Giugno 2022

In questa pagina:
Pensieri a voce alta: Un bilancio, guardando avanti (Ivana Barbacci)
La parola del mese: Costituzione (Luciano Corradini)
Identita' Cisl: L'unita' e la sua fine (Francesco Lauria)
Hombre vertical: Un capitolo nuovo anche per la contrattazione? (Emidio Pichelan)
Storia contemporanea: Religione e politica nel fascismo (Paolo Acanfora)
Un autore: Epica della dissoluzione (Leonarda Tola)
Autobiografie scolastiche: Charles Péguy (Mario Bertin)
Zibaldone minimo: Attenzione (Gianni Gasparini)
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PENSIERI A VOCE ALTA

Un bilancio, guardando avanti

di Ivana Barbacci

Si chiude con questo numero la serie dei nostri appuntamenti mensili legati all’Agenda 2021/22. Inevitabile che le riflessioni, come in ogni momento conclusivo di un cammino, in qualche modo lo ripercorrano per trarne un bilancio, rivivendone e fissandoli nella memoria i punti salienti, facendo tesoro di ciò che può diventare bagaglio utile per affrontare quelli successivi. I ritmi della nostra agenda sono quelli dell’anno scolastico, e quello che con questo mese si chiude (anche se la formale conclusione è al 31 di agosto) non può essere certo definito di ordinaria amministrazione. Eventi interni e “di contesto” ne hanno segnato in vario modo lo svolgimento, ponendoci ripetutamente di fronte a situazioni impegnative, difficili da comprendere e gestire per la loro complessità, problematiche quando non addirittura drammatiche, come nel caso della pandemia che ci ha accompagnato anche in quest’anno scolastico e soprattutto della guerra esplosa ai confini dell’Europa ormai da più di tre mesi.
Tra le situazioni problematiche sicuramente rientrano le vicissitudini che hanno contrassegnato i rapporti con le altre sigle sindacali. È di soli due giorni fa l’effettuazione di uno sciopero che se da un lato ha visto ricomporsi il fronte unitario (confermando quanto da noi più volte sottolineato nei mesi scorsi, parlando di rotture né inedite, né irreparabili), dall’altro ha confermato la necessità di un’attenta riflessione su come garantire il massimo di presa e di efficacia alla forma di lotta più antica e nobile di cui il sindacato dispone. I numeri rilevati, anche se ancora provvisori, ci dicono che è andata decisamente meglio (oltre il 17% di adesioni) di quanto non avvenne a dicembre (7%) su azioni non condivise dalla CISL Scuola e dalla CISL. Ma evidenziano una distanza rimarchevole rispetto a precedenti astensioni, che diventa abissale se confrontata con i due grandi scioperi del 30 ottobre 2008 (tagli Gelmini-Tremonti, 65% di adesioni), e del 5 maggio 2015 (“buona scuola” di Renzi, 64,9%). Non credo sia solo il tempo trascorso, ancorché considerevole, a spiegare una così diversa entità di risposta della categoria alle azioni messe in campo. È nostro dovere cercare di capirne quanto più possibile le ragioni, ed è anche un preciso interesse, visto che la strada verso una soddisfacente rivalutazione del nostro lavoro rimane ancora in gran parte da percorrere, e che si sta dimostrando impegnativa e difficile in qualunque contesto politico, avendone sperimentato ormai di tutti i colori. Nell’immediato, abbiamo bisogno di poter far conto sulla possibilità di chiamare la categoria a sostenerci nel negoziato sul rinnovo del contratto, avviato da pochi giorni e che si non si profila certamente come un banale “compito per le vacanze”.
Qualche soddisfazione l’abbiamo però avuta, in quest’anno tormentato. Le emozioni e il calore di un congresso partecipato con entusiasmo e ricchissimo di contenuti importanti; l’ottimo risultato nelle elezioni RSU, che hanno visto aumentare i consensi per le nostre liste; l’affermazione netta nel rinnovo dell’Assemblea dei Delegati del Fondo Espero, dove siamo stati i più votati. Su tutte, la soddisfazione di aver aperto le porte alla mobilità di 15.000 docenti che, senza il contratto da noi fortemente voluto, sarebbero incappati nei vincoli imposti dalle norme di legge e non avrebbero avuto la possibilità di ricongiungersi o avvicinarsi al proprio nucleo familiare. Considerato che le domande di mobilità accolte sono state in tutto quasi 50.000, non si tratta certo di una porzione irrilevante. Molto resta da fare, in tema di mobilità, al tavolo del rinnovo contrattuale: ma intanto il risultato ottenuto ci ripaga della fatica spesa per ottenerlo e anche, perché non dirlo, dagli attacchi spesso oltre i limiti del buon gusto che abbiamo dovuto subire.
La tragedia della guerra resta il pensiero dominante da più di tre mesi, nei quali gli spiragli di una possibile soluzione negoziata del conflitto si sono fin qui alternati alla preoccupazione di una sua possibile escalation su scala mondiale. Ne ho parlato nei miei pensieri a voce alta del mese scorso, e anche il mese precedente, quando scrivevo che il tema della guerra “lacera le nostre coscienze per la difficoltà a tenere assieme l’anelito alla pace come bene supremo e la solidarietà, doverosa, per un popolo che resiste a una proditoria invasione della propria terra, della propria libertà, della propria vita”. Ho indicato come punto di riferimento e di orientamento, e lo ribadisco, le parole importanti e chiare spese dal nostro Capo dello Stato nelle celebrazioni per l’anniversario della Liberazione. Parole che riecheggiano in quelle pronunciate da Luigi Sbarra pochi giorni fa, nella relazione di apertura del XIX Congresso CISL: “Invocare la pace non basta. La pace va costruita. E non una pace qualsiasi, purché sia”. “Quella che va perseguita – ha aggiunto - è una pace giusta e duratura, la pace dei diritti umani, della democrazia”. E ha poi ripreso integralmente una parte del messaggio inviato all’ANPI da Liliana Segre per il 25 aprile di quest’anno: “L’aggressione immotivata e ingiustificabile contro la sovranità dell’Ucraina rappresenta proprio l’esempio evidente del tipo di guerra che, più di ogni altro, l’articolo 11 della Costituzione ci insegna a ‘ripudiare’: la guerra come ‘strumento di offesa alla libertà degli altri popoli’. E la resistenza del popolo invaso rappresenta l’esercizio di quel diritto fondamentale di difendere la propria patria che l’articolo 52 prescrive addirittura come ‘sacro dovere’. Dunque, non è concepibile alcuna equidistanza”.
Voglio chiudere queste mie riflessioni restando sul tema angosciante della guerra, per segnalare però una bella iniziativa nella quale abbiamo voluto essere coinvolti, quella promossa dalla Caritas con la stampa e la diffusione di un quaderno pensato per facilitare l’accoglienza nelle nostre classi degli alunni profughi dall’Ucraina. Ci è sembrato un gesto di solidarietà concreta, utile, immediata, in linea con lo stile che ci contraddistingue, in questa come in altre circostanze, caratterizzando il nostro modo di fare sindacato nel segno di un’attenzione puntuale e sensibile ai problemi delle persone e alla ricerca delle soluzioni necessarie. Non lo consideriamo un ripiegamento sulla banalità del quotidiano: piuttosto, un salutare antidoto ai rischi di vaniloquio.
Buona estate a tutti, la nostra sarà come sempre in gran parte di lavoro, per preparare al meglio una ripresa dell’anno scolastico che ci auguriamo di poter vivere in un clima più sereno.

