR è il superamento degli squilibri e dei divari, ancora troppo marcati, che si registrano non soltanto tra nord e sud, ma investono in modo trasversale altre realtà, come avviene tra centri urbani e periferie delle aree metropolitane.
Accanto a questo, e forse prima di questo, vi è per la nostra scuola, che vorremmo fosse sempre più “una scuola che unisce” (come recitava il titolo scelto per la nostra Assemblea Nazionale), l’impegno a colmare i divari che derivano dalle diverse condizioni di partenza di chi la frequenta. Alunne e alunni per i quali non è facile né scontato garantire le pari opportunità cui avrebbero diritto: la scuola (meglio: la scuola pubblica) è chiamata ad assolvere, sotto questo aspetto, una parte rilevante di quel compito che l’art. 3 della Costituzione assegna alla Repubblica, rimuovere gli ostacoli “che limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
La scuola di Barbiana, di cui la nostra Agenda ripropone quest’anno, mese per mese, immagini e testi di grande suggestione, per quanto forse inarrivabile è un chiaro modello di come possa intendersi una scuola che unisce: una scuola che accoglie le persone, promuove la qualità dello stare insieme, non incita a competere ma a cooperare, coltiva le relazioni, è ponte fra culture diverse. È una scuola inclusiva, che si prende cura con particolare attenzione di chi vive condizioni di difficoltà o svantaggio, una scuola che valorizza i talenti e li spinge a rivolgere lo sguardo verso un orizzonte di bene comune. Una scuola, è il caso di sottolinearlo, che più di ogni altra ha richiesto a chi la frequentava impegno e fatica, in misura tale che più d'uno la potrebbe definire persino eccessiva. Sicuramente non lassista, ma straordinariamente capace di suscitare motivazione e qualità del sapere.
Crediamo sia questa, in fondo, la scuola cui tutti dovremmo tendere e che il nostro Paese merita.

*****

* alcuni articoli di particolare interesse su merito e meritocrazia

Luigino Bruni - La medaglia di un altro merito (Avvenire, 22.10.2022)
Paolo Santori - Merito, ragioniamone al plurale (Avvenire, 29.10.2022)
Luca Ricolfi - Premiando il talento si sconfigge il classismo (La Repubblica, 30.10.2022)
Eraldo Affinati - La scuola non diventi un'olimpiade (La Repubblica, 30.10.2022)
Chiara Saraceno - Perché il merito va fatto fiorire (La Repubblica, 1°.11.2022)

Una scuola semplicemente democratica

diEmidio Pichelan

Sono nel pieno di una vita di successo; Marta, Luca e Lucio si sono trovati come compagni di classe di una criticata, per dirlo eufemisticamente, scuola sperimentale di campagna, osteggiata frontalmente dal parroco, un peso massimo nella comunità di allora. Tutti e tre erano ragazzini di buona volontà, ma dai modesti mezzi economici: la prima era figlia di un falegname, padre di sei figli, e di una casalinga che arrotondava il magro e incerto introito familiare lavorando da sartina occasionale; il secondo, un fratello più piccolo, apparteneva a una famiglia di sarti e il terzo, di un fornaio. Al termine del triennio postelementare passavano a un liceo sperimentale nella città capoluogo, Padova. A poco più di cinquant’anni, Marta è docente di statistica a Leiden, in Olanda, antica e prestigiosa sede universitaria, oltre che patria di Rembrandt; Luca, ricercatore a Venezia, gira università e il mondo come esperto di inquinamento lagunare, e il terzo, Lucio, insegna Patologia delle piante tropicali presso la Scuola di Agraria e Medicina veterinaria all’Università di Padova, quest’anno alle prese con i festeggiamenti per gli 800 anni di vita.
Niente sarebbe stato possibile, dicono e ripetono e confermano i tre all’unisono, senza “quella scuola così speciale”, nella quale si sentivano trattati come tutti gli altri (anticipiamo: ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione), si facevano lavori di gruppo con i quali si imparava “imitando i compagni”, a scuola si stava bene, “eravamo protagonisti del nostro processo di maturazione”.
Sabato 11 giugno scorso, la popolazione di Pontelongo, 25 chilometri a sud di Padova, si dava appuntamento per l’ultimo saluto a Umberto Marinello, docente di Francese, inventore-promotore della scuola speciale di cui sopra. Sul piazzale si incontravano ex prof ed ex alunni. “Abbiamo tutti i capelli bianchi”, scherzava il primo a nome di tutti gli ex diventati uomini maturi. Fateci caso anche voi: quando due ex di una sperimentale si incontrano non smettono di ricordare e narrare. In allegria. Perché nelle scuole sperimentali si stava bene, le si frequentava volentieri, vi accadevano tante cose. Era un’avventura quotidiana, una scoperta continua. “Sapete una cosa?”, sbottava uno di loro, “la scuola di oggi è troppo … nozionistica”. Bum! L’aggettivo mi colpiva come un uppercut al mento; riemergeva barcollando dall’oblio pluridecennale come un dinosauro ricostruito per un set cinematografico. “Che scuola quella scuola!”, aggiungeva una terza voce. Il dialogo andava veloce, non c’era bisogno di spiegare, di precisare. “Com’è”, incalzava un quarto, “che lavoravate tanto? Eravate sempre con noi, eppure non credo che i vostri stipendi fossero tanto più generosi degli attuali”.
In un pugno di minuti gli ex rimasti in paese coglievano l’anima profonda della “loro” scuola secondaria di primo grado: la centralità dell’alunno e, quindi, della relazione adulto-ragazzo. E la passione come motorino indispensabile e alimento di un’attività lavorativa più che impegnativa, come richiesto dalla fondamentale posta in gioco: la costruzione faticosa e, diciamolo pure, anche fortunosa del cittadino di domani. Del sovrano di una società moderna.
“Plumbea” definiva, qualche giorno fa, il critico di una rubrica letteraria del supplemento di un giornale nazionale Lettera a una professoressa. Suona come un aggettivo malizioso; nella fattispecie, non può che evocare piuttosto chiaramente gli “anni di piombo” del decennio dei Settanta del secolo scorso (e, quindi, le Brigate Rosse e una paventata eversione di sinistra). Per farla breve, condivido senza tentennamenti il parere di Adele Corradi, la “professoressa diversa da tutte le altre professoresse” nelle parole del priore di Barbiana, con cui lavorava ininterrottamente dal 1963 (anno di attuazione della legge 1859, istitutiva della media unica) fino alla morte di don Lorenzo (26 giugno del 1967, un mese dopo la pubblicazione della Lettera). Adele era anche diversa dal priore stesso, ma a lei piaceva assai quello che quel prete “esiliato” per le sue clamorose prese di posizione faceva con i figli di umili fittavoli. I quali preferivano passare l’intera giornata a studiare con quel maestro fuori standard, per 365 giorni all’anno, le loro vacanze (quando possibile) consistevano nell’andare all’estero per impadronirsi di una lingua straniera, il loro unico diversivo era la piscina. Così la chiamava il priore, in realtà assomigliava più a un abbeveratoio per animali al pascolo. Una vita dura insomma, quella dei ragazzi di Barbiana, il professore con la tonaca alzava spesso la voce, obbligando Eda Pelagatti, la fedele factotum, a ricordare a don Lorenzo che aveva a che fare con ragazzi. Meglio quella vita, sempre e comunque, che spalare letame per ogni giorno in terra. Tutt’altro che semplice la scuola come ascensore sociale, ma niente a che fare con l’oppressione o con lo sbadiglio.
Nella sua scuola don Milani non bocciava, ma questo non semplificava affatto il percorso scolastico, semmai lo complicava. Nel parlare con un gruppo di ragazze che volevano festeggiare il carnevale, per il priore un intollerabile spreco di tempo (al contrario, per noi suoi discepoli, il carnevale era una tappa fondamentale nel percorso scolastico), se ne usciva con dei precetti ruvidi e costosi, da vita monacale: “La voglia di un po’ di ciccia l’abbiamo tutti, mentre la voglia di studiare, di pensare e di sapere bisogna crearsela. L’avete tutti la voglia di un maschietto fra le braccia, ma la voglia di un bel libro fra le mani non l’avete tutti e quella bisogna imporsela. La voglia di diventare cittadini sovrani, che sanno votare e sanno leggere, non l’avete e bisogna imporsela”.
Il sapere come la cultura come la cittadinanza sono conquiste. Bisogna volerle con la volontà, si acquisiscono con il sudore della fronte. Ho vissuto con i salesiani dagli otto ai ventisette anni, e ogni inizio d’anni i superiori non mancavano di ripetermi/ci: pancia a terra sui libri. Il sapere era, ed è, la chiave di (quasi) tutto, per il singolo come per la comunità: per una carriera più soddisfacente, un salario più dignitoso, una cittadinanza piena, una uguaglianza dovuta. Ma è uno strumento, una strada maestra, non una scorciatoia, uno sconto. Nessun dubbio sul fatto che l’esito, a livello nazionale e di geopolitica, del secondo conflitto mondiale esigesse una discontinuità radicale con il passato, e che spettasse ai cittadini della nuova Repubblica modernizzare il Paese e dotarlo di una democrazia matura. Due compiti tutt’altro che semplici; soprattutto, implicavano una tormentata metanoia, personale e in tutti i campi dell’agire umano. Nessun dubbio, nemmeno, che le forze nostalgiche, reazionarie o afflitte da un’atavica repulsione per tutto ciò che suonasse a cambiamento non facessero di tutto per opporre resistenza, frenare, sopire.