LA PAROLA DI QUESTO MESE

Costituzione

di Luciano Corradini

Costituzione e diritti umani come patrimonio e compito formativo della scuola

Il richiamo ai principi, ai valori, ai diritti e ai doveri presenti nella Costituzione della Repubblica Italiana (22-27 dicembre 1947) e successivamente proclamati ad ambito mondiale nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (10 dicembre 1948) non va considerato solo come un rituale burocratico, o come espediente retorico, quando viene fatto a proposito della scuola e del suo compito di educare, di istruire e di formare le giovani generazioni.
Tale richiamo serve piuttosto a riconoscere che questo compito educativo discende dal mandato che le Nazioni Unite da un lato e la Repubblica Italiana dall'altro hanno conferito a tutti i soggetti della famiglia umana, e in particolare agli italiani, di generazioni presenti e future, affinché riconoscano teoreticamente e praticamente, nei comportamenti e nell’educazione, i diritti e i doveri di ogni persona umana, come condizione per non cadere nei totalitarismi che avevano prodotto la guerra e i campi di sterminio, da cui si era usciti con immensi sacrifici di uomini e cose. Se questo mandato vale per tutti (il Preambolo dell’ONU chiama in causa “ogni individuo e ogni organo della società”), vale in particolare per la scuola e per i docenti.
Questo mandato è il frutto di una drammatica presa di coscienza, che ha reso possibile l'inizio di una nuova stagione, sul piano giuridico e sul piano politico: si capì infatti che questa stagione avrebbe avuto un respiro corto, se non avesse potuto fondarsi su premesse di carattere etico, culturale e educativo, che consentissero piena comprensione e sostanziale rispetto del patto fondativo della convivenza umana, da cui dovevano nascere sia, sul piano planetario, una nuova società internazionale, sia, per il nostro paese, la Repubblica Italiana.
È questa una costruzione più importante della Muraglia cinese, la più imponente di tutti i muri difensivi, che è risultata inutile per difendere l’impero cinese. Non è con le opere militari e con la violenza che si salva l’umanità, ma con l’esperienza dei propri insuccessi e con la riflessione sull’alternativa a questi. E l’insuccesso che ha scosso e mobilitato in particolare gli italiani nel secolo scorso, viene dai totalitarismi del Novecento e dalle due guerre mondiali, con i relativi massacri e campi di sterminio: l’alternativa viene dal riconoscimento del valore della vita e dalla scoperta della dignità della persona umana. Quello che purtroppo molti continuano a non capire: il caso più recente, incomprensibile e tragico è quello della guerra di aggressione scatenata il 24 febbraio dalla Russia di Putin all’Ucraina, che sta creando danni enormi a una Terra, faticosamente avviata verso la terapia di salvezza prevista dalla ormai insufficiente Agenda ONU 2030.
La dignità della persona, citata all’inizio del Preambolo della Dichiarazione Universale (dignità che inerisce “a tutti i membri della famiglia umana”) e nell’art. 3 della nostra Costituzione, che riconosce “pari dignità” a tutti i cittadini davanti alla legge e finalizza tutto l’ordinamento della Repubblica al “pieno sviluppo della persona umana”, è la radice di diritti inviolabili e di doveri inderogabili. Questo riferimento al valore supremo della dignità è un costrutto concettuale tanto semplice da enunciare quanto difficile da precisare, da difendere da concezioni ideologiche riduttive, da conservare nella coscienza e da praticare nella prassi: ed è, come l'esperienza dimostra, soggetto a "dimenticanza", soprattutto, ma non esclusivamente quando riguarda “gli altri”.
È necessario perciò "ricordarlo", "ripulirlo" costantemente dalla "polvere" sollevata dalla storia e dalla cronaca quotidiana, per aiutarsi a riconoscerne la faticosa affermazione nel diritto e nel costume, la delicata bellezza e la precaria resistenza agli attacchi degli istinti, dei calcoli e degli interessi coalizzati e assolutizzati; e per esplorarne le implicazioni sul piano delle idee, delle istituzioni, degli atteggiamenti e dei comportamenti: implicazioni opposte, relative al suo riconoscimento e al suo disconoscimento.
Ciò vale particolarmente in riferimento alla vita della scuola, e ai contenuti, agli stili relazionali e ai metodi d'insegnamento e di apprendimento che la caratterizzano. E implica che la scuola concorra, per la sua parte e con i suoi strumenti, al raggiungimento delle finalità generali della convivenza umana e a quelle dell’ordinamento costituzionale italiano. Le prime sono indicate nell’art. 26 della Dichiarazione Universale (“L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”); le seconde sono indicate nel citato art. 3 dell’ordinamento costituzionale italiano.
Alla scuola si chiede quindi, a livello mondiale e a livello nazionale, di adoperarsi perché sia possibile insegnare e apprendere il riconoscimento e il rispetto della dignità umana e delle sue implicazioni, e non solo le conoscenze e le competenze relative alle diverse discipline scolastiche.
Non è il parziale e talora pesante insuccesso delle istituzioni educative, che del resto si manifesta, con diverse modalità, in tutto il mondo, a determinare l'irrilevanza o l’impossibilità di un impegno educativo di queste dimensioni: come la dispersione scolastica e l'ignoranza strumentale non giustificano l'abbandono dei compiti tradizionalmente più noti della scuola, relativi alla lotta all’ignoranza, così l'analfabetismo di tipo etico, estetico, sociale, civico e politico di cui la collettività soffre, anche più acutamente in tempi recenti, caratterizzati da un accrescimento dei diritti, cui non corrisponde un parallelo accrescimento dei doveri, non giustifica la rinuncia delle istituzioni e delle persone ad affrontare anche nella scuola, e in collaborazione con essa, il mandato di educare.
Queste carenze di umanità e questi insuccessi educativi richiedono piuttosto un rinnovato, prolungato e coerente impegno di attenzione, di riflessione, di ricerca di strade più praticabili ed efficaci per lottare contro i limiti riscontrati e per conquistare quei traguardi di umanità che l’esperienza storica ha manifestato, se non come facili, almeno come possibili.

Ricordare diritti e doveri, per continuare a credere e ad essere
Bisogna dunque anzitutto ricordare, fare un adeguato sforzo di memoria, non dimenticare. Viene in mente l’espressione biblica: “Shemà Israel”. Questo ricordo collettivo spetta anzitutto alla scuola, che è l’istituzione in cui si verifica il passaggio di testimone fra una generazione a l’altra.
A proposito dei diritti umani, la Costituzione utilizza tre verbi, due sostantivi e due aggettivi, con i quali traccia la mappa fondamentale di un tesoro che è stato smarrito dalle dittature del primo Novecento e che è stato ritrovato a spese di immensi sacrifici, attraverso una guerra mondiale. I sostantivi sono i diritti e i doveri. I verbi sono: riconosce e garantisce, riferiti ai diritti, e richiede, riferito all’adempimento dei doveri. Gli aggettivi sono: inviolabili, riferito ai diritti, e inderogabili, riferito ai doveri. E riguardano l’uomo, soggetto e titolare degli uni e degli altri: ossia ogni uomo, sia come singolo, sia nelle “formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.
La riconosciuta pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3), non sono un dato pacifico, ma valori da coltivare e obiettivi da perseguire. La Repubblica non si limita ad assistere alla dialettica sociale, affidando la riconosciuta dignità di tutti gli uomini al solo gioco della libertà e del mercato, ma assume su di sé il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).
Anche l’uomo è un fatto da riconoscere, ma la sua dignità, i suoi diritti e i suoi doveri appartengono all’ordine dei valori, del dover essere, e possono essere negati di fatto: hanno a che fare con la libertà, ma non qualunque esercizio della libertà è compatibile con questa dignità, con l’esercizio assicurato e richiesto a tutti di questi diritti e di questi doveri.
C’è una libertà che libera, che rende uguali e promuove giustizia, ordine e pace; e c’è una libertà che ostacola, impedisce, discrimina, esclude. Ebbene tutto l’ordinamento giuridico-politico che va sotto il nome di Repubblica democratica è volto a limitare il potere di danneggiare gli altri, ivi compreso il potere delle maggioranze, e a promuovere, come s’è ricordato, “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese”. Questa organizzazione non è altro che la stessa repubblica democratica, che è concepita in tal modo sia come soggetto promotore, sia come risultato di un processo sociale che si regge proprio sul rispetto di questi diritti e sull’esercizio dei corrispondenti doveri: ossia sulle virtù personali, civiche e politiche e sul buon funzionamento di istituzioni sempre più capaci di attuare i principi costituzionali.
Anche gli studenti, otre agli insegnanti e ai genitori, sono Repubblica che rimuove gli ostacoli e sono responsabili del rispetto e della promozione del pieno sviluppo della persona dei loro compagni. Spesso li conoscono meglio e hanno la possibilità di intervenire più dei docenti.
Il cosiddetto patto costituzionale tra i cittadini è la scommessa-proposta fatta dai Costituenti, a nome del popolo italiano, cioè anche a nome nostro e dei nostri figli, che una repubblica rispettosa dei diritti e dei doveri sarebbe stata compresa e rispettata da persone umane, cittadini e lavoratori divenuti consapevoli della posta in gioco: libertà e giustizia, democrazia e pace, oppure conflittualità senza giustizia, caos, dittatura e guerra.
La Repubblica ci deve trattare da persone: ma noi dobbiamo trattare da persone gli altri e le altre, sia come singoli sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la personalità di ciascuno. Se la scuola è una di queste formazioni sociali, se, come dice la legge, è una comunità, dotata di autonomia, che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica, allora deve organizzarsi sulla base non solo dei fini che persegue e delle attività che svolge, ma nel rispetto e nella promozione delle persone dei suoi membri.

Dignità e possibilità della scuola per la valorizzazione del “tesoro” dell’educazione
La scuola deve perciò rispettare le norme che la fanno esistere come istituzione, ma anche esercitare i suoi poteri di deliberare, di eseguire le delibere e di giudicare i comportamenti dei suoi membri, in rapporto a quei fini e a quelle deliberazioni. Una comunità che non decide, che non rispetta, che non promuove i suoi membri, che non sanziona i comportamenti negativi non ha un grande futuro.
Si noti che lo Statuto delle studentesse e degli studenti (1998) è stato elaborato anche col contributo dei docenti del CNPI e del forum delle associazioni studentesche, dopo che in sede di ONU era stata approvata la Convenzione internazionale dei diritti del Minore (fino a 18 anni), il 20 novembre 1989, a duecento anni dalla dichiarazione dei diritti fatta al tempo della Rivoluzione francese.
È stupefacente scoprire che già nel 1948 le Nazioni Unite non hanno solo implicitamente proclamato i diritti dei minori, ma li hanno considerati soggetti capaci di educare. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è stata infatti solennemente proclamata come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni, "al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi stati membri quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione". (Preambolo alla Dichiarazione dell’ONU, 1948). “Ogni individuo” si riferisce pro quota anche ai piccoli alunni della scuola primaria.
A distanza di cinquant’anni dal 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, il 9 dicembre del 1998, un‘altra Dichiarazione (senza l’aggettivo ‘universale’) su “il diritto e le responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e realizzare le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti”. L’articolo 1 di questo solenne documento, conosciuto come la Magna Charta dei difensori dei diritti umani, proclama che “tutti hanno diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la promozione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale e internazionale”. Notare il verbo ‘lottare’, beninteso pacificamente, in uno spazio dove non esistono confini e muri per la difesa dei diritti umani, dentro e fuori dello Stato di appartenenza: è lo spazio “glocale”, dal quartiere fino ai grandi santuari della politica internazionale. L’articolo 7 di questa Magna Charta è altrettanto impegnativo dell’articolo 1: “Tutti hanno diritto, individualmente e in associazione con altri, di sviluppare e discutere nuove idee e principi sui diritti umani e di promuovere la loro accettazione”. I difensori dei diritti umani sono spronati a innovare anche sul modo di concepire, per esempio, la cittadinanza e la stessa comunità internazionale: cittadinanza inclusiva la prima, casa comune di tutti i membri della famiglia umana, la seconda.
Il costituente Piero Calamandrei diceva che la scuola è organo dello stato, più dello stesso Parlamento, proprio in quanto produttrice di uomini che tra l’altro dovranno anche far funzionare il Parlamento secondo lo spirito e le finalità della Costituzione. Non è mai troppo presto per riconoscere che la propria dignità si regge più sui doveri esercitati che sui diritti rivendicati.
Una scuola che non avesse niente da dire di fronte all’illegalità di massa, al pizzo mafioso, alla violenza squadrista, al bullismo, alla distruzione di giovani e di famiglie per anoressia, droga, alcool e stragi del sabato sera, e neppure intorno alle potenzialità di bene e di speranza che ci vengono dalla storia e da tanti settori della società, non difenderebbe la sua specificità istituzionale, ma negherebbe la sua legittimità morale ad occuparsi delle giovani generazioni e a svolgere una funzione positiva nei confronti dell’uomo e del mondo. La scuola istituita dalla Repubblica non può che essere una proposta di vita: una proposta che deve facilitare nei giovani sia l’accettazione di sé, sia l’accettazione degli altri e della realtà naturale e sociale, sia la scoperta e la valorizzazione dei tesori nascosti nella storia dell’umanità come nella propria vita interiore, in rapporto ai compiti evolutivi che ci riguardano come singoli e come membri della famiglia umana, ospiti di un precario Pianeta.