La legge 1859 del 31 dicembre 1962, istitutiva della media unica, entrava formalmente in vigore nell’anno scolastico 1963-64. Era rivoluzionaria nelle finalità, nell’organizzazione, nell’offerta curricolare (scuola e doposcuola). Evidente la volontà di discontinuità con l’inglorioso passato; in buona sostanza, la nuova scuola dell’obbligo, oltre che più lunga (8 anni), doveva essere per tutti. Una scuola democratica, capace di garantire il diritto allo studio a tutti, a iniziare dai figli delle classi sociali più umili, da tempo in attesa di un risarcimento dovuto. Una legge classista, non perché riconoscesse e assumesse le classi sociali ma, al contrario, perché ne auspicava il superamento. Si chiamava uguaglianza di partenza, premessa obbligata per una società più giusta.
Senza perdersi in cahier de doléances di facile, usuale compilazione, diciamo che non succedeva nulla. Non succedeva nulla nemmeno dopo il rimbombo, rimbalzato a lungo, nelle città e nelle campagne, nei borghi ridenti e nelle vallate silenziose del nostro Paese così lungo e così stretto e così differenziato, della pubblicazione di Lettera a una professoressa (maggio del 1967). Si continuava a bocciare, per tradizione si considerava un istituto scolastico tanto più serio, rigoroso e affidabile quanto più bocciava, faceva ripetere, rimandava.
La legge di riforma della media unica cambiava poco o nulla: la cattedra, reale e metaforica, continuava a essere al centro del (meschino) universo della classe, autoritario (vogliamo chiamarlo più modernamente top down?) il rapporto docente-discente, insuperato e insuperabile il triangolo delle Bermude lezione-verifica (orale/scritta)-voto, nessun riconoscimento delle istanze degli alunni, sconosciuti i loro bisogni, ermetica la chiusura al mondo esterno, intangibili i programmi ministeriali, indiscutibile la prevalenza del nozionismo … E si potrebbe continuare. Per fare un esempio: eravamo agli inizi degli anni Settanta, le legge si avvicinava al decennio di vita, ma il mio collegio dei docenti doveva chiedere la convocazione di un collegio straordinario per chiedere l’ingresso a scuola dei giornali e del cinema come strumenti didattici. Autorizzazione concessa, ma alla fine dell’anno il preside incaricato se ne andava sbattendo la porta, nauseato da un collegio dei docenti che “perdeva tempo in continue richieste evidentemente diversive e delegittimanti l’autorevolezza del preside e dell’istituzione scolastica”.
Non poteva che fare rumore Lettera a una professoressa. Un rumore assordante. Gettava scompiglio tra i tanti, troppi benpensanti uno scritto che, senza ambiguità, denunciava una situazione politica stagnante, occupata a dimenticare e sopire più che a camminare speditamente verso quella società democratica, solidale e assetata di eguaglianza disegnata dalla Costituzione. Giova ricordarli e ripassarli:

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (art. 1).
“Tutti i cittadini italiani hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di origine economica e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).

Due articoli energici, scandalosi, due pietre di scandalo, per usare la terminologia evangelica, che, nel passare del tempo e nel succedersi delle mode, conservano, anzi accrescono l’iniziale forza utopica di meta a cui tendere senza un attimo di respiro.
Non ce l’aveva con i maestri il priore di Barbiana; si rivolgeva a loro semplicemente e correttamente – non era, non è l’unico – perché li considerava l’elemento determinante, i protagonisti di ultima istanza della qualità dell’offerta formativa del sistema scolastico. “Una penna, un libro e un maestro possono cambiare il mondo”, ha detto la giovanissima pachistana Malala Yusafzai, Nobel per la pace nel 2014, che non ha esitato a mettere a repentaglio la vita pur di andare a scuola e affermare il diritto all’istruzione. Don Milani credeva e dimostrava – anche in questo non era e non è il solo – che dei tre elementi citati, determinante e indispensabile era, ed è, il maestro. Lo rimane anche qualora si pensasse di sostituire la penna e il libro – sempre che sia possibile, oltre che auspicabile – con l’intelligenza artificiale e gli algoritmi. Il fattore umano rimane – sfortunatamente - anche l’elemento più sottovalutato, ma questa è un’altra storia. Una triste storia.
Don Milani aveva il merito di ribadire con forza la necessità di superare la scuola gentiliana, esplicitamente classista, finalizza a selezionare l’élite e la classe dirigente del Paese, per costruire – alternativamente – una società più giusta, più equa, più eguale, con al centro – appunto – il cittadino sovrano, informato, cosciente, rispettato e, a sua volta, rispettoso delle istituzioni, e il lavoratore. Alto e impegnativo, dunque, il compito atteso dalla nuova scuola democratica.
Ci ha appena lasciato Luca Serianni, grande linguista, maestro eccellente. Il 14 giugno del 2017 si congedava dai suoi studenti con queste parole. “Ho avuto nel mio lavoro, come riferimento, il secondo comma dell’art. 54 della Costituzione che dice: ‘i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di svolgerle con disciplina e onore’. Sapete che cosa rappresentate per me? Lo Stato”. Gli studenti come committenti della nuova offerta formativa in versione costituzionale repubblicana? È quanto sosteneva don Milani nel lontano 1967 e ripete, mezzo secolo dopo, Luca Serianni, padre e maestro della lingua italiana.
Per quanto si riferisce al lavoro due anni dopo la pubblicazione di Lettera a una professoressa, in data 24 giugno 1969, pochi giorni prima di abbandonare il pellegrinaggio terrestre – lo stesso destino era capitato a don Lorenzo con Lettera a una professoressa, consegnata in tipografia alla vigilia della sua dipartita ultima – Giacomo Brodolini, ministro del Lavoro, socialista, presentava il disegno di legge Norme per la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale. Trasformata in legge il 20 maggio dell’anno seguente, 1970, notissima al popolo sindacale come Legge 300 o Statuto dei Lavoratori.

Nel 1922 Henry Bergson, un grande in molti campi, nella filosofia come nella sociologia e nella comunicazione, Nobel per la Letteratura nel 1927, riceveva l’incarico di ristrutturare il percorso scolastico. Rifletteva nell’intraprendere un compito tanto impegnativo: “La domanda essenziale in materia di educazione è proprio quella che ci si dimentica di porsi la maggior parte delle volte prima di trattare un programma: qual è il nostro scopo? Che cosa vogliamo ottenere? Che tipo di uomo intendiamo formare?”.
Erano le domande che, nell’immediato secondo dopoguerra, si ripetevano le forze politiche, il legislatore, gli esperti, i cittadini tutti, consapevoli della centralità della scuola nella ricostruzione del Paese e nell’intraprendere la via dello sviluppo. Già Socrate e Sant’Agostino erano consapevoli che educare significava “aiutare a generare”, “svegliare il maestro interiore” e non in-struire, riempire di nozioni uno spazio. Henry Bergson, per la precisione, s’affrettava a dare una sua risposta alle domande che si era posto a premessa del suo lavoro: “Vogliamo formare un uomo dallo spirito aperto, capace di svilupparsi in più di una direzione. Vogliamo che abbia imparato ad apprendere”.
Nella mia esperienza, anzi nella nostra (comprensiva delle tante colleghe e dei tanti compagni di avventura nella sperimentazione del tempo pieno), la Lettera a una professoressa fu tutt’altro che plumbea. La scuola sperimentale del tempo pieno – il modello che, a nostro avviso, meglio incarnava lo spirito riformatore della legge 1859 – fu tutt’altro che plumbea. Molti dei prof quella scuola speciale la potevano praticare per poco; qualcuno ha potuto sviluppare una carriera accademica di rilievo. Ma quell’esperienza di scuola, con al centro l’alunno e la creatività quotidiana per intercettare sapientemente la curiosità e gli interessi degli alunni, aperta alla realtà esterna e al territorio – erano temi di discussione e di confronto aperto la guerra del Vietnam come il fascismo come il disastro di Seveso come il Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma come le istanze femministe, e si potrebbe continuare (mi sia permesso di citare il libro di quell’esperienza, E. Pichelan, Scusate il disturbo, stiamo imparando, Editore Overview, Padova 2017) – e che praticava l’apprendimento cooperativo, organizzava la saldatura tra materie disciplinari e opzionali (di libera scelta dell’alunno), è stata per tutti noi un periodo esaltante. Indimenticabile. Gratificante. Da protagonisti assoluti. Da capitani coraggiosi.

Il protagonismo dei docenti era e rimane l’elemento centrale per qualità dell’offerta formativa. In tutte le stagioni: abbiamo avuto, sintetizzava qualche tempo fa G. Ferroni, autore di una monumentale Storia letteratura italiana, una scuola via via che respingeva, promuoveva, misurava e poi ossessionata dai miti dell’autonomia, dell’aziendalismo (ricordate le tre i di Letizia Moratti: impresa, inglese, internet?), e della competitività/meritocrazia. Tutti e sempre in affannosa ricerca di uno slogan ad effetto che tracciasse un orizzonte e indicasse una meta: una scuola delle competenze (ma delle skills suona più chic), del produrre e soprattutto del certificare. In questo modo, concludeva lo studioso, la politica non fa che “imbragare” la trasmissione del sapere – immarcescibile il vizio originale della trasmissione –, in una pratica burocratica (altro vizio immarcescibile). Se la scuola è essenzialmente una relazione, una relazione asimmetrica, allora tutto (o molto) dipende da quell’essere umano, molto umano, e quindi grande e piccolo, meschino e titanico, sublime e malvagio che varca la soglia di un’aula e decide di fare l’insegnante. Un artigiano pronto a sperimentare ogni giorno l’accensione di una scintilla rigeneratrice nel cuore e davanti agli occhi di donne e uomini in formazione, curiosi e pronti ad accendersi.
Qualche tempo fa (venerdì 31 maggio 2019), a una professoressa, stanca di combattere contro i mulini a vento – in realtà, lei si paragonava ai salmoni che risalgono i fiumi controcorrente – Michele Serra rispondeva con evidente, ammirata e riconoscente empatia:

Lei, cara prof, insieme alle tante persone che come lei presidiano quella vecchia trincea sforacchiata che è la scuola, lo sa benissimo che ne vale ancora la pena [di fare scuola]. Respiri forte, mandi giù l’amarezza e tenga duro. Le basterà che un solo studente, uno solo, le sia grato per una lezione, una spiegazione, una lettura suggerita, una frase e si sentirà di nuovo felice del suo lavoro di salmone”.

A me e a molti altri Lettera a una professoressa e l’esempio concreto della scuola di Barbiana hanno fatto capire e amare il senso nobile, indispensabile del più bel mestiere del mondo. Tanto più importante in tempi bui e di transizione, quando sotto il cielo sembra predominare sovrana la confusione.
Un convegno sulla 1859 potrebbe – il condizionale è sempre d’obbligo – collocare nel giusto contesto una riforma della quale, per l’erosione del tempo che passa e cancella, si sa poco o niente. E per rifarsi la domanda delle domande dalla quale partiva, nel 1922, Henry Bergson nel porre mano alla riforma del sistema scolastico:

La domanda essenziale in materia di educazione è proprio quella che ci si dimentica di porsi la maggior parte delle volte prima di trattare un programma: qual è il nostro scopo? Che cosa vogliamo ottenere? Che tipo di uomo intendiamo formare?

Varrebbe la pena sapere se le domande che abitano le menti e i cuori dei politici e delle donne e degli uomini di scuola sono ancora quelle. Ancor più, sapere anche se la risposta è ancora quella di Bergson e di don Milani.

Riflessioni sulla contemporaneità

… starsene disteso, la spiga tra i denti

di Emidio Pichelan

Avrebbe potuto, ma non è stato. L’occasione era unica. Pura fantascienza.
L’anziana signora dall’inconfondibile chioma bianchissima e birichina, dall’eloquio oracolare, seduta sulla sedia della seconda carica dello Stato non poteva non ricordare lo sfregio di ottantaquattro anni prima e, contemporaneamente, la insperata ricompensa pubblica.
L’ha rammentato più volte: nel 1938 l’allora bimba Liliana Segre era stata cacciata dalle scuole del Regno perché “il capobanda Mussolini” (A. Cazzullo dixit) e il Parlamento avevano deciso si perseguire un popolo per il semplice motivo (?) di essere quel popolo. Ottantaquattro anni dopo, all’ex bambina, diventata venerata testimone di crimini condannati dalla storia (due, in particolare: le leggi razziste e la Shoah), toccava in sorte di chiamare a occupare il prestigiosissimo posto un vecchio nostalgico di quel ventennio.
L’occasione unica poteva diventare un capitolo epifanico di una nuova storia: il neo Presidente, un coriaceo nostalgico del ventennio, legittimato dal voto popolare e dell’assemblea, si alza, si cosparge la fronte di cenere (ma il gesto può essere omesso), si inginocchia (anche questo può essere tralasciato) ai piedi della signora dagli occhi umidi e chiede perdono per le “leggi infamissime”.
Non è andata così. Purtroppo.
L’anziano signore, impettito e impigliato nel suo mondo di nostalgia, ha fatto finta di niente, non ha avuto il coraggio di pronunciare il nome del reato, non è stato capace di dare identità al male: un passaggio minimo e obbligato per fare i conti con la storia.
Per legge di natura le foglie ingialliscono, il deserto avanza, il tempo scivola e cancella, la memoria si difende dai ricordi tossici. Dopo la guerra, ricorda W. Szymborska, Nobel della letteratura 1996, poetessa polacca dalla voce pacata e saggia, c’è chi si incarica di raccogliere i cocci, spazzare i detriti, tirare su i muri, ricostruire i ponti, rimettere i vetri alle finestre. Intanto le telecamere del circo mediatico si spostano altrove, e chi sa scuote la testa.

“Chi sapeva
di che si tratta
deve fare posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.

Sull’erba
che ha ricoperto
le cause e gli effetti
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole”.

(W. Szymborska, La fine e l’inizio)

Non è un destino, però. Papa Francesco l’ha chiamato per nome il male procurato, anche da cattolici consacrati, ai popoli nativi; pur costretto a muoversi con fatica per un ginocchio logorato dal tanto percorrere le vie e le periferie del mondo, si è recato fino ai confini del Circolo Polare Artico per chiedere scusa.
La memoria”, ha scritto Carlos Castilla del Pieno, neuropsichiatra spagnolo recentemente scomparso, “es el instrumento con el que nos hacemos: somos lo que recordamos”, la memoria è lo strumento con cui costruiamo noi stessi. Noi siamo quello che ricordiamo.
Ai sopravvissuti del secolo breve risulta improbabile credere che il termine “merito”, aggiunto a ministero della Pubblica Istruzione, significhi “che tutti gli studenti d’Italia, d’ogni luogo e di ogni famiglia e di ogni gruppo sociale meritano una scuola migliore”. Meritocratica era la scuola della “fascistissima” legge Gentile del 1923; è un “diritto allo studio per tutti” – come ricordato dal Presidente Mattarella a Grugliasco, in occasione dell’apertura del nuovo anno scolastico – il sistema posto in essere dalla legge 1859 del 31 dicembre 1962, quella coerente con gli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione. Ai sopravvissuti del secolo breve quel diritto risulta cosa buona e giusta e doverosa. Tutt’altro che obsoleta.