IDENTITÀ CISL

L'unita' possibile e la sua fine

Alla vigilia dei cinquant'anni della Federazione unitaria Cgil Cisl Uil (1972-1984)

di Francesco Lauria

Non sono più molti, tra i sindacalisti in attività, ad avere vissuto direttamente l’esperienza della Federazione Unitaria Cgil Cisl Uil: sorta cinquant’anni fa e definitivamente archiviata, nel 1984, dalle divisioni fra le confederazioni sindacali, durante la complicata vicenda della “scala mobile”, giunta dopo un periodo di forte crisi.
In molti momenti dell’attualità sindacale anche di fronte a situazioni di divaricazione tra le confederazioni, il ricordo o lo “spettro”, della Federazione viene spesso ricordato, a torto o a ragione.
È pertanto prezioso il volume, intitolato “L’unità possibile”, curato da Franco Lotito, che ha raccolto saggi e testimonianze di studiosi e sindacalisti di diverse estrazioni culturali, ricostruendo preparazione, costituzione, sviluppo e caduta proprio di questa vicenda. (F. Lotito, a cura di, L’unità possibile. La Federazione Cgil Cisl Uil 1972-1984, Viella, Roma, 2021).
Attraverso la ricostruzione storiografica, archivistica e le interviste ai protagonisti questa pubblicazione ha contribuito a sollevare la patina di oblio della memoria in cui è caduta questa esperienza sindacale.
La Federazione Unitaria sconta, infatti, una memoria divisa, che la rende un ancora irrisolto oggetto di studio, non solo per comprendere le dinamiche intersindacali, ma per approfondire, più in generale, la storia politica, economica e sociale del nostro Paese.
“L’anno di nascita della federazione unitaria è il 1972. In realtà essa fu il punto di approdo di un percorso abbastanza lungo ed impegnativo. (…) E qui occorre fare uno sforzo: quello di immedesimarsi nel clima, nel contesto nel quale si giunge alla stipula del Patto Federativo”. Sono le parole di Enzo Ceremigna, uno dei leader storici della componente socialista della Cgil, rilasciate in una intervista del 2017.
Una prima questione importante e dibattuta riguarda la necessità e opportunità o meno di uno strumento, quello della Federazione, che nasce dalla presa d’atto dell’impossibilità di realizzare un obiettivo più ambizioso: quello dell’unità sindacale organica e in contraddizione con quanto stabilito precedentemente dalle tre confederazioni.
Quello che sfociò nella Federazione fu però anche, il: “coronamento di un possente movimento dal basso connotato da un’unità d’azione che infrange le tradizionali divisioni tra organizzazioni sindacali e che vede il sorgere di nuove forme di rappresentanza nei luoghi di lavoro, i delegati e i Consigli di fabbrica”.
È molto importante ricordare che l’approdo unitario non fu la mera (e incompleta) conseguenza dell’autunno caldo del 1969, ma il frutto di un movimento sviluppatosi lungo tutto l’arco degli anni Sessanta con un percorso, fatto di vittorie e di sconfitte, che vide il protagonismo crescente delle lotte operaie.
L’obiettivo della ricerca è stato quello di fornire un contributo al dibattito sull’unità sindacale, a partire proprio dall’indagine storiografica sugli anni Settanta e Ottanta del Novecento, ancora scarsamente indagati almeno rispetto al sindacato.
Il libro è anche un viaggio nella forza sindacale di quegli anni, una forza che si originava nei luoghi di lavoro e si sviluppava tra conquiste contrattuali e grandi riforme sociali (dallo Statuto dei Lavoratori alla nascita del Servizio Sanitario Nazionale).
Centrale è quindi la riflessione sul tema dell’autonomia e del potere del sindacato (non senza le note accuse, soprattutto da parte comunista, di “pansindacalismo”).
Come accennato, anche di fronte alle difficoltà più recenti nei rapporti tra Cgil Cisl Uil, la Federazione unitaria sta progressivamente uscendo dalla memoria collettiva, spesso schiacciata tra l’apologetico e a tratti un po’ superficiale rammarico per il suo esaurimento e l’aprioristica damnatio memorie dei suoi storici avversari.
Ciò alla vigilia del cinquantennale della costituzione della Federazione (luglio 1972) e a quasi quarant’anni dalla sua conclusione, sancita, come già ricordato, dalla rottura conseguente all’accordo di San Valentino del 1984.
Se, infatti, la Federazione Cgil Cisl Uil, nasce ufficialmente a Roma, presso la Domus Mariae, il 24 luglio 1972, il processo unitario viene formalmente avviato quasi due anni prima dall’assemblea generale dei Consigli delle tre confederazioni, svoltasi nell’ottobre del 1970 (c.d. “Firenze 1”).
Un’assemblea che supera, in realtà, sia l’ipotesi federativa che quella della c.d. unità a pezzi (“a partire da chi ci sta, in particolare a livello categoriale, proposta dai metalmeccanici e, più in generale, dalle federazioni dell’industria) e muove, apparentemente senza indugi, verso l’unità organica.
Un’unità che: “non sia solo la risultante delle tre confederazioni, ma soprattutto l’espressione organizzata di azione e di lotta della classe lavoratrice”. Un approdo che, come è noto, la riunione delle segreterie di Cgil Cisl Uil del febbraio 1971 (c.d. “Firenze 2”) si prefiggerà di raggiungere l’anno successivo.
È l’assemblea unitaria dei Consigli generali del novembre 1971 (c.d. “Firenze 3”) a fissare definitivamente i tempi per la costituzione del sindacato unitario, prevista a cavallo tra il settembre 1972 e il febbraio del 1973.
Un’assemblea, quest’ultima, che vara anche un documento programmatico e che viene presieduta dal segretario generale aggiunto della Cisl Vito Scalia che diventerà, di lì a poco, insieme al leader della Uil Raffaele Vanni, il più strenuo e accanito avversario del progetto di unità organica, fino a spingersi a prospettare, tra le righe, una possibile scissione della propria organizzazione.
È del gennaio 1972 la famosa intervista al settimanale l’Europeo dello stesso Vanni che definisce, senza giri di parole, l’unità organica come “impossibile”, virando su un ben più generico patto di consultazione permanente e aprendo il percorso verso il compromesso che porterà al varo della Federazione. Passo fondamentale è l’approvazione, il 3 luglio 1972, del Patto federativo, un vero e proprio documento costituente.
Ma quali sono state le materie delegate alla Federazione, ad ogni livello, non solo nazionale?
Si tratta delle politiche contrattuali, delle politiche di riforma, delle politiche economiche e sociali di programmazione e di sviluppo e, infine, della proiezione internazionale di queste politiche.
A queste materie si affianca quasi da subito (anche se in realtà, non integralmente) la formazione sindacale, mentre prendono piede, a livello territoriale, i Cou (Centri operativi unitari). Successivamente vengono costituiti a livello nazionale: l’Agenzia giornalistica unitaria sindacale italiana (Ausi), la casa editrice (Seusi), il Centro studi e ricerche unitario (Cuser) e il Centro nazionale stampa, che curerà anche la breve stagione della rivista della Federazione unitaria: “Sindacato”.
Struttura di riferimento a livello orizzontale della Federazione sono i Consigli di Zona, rappresentativi di tutti i settori e categorie, e principali strumenti di partecipazione diretta dei lavoratori sul territorio.
Struttura di base della Federazione nei luoghi di lavoro, invece, il Consiglio dei delegati che deteneva: “poteri di contrattazione sui posti di lavoro” ed era costituito sia dai lavoratori iscritti che non iscritti al sindacato.
Non va dimenticata l’azione sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in particolare attraverso l’inserimento, tra gli istituti della Federazione, del preesistente Crd (Centro ricerche e documentazione sui rischi e danni da lavoro).
Un tema importante è costituito dal grande fermento legato alle 150 ore e al diritto allo studio, introdotte dapprima dai metalmeccanici della neocostituita FLM nella tornata contrattuale del 1973 e poi generalizzate in moltissimi contratti nazionali.
Fondamentale nel libro è la riflessione sulla nascita della figura del delegato di fronte alla crisi di rappresentatività delle Commissioni interne e allo sviluppo dei Consigli di fabbrica, in particolare nelle aziende medio-grandi.
Venendo all’epilogo della Federazione, il testo non può non ricordare le parole amare del segretario generale della Cisl Pierre Carniti, pronunciate il 7 febbraio 1984, durante l’ultimo direttivo della Federazione unitaria, una settimana esatta prima della celebre rottura di San Valentino: “Abbiamo tentato tutte le vie. Una soluzione condivisa non è possibile. La Federazione unitaria Cgil Cisl Uil è finita”.
Il saggio conclusivo del volume promosso dalla Fondazione Brodolini, è opera del sociologo Mimmo Carrieri e affronta il tema del rapporto del sindacato con il sistema politico.
È un testo che affronta una questione centrale e dibattuta, e cioè quanto il quadro politico abbia pesato nei successi e nelle cadute dei diversi percorsi interrotti verso l’unità sindacale.
Carrieri prende una posizione netta affermando che, con ogni probabilità, l’esperienza della Federazione fosse attrezzata, pur con mille difficoltà, a un compromesso tra le culture sindacali, ma non disponesse delle leve per assicurare un compromesso anche nella sfera politica.
È una questione di fondo che risulta centrale nella storia del sindacalismo, non solo italiano e che incrocia la grande problematica dell’autonomia. Detto ciò, sarebbe fuorviante e, sotto un certo aspetto anche ingeneroso nei confronti di molti dei protagonisti, attribuire la fine dell’esperienza della Federazione unitaria quasi solo a cause endogene e non anche ad innegabili, quanto significative, ragioni sindacali.
Oggi, ha affermato Carrieri, il nodo e la difficoltà nel rapporto con il quadro politico di Cgil Cisl Uil sta non più nel rapporto con i partiti, quanto soprattutto con quello con i Governi.
Concludendo è bene commentare la copertina del volume. Su sfondo blu il testo riporta il logo, anch’esso da molti dimenticato, della Federazione Cgil Cisl Uil: tre frecce convergenti che convergono in un unico punto e danno vita a un comune quadrato.
Un auspicio, irrisolto, incompiuto e, forse, impossibile. Una vicenda collettiva, però, di cui fare memoria, se non altro per non ripetere gli errori che ne portarono al doloroso e fragoroso epilogo.