Il racconto pubblico sul fascismo

di Paolo Acanfora

Nel centenario della marcia su Roma si sono moltiplicate le iniziative: convegni, seminari, lezioni e conferenze hanno ripreso il lungo racconto pubblico sul fascismo, su ciò che è stato e ciò che ha lasciato nel paese, investendo naturalmente la fase post-fascista repubblicana. Si sono moltiplicate, com’è ovvio, anche le pubblicazioni divulgative che si offrono di spiegare a un pubblico non specialistico gli elementi essenziali di quella esperienza.
È questo il frutto non solo della ricorrenza centenaria ma, ovviamente, anche della novità politica uscita dalle elezioni del 25 settembre scorso. Il governo da pochi giorni in carica è, sotto il profilo della cultura politica, il più a destra di tutta la storia repubblicana e il suo partito di maggioranza relativa – che esprime la presidenza del consiglio – l’erede di un partito neofascista, il Movimento sociale italiano, rimasto ai margini del sistema politico repubblicano (dentro il parlamento ma fuori dall’arco costituzionale, come si diceva un tempo). Sono cose a tutti note. La coincidenza dei due eventi (centenario e incarico di governo) appartiene a quella curiosa “circostanza casuale” della storia di cui ha parlato in chiave biografica la senatrice Liliana Segre nel suo splendido discorso di apertura della XIX legislatura.
Si è più volte tornati sulla ricorrente accusa di fascismo lanciata verso il partito Fratelli d’Italia e la sua leader (come su altri soggetti della coalizione). Si è detto che la categoria “fascismo” e l’aggettivo “fascista” non possono essere utilizzati come un passepartout per includere tutto ciò che non ci piace e riteniamo pericoloso per la democrazia. È questa la prima forma di banalizzazione del fascismo, che ha creato equivoci e innescato – di contro – meccanismi di difesa, producendo continue distorsioni della realtà storica. Si è detto come, per decenni, l’antifascismo sia stato spesso condizionato da una forte politicizzazione interna (su chi fosse il “vero” e “autentico” antifascista e chi ne fosse, al contrario, una contraffazione o una flebile forma) ostacolando così nella società l’ampia condivisione dell’antifascismo come fondamento comune della convivenza civile. Si è detto, pure, che nessuno dei soggetti politici presenti nelle istituzioni italiane ha una progettualità politica, fosse pure solo vagamente, di tipo fascista.
Se tutto ciò è indubitabile, è però altrettanto chiaro che un paese democratico e liberale, tra i fondatori dell’Europa unita e dell’alleanza occidentale, non può in alcun modo accontentarsi di un presidente del consiglio che si limiti a dire di non aver mai avuto simpatie per il fascismo. Non discuto della veridicità dell’affermazione – la storia personale di Giorgia Meloni dice altro, è cosa lapalissiana, ma sono passati molti anni e un’evoluzione, in questa direzione, c’è chiaramente stata. È però del tutto evidente che chi è chiamato a giurare sulla costituzione italiana non può fermarsi a questa basilare affermazione. Il contrario equivarrebbe, d’altronde, a uno spergiuro. L’essere stati, come nazione, la culla del fascismo, averne vissuto l’esperienza ventennale – con il fenomeno strutturale della violenza politica, la costruzione dello Stato etico, le guerre di conquista, le leggi razziali, la seconda guerra mondiale con relativa guerra civile in un paese diviso in due – aumenta inevitabilmente le responsabilità di chi oggi guida il paese. Ancor più se proviene dalla lunga storia del neofascismo italiano. “Il punto più basso della storia italiana”, come ha affermato nel discorso da presidente del consiglio incaricata, non può essere ridotto al solo perimetro – giustamente definito “vergognoso” (ma, occorrerebbe aggiungere, criminale) – delle leggi razziali.
Tutto ciò però non è il frutto di una scarsa attenzione o di una semplice ritrosia dovuta a ragioni personali e partitiche. Le ragioni sono profonde e radicate nella nostra comunità nazionale e dipendono innanzitutto dalla rappresentazione del fenomeno fascista nell’immaginario collettivo. In questi ultimi decenni, la retorica sui “conti con la storia” (cioè, sulla mancanza di un pieno confronto con il passato fascista), ha assunto, in verità, una prospettiva “strabica”: da una parte un confronto storiografico serratissimo – anche se non di rado iper-politicizzato – che ha prodotto straordinari passi in avanti nella comprensione del fascismo (sulla cultura politica, sull’ideologia, sulla concezione totalitaria, sul consenso e così via); dall’altra un’opinione pubblica in cui poco o nulla è veramente arrivato di questo dibattito e che – al di là dei riverberi (anche cospicui) del momento – è rimasta ancorata alle rappresentazioni di fondo. Per dirla in breve, c’è una parte rilevante della nostra società civile (e conseguentemente della nostra classe dirigente) che ritiene che il fascismo sia stato una dittatura “morbida” (soprattutto a confronto della Germania nazista e dell’Unione sovietica staliniana), che Mussolini abbia sbagliato, al limite, sulle leggi razziali e sulla partecipazione al secondo conflitto mondiale ma che, in fondo, non abbia segnato in modo negativo la storia del paese, anzi. Insomma, una sorta di assoluzione dove le pagine più compromesse vengono, di fatto, relegate al rapporto con la Germania hitleriana. Per il resto nulla questio.
Questo esito sulla società civile è dovuto a diversi fattori. Ne individuo alcuni che a me sembrano significativi. In primis, chiamerei in causa la responsabilità degli storici contemporaneisti, i quali da una parte hanno a lungo avuto difficoltà a uscire dai dibattiti specialistici per rivolgersi con efficacia a un pubblico generalista e dall’altra hanno interpretato il loro ruolo pubblico con un forte condizionamento politico (tutto il dibattito negli anni Novanta del Novecento ne è stata una chiara manifestazione). Ciò ha portato non di rado a semplificazioni politicizzate sull’asse amico-nemico, dove la storia è stata strumentalmente utilizzata per le battaglie politiche (un fatto tutt’altro che nuovo, ovviamente, ma che in quegli anni per via delle vicende politiche nazionali è esploso in modo particolarmente fragoroso).
Su queste dinamiche è poi intervenuto un altro elemento, che mi pare di segno opposto. La progressiva marginalizzazione della storia nel dibattito pubblico. Altre figure di studioso sono emerse come più seducenti per il grande pubblico (dagli economisti ai politologi) e lo spazio della narrazione storica si è ridotto o è stato occupato prevalentemente da altre professioni (il giornalismo su tutte). Il discorso sarebbe lungo ma mi limito qui ad annotare che è il valore stesso assegnato allo studio del passato – e quindi la sua rilevanza per comprendere l’attualità – che è cambiato radicalmente nell’immaginario collettivo, in una concezione ferocemente schiacciata sul tempo presente (peraltro erosiva anche dell’idea di futuro).
Il racconto pubblico del fascismo – di ciò che è stato e di ciò che ha significato – è dunque oggi qualcosa di completamente diverso dall’esito di un confronto storiografico tra posizioni plurali ma fondate sul metodo storico e assume i connotati di un prodotto tra gli altri che deve essere consumato per le polemiche contingenti. In questo mercato, ovviamente, il rigore della ricerca storica non ha alcuna utilità. Tutto ciò avviene proprio nel momento in cui lo stravolgimento delle modalità di comunicazione prodotto dai social media richiederebbe con straordinaria urgenza figure professionali autorevoli capaci di indicare con fermezza la strada della comprensione. Figure che naturalmente ci sono ma che annegano inesorabilmente nel mare magnum delle sempre opinabili convinzioni personali.