HOMBRE VERTICAL

Un capitolo nuovo anche per la contrattazione?

di Emidio Pichelan

Valentina – il nome è di fantasia – era impiegata in un importante studio legale di una prospera città del Nord Est. Non era il suo progetto di vita, ma bisognava pur vivere e guadagnarsi la pensione. Terminato il confinamento da pandemia, poteva finalmente realizzare il sogno dell’infanzia: dedicarsi ai fiori, in negozio alle prese con le confezioni e/o alla guida della sua umile Ape, per viuzze e piazzette, incontro all’affezionato popolo dei fiori.
La scelta di Serena, altro nome di fantasia, è ancor più ingombrante. Da ambiziosa figlia del ricco Nord Est, si proponeva di diventare manager di successo prima dei quarant’anni. Un sogno coronato da un successo rotondo: in poco più di vent’anni di carriera in Paesi diversi – gli USA, Israele, Norvegia – accumulava diciotto traslochi e altrettanti posti di grande responsabilità e di remunerazioni sontuose. Oggi, a quarantasette anni, è un’insegnante in un liceo di campagna, precaria e malpagata. Ma felice con i suoi ragazzi. “I soldi non sono tutto”, dice e gli occhi le brillano. Nemmeno la carriera lo è.
L’abbandono del vecchio mestiere per inseguire la felicità o, quanto meno, lo star meglio con sé stessi e con quello che si fa durante la lunga giornata è un fenomeno di massa. Negli USA, dove le cose avvengono sempre prima, la chiamano The Great Resignation, il grande esodo. Tra gennaio e aprile del corrente anno, nel Veneto ammontano a 66.300 le lavoratrici e i lavoratori dimissionari, il 50 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Non sono sopraffatti dalla noia, nemmeno da un attacco letale di burn out. Se ne vanno in cerca di un’occupazione più gratificante, un bisogno prevalente sulle aspirazioni di carriera e sulla remunerazione.
Viene da distante l’aspirazione (un’utopia?) che porta l’homo faber dal lavoro come maledizione biblica, fonte di lacrime e sangue, di sudore e di fatica, a occasione di gioia – non diciamo di felicità, un termine troppo impegnativo per queste note di umana curiosità.
Maddalena e Filippo non sono nomi di fantasia, non li avevo mai visti prima, chissà dove li ha portati il loro nomadismo esistenziale. Casuale e spiazzante la serata passata con loro a Chiang Mai, “la nuova città murata”, la bella capitale dell’antico regno dei Lanna, “il regno di un milione di risaie”. La seconda città della Thailandia. Venivamo dal Myanmar, diretti a Bangkok. Il loro racconto squadernava, con il brio spregiudicato della giovinezza, un altro mondo; armati del computer, della conoscenza delle lingue e – ça va sans dire – di spirito di avventura se ne andavano nomadi in giro per il mondo, alla ricerca di un reddito e di esperienze sempre emozionanti. Siamo qui a Chiang Mai, dicevano, “nomadi on line”, questa è la nostra capitale Due mesi qua, due mesi là, a Kiev ad esempio, o a Medellín, i luoghi meglio attrezzati per riceverci, magari lavoriamo dieci-dodici ore al giorno e non troviamo nemmeno uno scorcio di giornata per qualche sorso di turismo locale, ma non ci comanda nessuno, non dobbiamo sottostare a un orario, la vita e la giornata sono una sfida continua. Leonardo Previ li chiamava i rivoluzionari dello zaino (“Dalla burocrazia alla zainocrazia”, Edizioni LSWR, 2018). Già per B. Chatwin il nomadismo costituiva la vera alternativa alla vita stanziale: “la vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi”.
Il lavoro, la contrattazione e le relazioni sindacali siano destinati a cambiare. A causa della pandemia, naturalmente, ma non solo; le trasformazioni sociali vengono da lontano. E vanno lontano. Ne è convinto S. Hart, economista britannico, naturalizzato USA, docente ad Harvard e Nobel per 2016 per l’economia. Gli azionisti hanno cambiamento priorità e parametri; non perseguono più solo - o non esclusivamente – la massimizzazione del profitto, ma anche il proprio Welfare. Anche per loro la priorità si chiama ambiente. “Il punto è (…) di non considerare solo il proprio interesse, ma anche quello della controparte. Il contratto non dovrebbe essere solo un atto legale, ma pure uno strumento per costruire una relazione migliore”.
Lo spessore del cambiamento lo si potrà misurare concretamente nel quadro del prossimo Festival dell’Economia di Trento (2-5 giugno), dove si sono dati appuntamento nove Nobel dell’economia e settantacinque relatori.

STORIA CONTEMPORANEA

Religione e politica nel fascismo

di Paolo Acanfora

In questo nostro percorso dentro il centenario della marcia su Roma, si è cercato di individuare alcuni aspetti cruciali, caratteristici, fondamentali del fenomeno fascista così come storicamente si è realizzato. Nei meandri del fascismo storico si sono visti elementi essenziali: l’antitesi alla democrazia liberale e al parlamentarismo, la concezione militare, violenta e squadrista della politica, la progettazione totalitaria connessa alla costruzione di uno Stato etico e di una rivoluzione antropologica per rigenerare il carattere degli italiani.
Si è visto come la pedagogia totalitaria fosse il terreno prioritario per la realizzazione di questi obiettivi. Il più grande motivo di frizione con la Chiesa cattolica – lo si è detto – si era manifestato esattamente su questo versante. Ma la questione pedagogica si legava, naturalmente, alla visione politica, cioè ai contenuti di questa pedagogia: su quali valori, quali principi, quali concezioni morali e politiche dovevano essere educati i nuovi italiani.
La storiografia sul fascismo, per molto tempo, ha fatto una enorme fatica a riconoscere l’esistenza di una ideologia e di una cultura fascista. A partire dagli anni Settanta questi aspetti sono però emersi in modo sempre più inequivocabile, palese, certo. Nuovi paradigmi, nuove interpretazioni sono state elaborate mettendo progressivamente ai margini (con moltissime resistenze) le letture più ideologiche, politicamente militanti, preoccupate di possibili rivalutazioni e riabilitazioni del fascismo. Si è invece sempre più compreso che il rischio di riabilitazioni e rivalutazioni è più serio laddove l’indagine storica fallisce e che, dunque, comprendere ciò che storicamente il fascismo è stato è il miglior contributo alla formazione di una coscienza democratica consapevole e attiva.