Emozioni, paure, speranze, etica: i tanti motivi per cui suona la campanella

Le opinioni di Lucignolo

di Raffele Mantegazza

Lucignolo ha delle opinioni? Certamente sì, e le presenta anche con molta forza di convinzione a Pinocchio. Lucignolo è convinto che il Paese dei Balocchi sia migliore della scuola, che l'Omino di burro sia amico dei bambini, che il gioco e la vacanza siano quanto di meglio possa capitare ad un ragazzo. Possono essere opinioni che non condividiamo, ma non possiamo negare che il ragazzino ne possiede e ne è anche fortemente convinto.
Che cosa significa lasciare spazio nella scuola alle opinioni dei ragazzi e delle ragazze? È possibile per loro esprimere il proprio parere in modo da non essere censurati o da non vedere le opinioni adulte sovrastare le loro idee? La risposta sembrerebbe banale eppure a volte è polarizzata tra due posizioni estremistiche che ovviamente si alimentano a vicenda. C'è chi sostiene che i ragazzi non hanno opinioni, li vede ancora come vasi vuoti da riempire, non comprende che quando essi arrivano a scuola portano con sé le tracce delle culture di appartenenza, le tante informazioni anche deformate che raccolgono tutti i giorni, i percorsi che attraversano quotidianamente. C'è poi invece chi dice che i ragazzi devono avere totale libertà di esprimere le loro opinioni, addirittura ritenendo la lezione frontale o qualunque momento nel quale l'insegnante propone materiali o approfondimenti qualcosa di violento, da estirpare dell'esperienza scolastica.
Posizioni dogmatiche appunto, che fanno scomparire uno dei due poli dell'esperienza educativa; all'interno della prima è il ragazzo a dissolversi, lasciando il posto ad una pagina bianca da riempire a nostro piacimento con segni e simboli che non hanno nulla a che fare con la sua esistenza; nella seconda invece è l’adulto ad essere cancellato, o meglio ad autoelidersi, rinunciando alla responsabilità educativa in nome di quella che solo apparentemente può essere definita democrazia.
Infatti la democrazia all'interno della relazione educativa prevede che entrambi i poli (educandi ed educatori) abbiano la possibilità di giocare quelli che sono i loro ruoli. Quindi se è del tutto ovvio che dobbiamo tenere conto delle culture di appartenenza e delle informazioni nonché dei veri e propri apprendimenti che i bambini e ragazzi ci portano da fuori, è anche fondamentale che l'adulto intervenga a provare a proporre “un ordine”, non necessariamente quello “giusto”, nei confronti di questo intrico di voci, di suoni, di immagini che rischiano di disorientare il ragazzo.
Dunque a un insegnante di scuola secondaria deve piacere per forza la musica Trap? Deve rappare la lezione di storia per andare incontro alle esigenze dei ragazzi? Ovviamente no. Ma un insegnante può ignorare l'universo della musica Trap, può non conoscere e non chiedere ai suoi allievi di spiegargli la fenomenologia e la storia dei generi musicali? La nostra risposta è altrettanto negativa. Non si tratta di avere un atteggiamento pateticamente giovanilistico, e nemmeno dello snobismo di chi il nome di chissà quale superiorità intellettuale pretende di cancellare tutto ciò che non si esprime nel suo linguaggio, negli angusti recinti della sua disciplina, o meglio di come egli ha imparato la sua disciplina. Non siamo ovviamente così ingenui da non riconoscere che le discipline hanno una loro propria epistemologia, proprio metodologie strumenti di ricerca, è che la scuola ha il dovere anche di presentare tutto ciò i ragazzi e le ragazze. Quello che proponiamo e la ricerca di un incontro tra i mondi vitali Dei ragazzi e la struttura formale delle discipline, perché siamo convinti che la ricerca storica, la capacità analitica del matematico, l'intuizione che e propria sia del chimico che del pittore, possono suscitare nei ragazzi quel momento di necessaria passività ed è attesa che riporta poi a padroneggiare questi strumenti per provare a creare qualcosa di nuovo.
Abbiamo usato il termine “passività” che nella scuola indica sempre qualcosa di negativo (“il ragazzo è passivo”, “suo figlio è troppo passivo in classe”). Eppure un momento di passività è fondamentale di fronte a nuovi alfabeti che dobbiamo imparare. Mario Lodi descrive una delle sue classi in attesa di un racconto che doveva narrargli, come immersa “in un silenzio caldo come un fuocherello.” È il silenzio dello stupore, dell'attesa di una parola che poi andrà a commentata, stravolta, modificata. A differenza dell'irrealistico esordio del noto libro di Pennac, nel quale un improbabile insegnante entra in classe e inizia a leggere il romanzo di Suskind creando immediatamente interesse, il silenzio della classe di Lodi è frutto di un lungo lavoro, del tentativo riuscito di far sì che i bambini si possano fidare dell'insegnante, dell'idea che il docente vuole ascoltare i ragazzi ma deve anche fornire loro un argomento sul quale esprimersi.
“Prof, Lei non può giudicare le mie opinioni”. Giustissimo. Ma c'è una bella differenza tra l'affermare che Augusto è stato un imperatore crudele e disumano e collocarlo nel XII secolo. La seconda proposizione è semplicemente falsa, e la differenza tra il falso e il vero, l'approccio a quella verità dell'oggetto che fa sì che nell'oggetto “vetro” ci sia inevitabilmente la possibilità di essere frantumato, è un servizio importante che la scuola deve svolgere proprio a sostegno delle opinioni dei ragazzi. Io non posso giudicare le tue opinioni ma posso valutare il tuo modo di esprimerle, posso dirti se stai pronunciando un'opinione o semplicemente una falsità, posso invitarti nel secondo caso a dimostrare che quello che hai detto è vero e, se non ci riesci, ad abbandonare quella posizione. “Mi piace de Andrè”, “De Andrè è il miglior cantautore italiano”: la prima frase non deve essere motivata, la seconda ha bisogno di una capacità di analisi dei testi, degli arrangiamenti, degli spartiti che solo un lungo lavoro può fornire.
Viviamo nel regime della cosiddetta post verità nella quale sembrano non esserci più parole vere ma solo opinioni che si rincorrono, chiacchiere che si sostituiscono le une alle altre con il ritmo dello “scrolling” di un dito sulla tastiera di uno smartphone. Una volgare deformazione del diritto a esprimere le proprie opinioni fa sì che anche chi non ha opinioni (per il semplice fatto che non conosce l’argomento del quale si sta parlando) si senta in divere di dire tutto ciò che crede.
Lucignolo deve trovare a scuola una verità che può modificare, ma che per il momento gli si pone davanti come un oggetto che lo incuriosisce, una verità che può essere falsificata come pretendeva Popper ma che per questo motivo pretende almeno inizialmente un regime di validità. Il criterio di falsificabilità non dice che ciascuno può dire tutte le sciocchezze che gli vengono in mente ma che ciascuno si deve accollare l'onere del cambiamento della critica e della modifica di quanto ha appreso. In questo senso può essere certamente formativa la pratica del Debate, che però spesso viene utilizzata soltanto come tecnica quasi a livello sofistico. È ovviamente importante proporre ai ragazzi temi divisivi e dialettici e chiedere ad ognuno di loro, singolarmente o a gruppi, di provare a studiare i pro e i contro delle varie posizioni. Il fatto però che il Debate preveda che i ragazzi argomentino non a partire dalle loro reali opinioni rischia però di far scadere il dibattito in puro tecnicismo e di non insegnare al contrario ai ragazzi a temperare la loro passione (che nasce da ciò che veramente ritengono giusto) con le armi della dialettica, dell'ascolto, del dialogo. Il fatto poi che si organizzino Olimpiadi di Debate dimostra quanto poco la scuola italiana sappia sottrarsi a questa specie di incantesimo della competizione, nella quale conta sempre vincere, mai condividere, mai donare, mai offrire la propria collaborazione agli altri. Se anche le opinioni, formatesi col lungo lavoro del concetto e con la fatica del ragionamento, dovessero diventare un elemento di competizione, magari per scrivere sul sito della scuola con orgoglio “siamo i primi in Italia nel Debate”, allora davvero la già fragile verità rischierebbe di svanire per sempre.

La nascita della scuola media unica

di Reginaldo Palermo

Fra poche settimane ricorrono i sessant’anni dalla approvazione della legge 1859 (31 dicembre 1962) che istituiva la “scuola media unica”, legge che viene da molti considerata il punto di partenza di riforme significative che nell’arco di poco più di un decennio incisero in modo significativo sull’intero sistema scolastico italiano (nel 1968 venne istituita la scuola materna statale; nel 1974 nacquero gli organi collegiali della scuola e venne approvato il primo stato giuridico del personale).
Intanto dobbiamo ricordare che agli inizi degli anni ’50 al termine della scuola elementare i piccoli alunni di 10-11 anni si trovavano di fronte a due alternative: la scuola media o le scuole di avviamento (nelle aree periferiche funzionava anche il cosiddetto ciclo postelementare di tre anni affidato ad un maestro).
Solo con la scuola media, alla quale si accedeva dopo un esame di ammissione, si poteva poi proseguire negli studi con la prospettiva di poter poi iscriversi all’Università.
In realtà, però, di riforma della scuola media si era iniziato a parlare già dal 1945, immediatamente dopo la fine della guerra. E già allora emersero subito le questioni che furono poi oggetto di dibattito (e anche di scontro politico) negli anni successivi.
L’idea di una scuola obbligatoria per tutti finalizzata alla formazione del cittadino fu ben presente anche nei lavori della Costituente e fu trasversale ai due schieramenti dominanti in quel momento (cattolici e socialisti-comunisti).
Su un punto, però, i due fronti non si trovavano d’accordo, e fu quello dell’insegnamento del latino: per i cattolici il latino doveva rimanere nei programmi, mentre per il fronte laico sarebbe stato opportuno cancellarlo per evitare che diventasse strumento di selezione nei confronti dei ragazzi delle classi sociali più modeste. Posizione che però non era del tutto condivisa all’interno del Partito Comunista: Concetto Marchesi, per esempio, era convinto che fosse necessario lasciare il latino nei programmi anche per consentire ai meno abbienti di confrontarsi con la cultura classica.
Verso la fine degli anni ’50 il dibattito proseguì ininterrottamente fino a quando nel 1959, l’allora Ministro dell’Istruzione Aldo Moro, con una propria circolare, modificò l’esame finale di terza media eliminando la prova scritta di traduzione dall’italiano al latino, lasciando solo quella dal latino all’italiano: si trattava di una “apertura” nei confronti di socialisti e comunisti.
Sempre in quell’anno Aldo Moro presentò un disegno di legge che prevedeva l’istruzione obbligatoria ed effettivamente gratuita da 6 a 14 anni, la suddivisione della scuola dell’obbligo in due corsi, uno elementare e uno medio, uguale per tutti e la soppressione delle scuole post-elementari e di avviamento professionale. Non si prevedeva più l’insegnamento del latino nella scuola media unica e questo spianò la strada alla riforma.
I tempi, insomma, erano ormai maturi, ma il 1960 fu un anno politicamente molto complicato; a marzo si formò il Governo Tambroni, un monocolore democristiano appoggiato però dal Movimento Sociale e quasi subito travolto dalle proteste di piazza.
A fine luglio entrò in carica il terzo Governo Fanfani, ancora un monocolore democristiano ma appoggiato questa volta da socialdemocratici, repubblicani e liberali.
Aldo Moro, da sempre convinto sostenitore della linea del dialogo con socialisti e comunisti riprese a lavorare sulla sua ipotesi di riforma; il ’61 e il ’62 furono i due anni della “battaglia del latino” (così i giornali dell’epoca definirono lo scontro politico e culturale che si andava sviluppando).
Alla fine vince la linea di Aldo Moro, la legge viene approvata pochi giorni prima di Natale quando il Ministro è il democristiano Luigi Gui. Il latino rimane, ma solo come materia facoltativa in modo da consentire a chi voglia poi iscriversi ad un liceo di possedere almeno i rudimenti della lingua di Cesare e Cicerone.
La legge viene votata dai partiti di Governo e dal Partito Socialista; il PCI e la destra (Monarchici e Missini) votano contro.
Prende avvio una fase importante per la scuola italiana, ma anche un periodo politico nuovo: finisce di fatto il centrismo e nasce l’era del centro-sinistra.