Tra le grandi novità interpretative affermatesi in questo percorso di ricerca vi è senz’altro il riconoscimento del fascismo come religione politica. È una questione che ha radici importanti in studi filosofici come quelli di Eric Voegelin, nell’indagine storica di grandi studiosi (penso soprattutto a George Mosse) ma che ha avuto una sua piena e sistematica elaborazione con gli studi di Emilio Gentile.
Il fascismo non fu certo il solo esperimento di religione politica. C’è una solida tradizione di “religioni civili” (dal caso americano alla rivoluzione francese, passando per la concezione mazziniana) che ha segnato in vario modo nella storia della civiltà occidentale il rapporto tra politica e religione. Un rapporto che è stato sempre molto intenso, com’è noto. Nel caso della modernità novecentesca le religioni politiche (la fascista, la nazista, la comunista) sono nate per rispondere alla grande sfida cui si trovavano di fronte le classi dirigenti: come integrare le masse nello Stato. È una questione già accennata nel precedente contributo sulla concezione totalitaria dello Stato nel fascismo. Si tratta, con tutte evidenza, di due aspetti fortemente correlati.
Il tema è però spinoso e va fatta un po’ di chiarezza. Come si è detto, i rapporti tra religione e politica sono, si potrebbe dire, un’ovvietà. Da sempre la politica ha cercato sostegno nella religione e da sempre le istituzioni religiose hanno cercato il sostegno ed il consenso della politica. Si pensi – solo per fare l’esempio più evidente e noto – al modo in cui venne sistemata la questione della scissione protestante nel corpo della cristianità con la pace di Augusta del 1555: la formula utilizzata fu, com’è noto, cuius regio, eius religio. Era il principe a stabilire quale confessione dovesse caratterizzare lo Stato ed i suoi sudditi. Si trattava cioè di utilizzare lo strumento religioso per caratterizzare e sostenere il potere politico.
La politicizzazione della religione, del sacro, è sempre stata un’arma fondamentale per il consenso politico. Ancora oggi, l’ostentazione in pubblico (nei comizi, nelle piazze reali e virtuali) di simboli sacri risponde all’esigenza di costruire un consenso intorno alla propria proposta politica (si pensi, solo per fare un esempio tra i tanti, alle polemiche sul rosario mostrato ed utilizzato dal leader della Lega Matteo Salvini nei suoi interventi pubblici). Le stesse autorità religiose sono spesso intervenute a sostegno o in antitesi a precise proposte politiche – si pensi al caso (anche qui, tra i tanti che si possono citare) della scomunica ai comunisti del 1949 o, per venire ai giorni nostri, il palese sostegno del patriarca russo Kirill alla politica bellica in Ucraina di Vladimir Putin.
Non si tratta quindi di un rapporto inedito. Quali dunque le novità? Perché si è parlato nel caso del fascismo di religione politica?
La differenza con gli esempi citati è nel fatto che il fascismo non si è limitato a politicizzare la religione, ad utilizzarla come instrumentum regni. Non si è trattato cioè di un caso di tradizionale politicizzazione del sacro ma piuttosto di sacralizzazione della politica. Ciò significa che sono gli stessi valori politici ad acquisire una propria sacralità e ad assumere i tratti della religiosità. È la nazione (o, se vogliamo, la classe nel caso comunista o la razza nel caso nazista) ad essere sacralizzata.
Esistono, certo, delle analogie con le religioni tradizionali. Il fascismo, ad esempio, guarda alla struttura della Chiesa cattolica come modello di organizzazione. Lo stesso accade per la sacralizzazione della figura del capo. Mussolini non è, infatti, un semplice leader politico: è il duce, il condottiero, il capo infallibile – così come infallibile era stato definito il papa, dopo il Concilio Vaticano I. E l’infallibilità, com’è noto, è un attributo divino. Il duce – così come il fuhrer o ancora come nel caso di Stalin (non dimentichiamo che Kruscev nel 1956 denunciò il culto della personalità di Stalin in quanto eresia del marxismo) – assume una propria dimensione sacrale.
Il fascio littorio è il simbolo primario di questa religione fascista, che ha delle proprie liturgie, una ritualità inconfondibile, dei propri miti (oltre al duce, i miti della nazione, della Grande Guerra, dello Stato nuovo, della violenza rigeneratrice, dell’uomo nuovo, etc.), una propria mistica e dei propri simboli. La rivoluzione antropologica dell’italiano, forgiato dalla nuova religione fascista, era l’obiettivo ultimo del fascismo per la costruzione di una moderna civiltà fascista. Il fascismo si presentava come una risposta non solo materiale ma anche spirituale alle grandi sfide poste dalla modernità.
Su tutto questo, la Chiesa cattolica non poteva che essere un avversario. Il consenso che grande parte del mondo cattolico aveva garantito a Mussolini trovava qui il suo invalicabile limite. Lo sforzo profuso dai cattolici fu infatti nella direzione di una cattolicizzazione del fascismo, utilizzando il mito dell’Italia nazione cattolica e quindi della piena identificazione storica tra cattolicesimo e nazione. Una battaglia di legittimazione e di egemonia interna. Un’esperienza che può, pur nella sua peculiarità, aiutarci a comprendere le dinamiche politiche e sociali in una società di massa.
La commistione tra religione e politica è, infatti, ancora oggi estremamente radicata. Si pensi innanzitutto all’islamismo radicale ma, lo si è già detto, anche alle democrazie secolarizzate dell’occidente. I pericoli di sacralizzazione di valori politici o di politicizzazione di valori religiosi sono tutt’altro che marginali e anche su questo terreno si giocherà nel prossimo futuro la solidità e la qualità della nostra democrazia.