L'osservazione

di Donato De Silvestri

Osservare è qualcosa di diverso e di più di guardare: implica delle specifiche finalità, una chiara intenzionalità, l’uso di tecniche e prassi rigorose con cui controllare la soggettività dell’osservatore, aspetto ineludibile con il quale ci si deve sempre confrontare. Essere dei buoni osservatori presuppone un controllo minuzioso del proprio operato, saper guardare non perdendo nulla e non dando nulla per scontato, sforzarsi di leggere ciò che si osserva senza volerlo automaticamente interpretare e ridurre a categorie, vuol dire saper osservare se stessi che si osserva. Bisogna sempre tener conto del fatto che quando si osserva si determina un cambiamento in chi è osservato e quest’ultimo, a sua volta, crea una perturbazione in chi osserva.
Goffman per spiegare la complessa interazione tra chi osserva e chi è osservato utilizza la metafora del teatro. Ognuno diventa ad un tempo attore e pubblico, a seconda del punto di vista adottato. Se si assume il punto di vista del docente, quest’ultimo diventa l’attore e gli alunni sono il pubblico, ma accade l’inverso se invertiamo l’angolazione prospettica. La metafora è, a mio modo di vedere, molto azzeccata, proprio perché in una rappresentazione teatrale il pubblico si confonde con gli attori: c’è un irrinunciabile condizionamento reciproco, ogni replica, anche se il testo è sempre esattamente lo stesso, varia e diventa una cosa nuova, che sollecita emozioni diverse, che crea situazioni diverse.
Vi sono varie tecniche per osservare e diversi approcci all’osservazione.
Volendo fare una prima classificazione, seppur molto generica. Si possono distinguere due tipologie: l’osservazione partecipe e quella non partecipe, ossia le situazioni in cui l’osservatore è consapevole di un suo coinvolgimento in ciò che osserva e delle modificazioni prodotte dalla sua presenza e i casi in cui invece l’osservatore cerca di annullare queste modificazioni ricorrendo a specifiche tecniche ed avvertenze. Talora si usa l’espressione Fly on the wall, ossia diventare come una mosca su un muro. Abbiamo però detto che la ricerca ha ampiamente dimostrato l’impossibilità di azzerare completamente la “partecipazione” di chi osserva.
Quest’ultimo approccio è molto usato nell’osservazione degli animali (osservazione etologica), Qui è facilmente intuibile l’importanza attribuita all’attenzione a non perturbare l’ambiente ed il bisogno di cercare ogni possibile espediente per evitare che venga avvertita la presenza dell’osservatore. Nell’osservazione etologica c’è una grande cura nella registrazione, anche con l’utilizzo di espedienti tecnici (telecamere, registratori audio, check list, utilizzo dello specchio unidirezionale che consente di vedere senza essere visti), La meticolosa registrazione dell’osservazione va a comporre il cosiddetto etogramma.

Un esempio emblematico dell’osservazione partecipe è invece quello dell’infant observation, utilizzata sia in ambito psicologico (soprattutto relazione madre-bambino), che educativo. Questo modello è stato ideato da Esther Bick e Martha Harris e si articola in tre momenti:

  • l’esperienza dell’osservazione diretta;
  • la scrittura del protocollo dell’osservazione, da effettuare subito dopo la fase di osservazione;
  • il lavoro di analisi dei protocolli in piccolo gruppo (seminario) condotto da psicoanalista o psicoterapeuta didatta con formazione psicoanalitica modello Tavistock.

Come si diceva, in questo caso l’osservatore, consapevole di non poter tracciare un confine di separazione netta tra osservato e osservatore, decide di essere pienamente visibile e presente. Egli avrà comunque la più grande attenzione a non creare volontariamente una turbativa della realtà osservata, astenendosi da una presenza che non sia del tutto essenziale. Eviterà l’uso di mezzi di registrazione e cercherà di fare in modo che la sua osservazione si limiti alla memorizzazione dell’accaduto, evitando per quanto possibile, una sua elaborazione o inferenze rispetto ad esso.

Un’altra forma di categorizzazione che contraddistingue l’universo dell’osservazione, specie in contesto scolastico, è quella tra osservazione sistematica ed osservazione libera. Nel primo caso ci si riferisce normalmente ad un’attività controllata, sia nei tempi che nelle modalità, che prevede l’uso di strumenti di registrazione ( di solito apposite griglie), mentre il secondo denota un’attività che fa da sfondo, che coglie momenti dell’interazione educativa senza che ci sia una preventiva predisposizione del contesto, che prevede la capacità di saper vedere in modo estemporaneo, cogliendo momenti, situazioni, azioni all’interno della normale attività di apprendimento-insegnamento. Ovviamente questo secondo approccio è molto meno affidabile del primo. Van der Mars descrive così il processo di un’osservazione sistematica:

  • decidere cosa osservare (è importante delimitare molto bene il focus)
  • individuare chiaramente i comportamenti che si intendono osservare
  • selezionare le tattiche di osservazione più appropriate andando a verificare se esiste un metodo di osservazione già sperimentato che risponde alle necessità dell’osservatore
  • stabilire l’affidabilità dell’osservatore
  • effettuare l’osservazione
  • sintetizzare ed interpretare i dati raccolti.

La sistematicità sta quindi nel creare le condizioni perché l’osservazione sia un processo controllato e il più possibile appropriato, evitando dispersioni e il rischio che l’inevitabile partecipazione si traduca in manifesti fraintendimenti o arbitrarie distorsione della realtà osservata.
Diciamo quindi che, così come ogni altro aspetto dell’educare/insegnare, bisognerebbe evitare l’estemporaneo faidate. Per diventare dei buoni osservatori bisognerebbe seguire un apposito training di formazione, sotto la guida ed il controllo di un esperto.
È infatti necessario, almeno nella fase iniziale, poter far affidamento sulla presenza di un supervisore che aiuti a leggere il proprio vedere, che faccia rilevare i rischi dell’inferenza a cui si è naturalmente portati per il nostro innato bisogno di categorizzare la realtà.
All’inizio è molto difficile osservare mentre si insegna: meglio la presenza di un osservatore esterno, magari alternandosi con un collega nell’azione didattica e nell’attività di osservazione.
Molto utile può essere anche l’uso della videoregistrazione, che consente di rivedere l’accaduto con calma, anche rallentando la ripresa, e che permette di confrontare l’occhio dell’osservatore con quello della videocamera. Ovviamente quest’ultima può costituire un significativo elemento di disturbo, anche se la tecnologia attuale mette a disposizione a poco prezzo apparecchi molto piccoli, facili da occultare. In ogni caso se la presenza della videocamera diventa un oggetto usuale, dopo un po’ la si ignora o si impara ad acquisire una certa naturalezza. L’uso della videoregistrazione a scuola necessita però di autorizzazioni. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14270 del 5 maggio 2022, ha stabilito che necessita il consenso degli studenti, o, se minori, degli aventi la potestà.
Ovviamente poi è necessario evitare qualsiasi pubblicazione del materiale registrato. Su questo aspetto in occasione della DAD il Ministero aveva pubblicato una nota con cui affidava alle singole scuole la regolamentazione.

Scelta per noi da Leonarda Tola

Magnificat” (Fazi Editore, settembre 2022) è il primo romanzo di Sonia Aggio, venticinque anni, di Rovigo; laurea in Storia, autrice di racconti segnalati dalle giurie di noti premi letterari. È importante annotare il luogo di nascita dell’autrice, decisivo per l’argomento del libro: trama narrativa scandita nella prima parte da capitoli i cui titoli sono date. Giugno 1951, Luglio 1951, Agosto 1951, Settembre 1951, Novembre 1951. Sono i mesi di un anno particolare, il 1951, che include il 14 Novembre, la Notte dell’alluvione. L’anno, il mese e il giorno indicano dunque l’alluvione del Polesine, la “rotta del Po” che segnò tragicamente in quel terribile autunno la vita e la storia della popolazione soprattutto del Veneto e delle terre tra il Po e l’Adige provocando morte e distruzione. Il romanzo ha questa singolare cornice storica e ambientale e si sostanzia del riferimento all’evento realmente accaduto settant’anni fa e mai dimenticato; tale da suscitare un coinvolgimento emotivo, dilagato nel profondo in coloro che lo hanno vissuto e negli Italiani tutti che allora risposero con intima partecipazione.
La scelta della giovane scrittrice di intessere una storia attingendo alla memoria dell’alluvione in Polesine attiene alla sua competenza di storica; tuttavia non si deve pensare che il romanzo sia la cronaca dei fatti, un racconto in successione di quelle ore di angoscia e di disperazione al fine di colmare una rilevata e obbiettiva carenza di narrazione intorno a quell’enorme disastro ambientale e sociale. La stessa autrice rivelando le sue fonti ricorda
Cronache dell’alluvione di Gian Antonio Cibotto, di Lendinara in provincia di Rovigo; uno dei pochi libri-documento esistenti sull’argomento e meritoriamente appena ripubblicato da La nave di Teseo (2022).
Magnificat infatti non è un romanzo realistico sull’alluvione benché episodi e scenari siano ripensamenti di testimonianze che l’autrice ha minuziosamente raccolto per la sua tesi di laurea. Il titolo, inatteso e irresistibile, richiama il quadro della Madonna di Botticelli detta del magnificat. Una suggestione incombente e pervasiva di un’immagine di sovrumana bellezza evocata anche per celebrare la somiglianza degli angeli del mirabile dipinto con Norma, una delle protagoniste. Il libro infatti è una immaginaria storia di donne a due voci: Nilde e Norma cugine quasi sorelle, ventenni in quel 1951 e nella stessa casa, legate al filo doppio del sangue e della predilezione, ferite dal sentimento di una vita sospesa, dal pregusto dolce amaro dell’amore e della morte; immerse nel gorgo della giovinezza solo al femminile, con tutti i sensi aperti alla vita, insidiate dai flutti rovinosi dell’acqua di fiume nel corso irregolare di una ineluttabile fatalità. Nilde fragile e fiduciosa è scossa dagli avvenimenti, Norma, in obbedienza al suo nome-omen (legge), è la creatura sacrificale, personificazione dell’eroe tragico che in poesia e nella letteratura non può sfuggire al suo destino.
Il filo teso che sostiene l’ordito e mai lo abbandona è la descrizione carica di pathos del sommovimento della natura incattivita, del travalicare dagli argini dell’acqua da diluvio universale: pagina dopo pagina compaiono i segni lenti, premonitori e inesorabili, della nebbia fredda sopra i campi, la pioggia che comincia, batte in faccia e non smette, il vento che sibila, le golene allagate, il rumore del Po nella piena che avanza. Dentro la furia caotica degli elementi naturali si apre il varco un turbamento della mente e del cuore da arginare con l’istinto primordiale della sopravvivenza: meglio detto nella lingua materna, il dialetto veneto che ogni tanto tra le righe fiorisce potente sulle labbra abituate ad invocare il magico e il soprannaturale a testimone della rovina di tutte le cose.
Magnific-o romanzo d’esordio di una promettente scrittrice.

1951. L’alluvione tra sogno e visione

È passata una settimana e non è accaduto nulla: solo, l’acqua ha continuato a crescere, ha invaso le golene, soffocando i salici, i pioppi. Scorre lenta, piena di gorghi, trascinando con sé interi alberi. Il ponte di barche di Polesella viene ritirato. Sul ponte di Santa Maria Maddalena i treni procedono veloci, l’acqua ha avvolto i piloni, lambisce le arcate d’acciaio.
Qualcosa comincia a muoversi: sugli argini compaiono, con gli aratri e le vanghe, i mezzadri e i braccianti strappati dai campi.
Da Rovigo arrivano camion pieni di sacchi vuoti, gli uomini li riempiono con la sabbia del fiume e li impilano vicino all’acqua. Le strade arginali prendono l’aspetto di trincee – le barriere proseguono per centinaia di metri. Dietro, gli uomini al lavoro si fermano e si tolgono il berretto soltanto per le processioni: i preti portano sull’argine i crocifissi, le statue, le icone. Ave Maria gratia plena… Pater Noster adveniat regnum tuum… Ave Maria gratia plena… Gloria Patri et Filio...
«Sant'Eurosia», mormora Norma. «Sant'Eurosia protettrice contro le tempeste».
A volte, le squadre al lavoro sulle due rive si bloccano, si fissano al di sopra dell'acqua grigia. Si chiedono: Quale argine è più debole? Loro stanno mettendo più sacchi! E se si rompesse di là? Magari rompesse di là!
«Quando arriverà?», chiedono le donne. La domanda passa di bocca in bocca, si trasforma in una cantilena angosciata. I ragazzi fanno la spola tra le rive e i paesi, si incollano alla radio dell'osteria e tornano indietro, pedalando nel fango, solo per dire che non ci sono novità. Il Po non rompe, e continua a piovere.

Lei ha percorso tutto l'argine, da Melara a Tolle, ha cercato un indizio, ma il fiume preme lento sugli argini, canta una sola nota. A volte l'occhio sinistro le fa male; quando cerca di abbassare la palpebra quella si spalanca e lei non sa più se sia il 13 novembre del '51 o un altro tempo, questo Po o un altro fiume.
Dopo Tolle, l'aria risuona di schianti. Norma si avvicina: il mare è in burrasca, si scaglia contro la riva, contro il fiume ingrossato. Le onde gettano schiuma e sale nel cielo.
Lei ha la nausea. Dove andrà tutta quest'acqua? Come farò a trattenerla?
Un dolore sottile s'insinua nell'occhio sinistro. A est, un filo di luce filtra tra le nuvole, sfiora la cima delle dune e le piove sul viso. Norma resta immobile finché non si spegne.

Quella sera si addormenta accucciata sotto una quercia, la testa sulle ginocchia, e si risveglia nel cuore della notte. Cerca il cielo attraverso i rami degli alberi, grosse gocce le cadono sulla faccia.
A pochi metri ha un gruppo di uomini che siedono attorno al fuoco. Non si sono accorti di lei. Angosciata, Norma si mette in ginocchio.
Un campanile batte dodici rintocchi. È mezzanotte. È il 14.
Norma si tocca il viso, sente la mano tremare sulla pelle gelida. Un brivido le risale la schiena. Si stringe la gola, il sangue le batte sulle dita. Si raggomitola.
«È oggi», sussurra, troppo piano per farsi udire.

***

La notizia corre come un fulmine: «Il Po ha rotto a Bergantino, si salvi chi può!».
I volontari lasciano i sacchi mezzi pieni e scendono giù dall'argine prima che arrivi l'acqua – devono portare in salvo le mogli, i figli, i mobili e le bestie.
Qualcuno si attarda per spingere l'aratro sull'argine fradicio – l'acqua dovrà riempire i solchi, prima di riversarsi sui campi. Guadagneranno qualche minuto, forse.
Norma li incontra lungo la strada – i mandriani che spingono gli animali, gli uomini che gridano per avere la precedenza, le famiglie in fuga, i neonati che strillano in braccio alle madri. La folla è lenta e pesante come la piena, ma cammina verso nord.

Tratto da: Sonia Aggio, Magnificat, Fazi Editore, 2022

Spreco

di Gianni Gasparini

La prima cosa da non sprecare sono le cose, le cose materiali come i fiammiferi. Ricordo da piccolo, negli anni ’50, che mia nonna quando accendeva il gas per cucinare non buttava via il fiammifero usato (allora ovviamente non c’erano accendini) ma lo teneva per un’altra accensione, che sarebbe avvenuta prendendo la fiamma da un gas già acceso e quindi risparmiando un fiammifero da cucina. L’esempio è forse estremo, ma si viveva in una cultura molto attenta, anche nei dettagli delle cose e delle risorse, a non sprecare nulla, a risparmiare tutto quello che si poteva, dagli alimenti (i cui resti, quando c’erano, venivano opportunamente riutilizzati per nuovi piatti) persino alla carta igienica. Un altro esempio che ricordo è quello della luce elettrica: guai ad accendere luci in stanze diverse alla sera, a meno che fosse indispensabile.
Era una economia della scarsità, che oggi in parte è riecheggiata da alcuni richiami alla sobrietà nell’utilizzo di alimenti, oggetti per la casa, giocattoli, medicine, risorse energetiche. Tali richiami o inviti trovano peraltro consistenti limiti non solo nell’atteggiamento orientato al consumismo che è imperante da decenni ed è ovviamente favorito dalle aziende produttrici di beni ma anche nell’oggettiva difficoltà che si incontra spesso nel proposito di riutilizzare le cose: normalmente, il costo di una riparazione di un qualsivoglia elettrodomestico è del tutto sconveniente sul piano economico, ammettendo anche di trovare qualcuno che si accolli il compito della riparazione.
La seconda cosa che si può sprecare o non sprecare è il tempo. Semplicemente. Un’antica lauda duecentesca, parte del Laudario di Cortona, recita ‘Troppo perde ‘l tempo chi ben non t’ama, dolce amor Jesu, sovr’ogni cosa’. Venendo ad una sensibilità moderna e laica del tempo, si osserva quanto sia diffusa oggi la consapevolezza della sua preziosità, e tanto più – di conseguenza – la constatazione che una persona può fare di non aver utilizzato opportunamente o validamente il tempo della propria giornata, della propria età, della propria vita in genere. Amara e pungente è spesso la presa d’atto di aver dissipato, dilapidato, sprecato il tempo che si aveva a disposizione.
Non sempre però il tempo che sembra sprecato lo è veramente: accade in alcune esperienze profonde, come possono essere quella del dono fatto ad altri (che è sempre, anche, un dono di tempo), della riflessione e meditazione profonda, dell’immersione nella meraviglia della natura. Vi sono, in particolare, momenti in cui si percepisce che il dono fatto liberamente ad un’altra persona è anche motivo in qualche modo di spreco: il dono è tempo che sfugge alla logica utilitaristica dell’efficienza, è tempo liberato in uno slancio che non guarda le lancette dell’orologio e che trova spesso espressione nell’esperienza della festa, in cui lo spreco di risorse è un elemento primario. Una citazione evangelica riporta l’episodio in cui una donna “spreca” un vaso di nardo preziosissimo per ungere i capelli di Gesù, che di fronte alle obiezioni di chi proponeva un uso alternativo di quella risorsa loda invece la donna, che è mossa da una logica diversa, potremmo dire da un criterio di spreco (Vangelo di Giovanni 12, 2-8).
C’è un altro aspetto dello spreco, legato allo spendere male il tempo e che mi preme indicare: si tratta del perdere le occasioni, specialmente quelle occasioni favorevoli che i greci indicavano con il termine kairós. Ci si riflette spesso in termini individuali, quando si rimpiange qualcosa che non si è fatto per cogliere un’occasione propizia che ci si presentava, che si è offerta a noi e non abbiamo saputo o voluto cogliere. Ma c’è anche un’altra dimensione di questo spreco: avviene quando un soggetto collettivo, un gruppo, un movimento o un partito politico si lasciano sfuggire e quindi sprecano l’occasione di migliorare la qualità di vita, o il livello di giustizia sociale che avevano a portata di mano. Gli esempi concreti naturalmente sono molteplici e risentono delle opzioni di valori che fanno capo a ciascuno: personalmente, mi permetto di citare il 20 luglio 2022 in Italia, la data in cui è stato fatto cadere inopinatamente il governo presieduto dallo statista più stimato nel mondo.

A cura dell'Ufficio Sindacale CISL Scuola

CCNI sulla mobilità
Come è noto, pur essendo in attesa che venga esaminato il ricorso presentato contro l’ordinanza con cui il Tribunale di Roma ha ritenuto di ravvisare un comportamento antisindacale in occasione della firma del CCNI sulla mobilità, l’Amministrazione ha ritenuto di dover dare comunque seguito alla decisione del Giudice riconvocando il 19 ottobre scorso il tavolo negoziale.
Al di là di altre considerazioni su una vicenda che presenta aspetti paradossali (vedi  i comunicati dell'11 luglio 2022, del 12 luglio 2022 e le news del 19 ottobre e del 28 ottobre), c’è da dire che quel contratto avrebbe dovuto essere comunque ridiscusso, essendo nel frattempo intervenute rilevanti novità legislative, introdotte dal Decreto-Legge 36/2022 convertito dalla Legge 29 giugno 2022, n.79, che cambiano sostanzialmente il contesto normativo di riferimento. Altra ragione che imporrebbe una revisione del contratto integrativo potrebbe essere la chiusura in tempo utile del CCNL, qualora di riuscisse, come da noi auspicato, a recuperare spazi più ampi per una disciplina in sede negoziale, e non per legge, di tutto ciò che riguarda la mobilità del personale.
Resta il fatto che il CCNI siglato a gennaio dalla CISL Scuola ha consentito a più di 15.000 docenti di ottenere un trasferimento che, altrimenti, le disposizioni di legge allora vigenti avrebbero impedito.
Nel merito di quanto finora discusso nelle due sedute di negoziato, si registra al momento una distanza notevole fra le parti in quanto l’Amministrazione intenderebbe dar subito applicazione alle disposizioni il Decreto-Legge 36/2022 anche per gli assunti a settembre 2022, mentre per la CISL Scuola i nuovi vincoli possono riguardare soltanto coloro che verranno assunti in forza delle procedure di reclutamento previste dallo stesso Decreto-Legge 36.

Rinnovo del CCNL
La fase di trattativa sul rinnovo del contratto entra nel vivo. La CISL Scuola, insieme alle altre OO.SS. del comparto, ha ottenuto, al termine di una difficile discussione, che i finanziamenti previsti per la scuola dalla Legge di Bilancio 2022 (circa 340 milioni di euro) non vengano convogliati nel Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa (utilizzabile per retribuire attività aggiuntive con compensi erogati a livello di istituto) ma piuttosto resi disponibili per la trattativa con l’ARAN sul rinnovo della parte economica del CCNL.
La situazione non ha, comunque, ancora trovato una soluzione definitiva per quanto riguarda le finalità di utilizzo di tali risorse. La CISL Scuola è fortemente impegnata perché siano rese pienamente disponibili al fine di consentire in termini generali un beneficio salariale significativo.
In sede contrattuale, la Cisl Scuola intende, inoltre, affrontare i vincoli introdotti dalle disposizioni di legge in tema di mobilità e anche ricondurre a contratto tutti gli interventi che il legislatore ha inteso portare a carico delle risorse del Fondo MOF (continuità didattica, esoneri dei collaboratori dei dirigenti scolastici nelle scuole in reggenza, indennità di disagio per i docenti che insegnano nelle piccole isole).

Contrattazione di istituto
Nel mese di novembre, come prevede il CCNL, dovrebbero concludersi le fasi relative alla contrattazione di istituto. Le risorse afferenti al Fondo MOF, stante la decisione - già richiamata in precedenza - di assegnare al rinnovo del CCNL i fondi stanziati dalla Legge di bilancio per il 2022, sono rimaste inalterate rispetto allo scorso anno (800.860.000 euro), così come i criteri di ripartizione alle scuole.

Monitoraggio assunzioni
La CISL Scuola, con una richiesta formalizzata insieme alle altre organizzazioni sindacali, ha chiesto al Ministero un monitoraggio dettagliato delle assunzioni in ruolo (attraverso le varie procedure) e delle assunzioni a tempo determinato (annuali e fino al termine delle attività didattiche) effettuate per l’a.s. 2022/23.
A nostro avviso i dati non potranno che evidenziare gli esiti fallimentari delle scelte relative alla formazione iniziale e al reclutamento dei docenti (in particolar modo di quelli della scuola secondaria) e dovranno costituire un punto di riferimento essenziale in direzione di un loro auspicabile ripensamento.
Insieme ai dati relativi alle assunzioni sono state anche richieste informazioni sullo stato delle varie graduatorie (concorsi ordinari, straordinari, GAE, GPS).
Analoga richiesta è stata avanzata per quanto riguarda il personale educativo e il personale ATA.

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Aggiornamenti in tempo reale e più dettagliate informazioni sulle iniziative eventualmente promosse dalle strutture territoriali sono disponibili sul nostro sito e in particolare nella pagina degli “Appuntamenti.

I NOSTRI AUTORI

Paolo Acanfora, docente di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma.

Donato De Silvestri, professore a contratto di Progettazione e documentazione del lavoro socio-educativo presso l’Università di Verona. Ha pubblicato: Didattica. Essere buoni docenti oggi, Tecnodid 2020.

Gi(ov)anni Gasparini, sociologo e scrittore. È autore di scritti di sociologia, poesia, critica letteraria, teatro, spiritualità, natura.

Raffaele Mantegazza, pedagogista, educatore, saggista e narratore. Docente universitario. Uno dei suoi ultimi libri: La scuola dopo il coronavirus, Castelvecchi 2020.

Reginaldo Palermo, già maestro e dirigente scolastico, giornalista pubblicista, ha collaborato con riviste di pedagogia e didattica. Attualmente è vicedirettore di La Tecnica della Scuola.

Emidio Pichelan, insegnante e sindacalista della Cisl. Formatore del Centro Studi Cisl. Ha fatto parte del CdA del Cede e del Cedefop a Berlino.

Leonarda Tola, studi classici. È stata insegnante e dirigente scolastico, è giornalista pubblicista. Collabora da tempo con la nostra rivista Scuola e Formazione.