UN AUTORE

JURIJ ANDRUCHOVYČ
Epica della dissoluzione

di Leonarda Tola

Non è facile leggere in traduzione italiana gli autori ucraini contemporanei, poeti e romanzieri. Una felice eccezione è costituita dallo scrittore Jurij Andruchovyč di cui la pugliese Besa Edizioni ha meritoriamente pubblicato Moscoviade (2003) che è il primo romanzo ucraino egregiamente tradotto in italiano da Lorenzo Pompeo e Grzegoz Howalski, dopo qualche fatica a trovare un editore.
Jurij Andruchovyč è nato nel 1960 a Ivano Frankivs’k, una bella città dell’Ucraina occidentale di 230.000 abitanti, dove vive, pesantemente colpita già nel primo giorno dell’attuale guerra dai missili cruise russi che ne hanno bombardato l’aeroporto.
Lo scrittore è una presenza importante nel panorama intellettuale ucraino, saggista e attento osservatore degli importanti processi di cambiamento che hanno segnato la storia recente dell’Ucraina con la fine della sudditanza all’Unione sovietica, di cui è stata parte periferica, come svela l’iniziale U del suo nome, ultima lettera dell’alfabeto cirillico; fino all’affermarsi dell’ idea di libertà e indipendenza politica e statuale, coltivata storicamente dal popolo ucraino e conquistata nei primi anni novanta del Novecento. Una sofferta conquista oggi difesa dalla brutale invasione russa iniziata il 24 febbraio 2022 con una guerra che non cessa.
Moscoviade è il libro su Mosca: la capitale della Grande Russia nel racconto impietoso di un ucraino, interno e insieme estraneo e ostile a quello che continua a chiamare con sarcasmo “Impero”, di cui descrive l’indicibile degrado e la decadenza mentre ne profetizza l’inesorabile e catastrofico crollo. Siamo a Mosca nell’ultimo decennio del XX secolo, in un ostello di sei piani dove trova alloggio una variegata umanità, soprattutto di fuori sede, al sesto piano abitato da aspiranti poeti e artisti, uomini e donne, alla ricerca di un posto al sol dell’avvenire nella letteratura e nelle arti: tra questi il protagonista Otto von F., poeta ucraino con tratti autobiografici, che ci conduce per l’intera giornata di un sabato qualunque, nei gironi infernali, dentro quel luogo e fuori. Anima persa nel luogo giusto in cui perdersi: “Forse i tuoi versi son rimasti nei campi atmosferici dell’Ucraina, perché i loro toni da usignolo non hanno potuto penetrare nei campi atmosferici moscoviti”. Lo scrittore si riferisce alla differenza tra la lingua russa e la lingua ucraina che consiste anche nella peculiare melodiosità della seconda, rivendicata da quel popolo bilingue che d’ora in poi parlerà solo ucraino. (Dichiara a proposito in un’intervista recente Andruchovyč: “…oggi rinunciare al russo è un mezzo di lotta. Non solo per la pesante eredità sovietica, e zarista, quando il russo era imposto dal potere imperiale, ma pure per motivi contingenti. Il russo è un’arma nelle mani di Putin. La lingua ucraina è un’arma contro Putin”).
L’ospizio-casa per artisti serve per la propaganda delle grigie riviste di regime, dove è presentato come “la viva testimonianza dell’incessante attenzione dello Stato verso la cultura delle minoranze nazionali”; nel romanzo sono raccontate le esistenze alla deriva, sregolate e straccione, dei molteplici personaggi descritti “con la maggior malignità possibile”: lo studente, la giovane drammaturga di talento, l’insegnante di educazione fisica, il teologo alcolizzato, il letterato perseguitato e ritardato, Vasilissa l‘epilettica “…scrittori dei più remoti angoli dell’Unione sovietica. Solo che ricordano personaggi letterari più che letterati, personaggi di letteratura grafomane, cucinata seconde noiose ricette della grande tradizione del realismo”.
L’ospizio dà ricovero a patetici sognatori di fortune artistiche, di diverso genere ma di uguale miserabile destino; per esempio realizza il sogno di “due donne poetesse (poeti o poete)… Ognuna di loro per metà della vita ha desiderato finire qui… Riuscire a soggiornare per due anni interi a Mosca! Dove sicuramente alla fine saranno notate e innalzate! Arrivare a Mosca per restarvi per secoli, esserci seppellite (cremate!). Vivere a Mosca dove di generali, segretari, stranieri, patrioti e sensitivi ce n’è una marea”.
Otto Von F. si aggira in questo multiforme coacervo umano, con sentimento incline allo sberleffo e all’ ironia graffiante che mescola pietà e condanna, disprezzo e disperante partecipazione.
Così è la vita in questo maledetto buco, in questo ostello letterario creato dal sistema… In questo labirinto di sei piani nel mezzo della spaventosa capitale nel cuore marcescente di un Impero mezzo morto. Perché anche se il poeta russo Ježevikin prova un orgasmo al solo suono della parola “Impero”, comunque il gioco è bello, ma dura poco e tu, Otto von F. percepisci sulle tue spalle che l’Impero si scuce e si strappano, cascando da tutte le parti, paesi e nazioni. Ognuno di essi assume adesso l’importanza di tutto l’universo, o almeno di un continente. Perfino con la vodka è sempre più difficile. Non si sa perché per la prima volta nella storia russa, non basta per tutti. Bisogna conquistarla a costo di fare a spallate per ore e ore in una fila, di litigate, di rinunce e sacrifici. Forse adesso i giganti del Cremlino si scolano tutta la vodka dell’Impero, o forse è immagazzinata in quelle abissali cantine pe i momenti neri. Mentre alla plebe, cioè al popolo, anche se in realtà non si tratta né di popolo né di plebe, rimangono solo misere gocce sputate a forza dall’industria alimentare. Gli omicidi nelle file per la vodka sono diventati così comuni come (i veterani di Berlino non ammettono menzogna) la morte al fronte provocata dalle pallottole nemiche. La vodka è diventata un assoluto, lo scopo più santo, la valuta divina, il Santo Graal, i diamanti di Golconda, l’oro del mondo”. (Moscoviade, pag. 25).
Come nella migliore tradizione russa il romanzo tratta di esistenze giovani attraversate dal male di vivere che precipita nell’abbrutimento e nel delirio alcolico autodistruttivo; un campo aperto e cosparso di soggetti umani da inforcare, una moltitudine reale e letteraria per Andruchovyč: alla familiarità con quella devastata condizione umana lo scrittore però guarda con il rancore del popolo ucraino oppresso che ne ha patito il confronto e detestato l’assimilazione. La sua bella penna è intinta nel veleno. Una scrittura tossica che sa profondamente descrivere la corruzione dei corpi e delle anime riconducendo ogni tragico fallimento personale e di un intero popolo all’unica putrida matrice: il potere sanguinario delle autocratiche e feroci dittature. “Qualche volta sogniamo l’Europa. Di notte arriviamo alle rive del Danubio. Ci viene in mente qualcosa del genere: mari caldi, porte di marmo, pietre calde, rampicanti meridionali, torri solitarie. Ma non dura a lungo. In gran parte è così questo nostro popolo, non ne abbiamo un altro… Per ora viaggia in duri vagoni moscoviti. Oppure dorme nelle stazioni. Scuro, grigio, lento. E quello che gli succederà in seguito non lo so. Anche se sarei molto curioso di saperlo”. Così il finale. Del libro è atteso e necessario un seguito aggiornato all’attualità.

AUTOBIOGRAFIE SCOLASTICHE

Charles Péguy

di Mario Bertin

Sabato 5 settembre 1914, verso sera, il luogotenente Charles Péguy venne ucciso all’inizio della battaglia della Marna. Una pallottola lo colpì proprio nel bel mezzo della fronte. Aveva 41 anni e aveva vissuto come più non si può. Nel giro di un mese, sullo stesso fronte, similmente vennero uccisi anche due suoi amici: Ernest Psichari, famoso per essere stato il pacificatore della Mauritania e Alain Fournier, giovanissimo scrittore, autore di un unico romanzo (Le Grand Meaulnes) che vinse il Premio Goncourt.
Charles Péguy è un gigante della letteratura francese del secolo scorso. La sua vita, la sua opera (gigantesca) e la sua morte sono inseparabili. Esse prendono senso l’una dall’altra e costituiscono aspetti complementari di una sola alta testimonianza, di cui, al suo tempo, tutti cercarono di impossessarsi, chi da destra e chi da sinistra.
Questo grande protagonista della vita culturale francese fu repubblicano, socialista e dreyfusardo, sindacalista anarchico e intellettuale agnostico. Fu tutto. Fu lui. Fu tra quelli che consideravano la Chiesa come un rottame dell’Ancien Régime. Poi si convertì e visse tutta la vita come sulla soglia della Chiesa, “il punto sorgivo” scrisse di lui Hans Urs von Balthasar. “Da peccatore sempre ricondotto alla apparente fragilità del primo germogliare della speranza cristiana”. Ha sempre resistito a chi cercava di riportarlo entro i confini della regolarità canonica (tra costoro, c’era Maritain).
La sua opera, come abbiamo accennato, è imponente. Fu poeta, narratore atipico, saggista, polemista, editore. L’impresa dei Cahiers de la Quinzaine comprende più di duecento volumi. Come autore non cessa di essere presente nel dibattito culturale contemporaneo, un punto di riferimento per il dibattito sul sapere e la responsabilità degli intellettuali nel mondo moderno. Anche la sua scrittura è assolutamente particolare. Una prosa cadenzata che costruisce mattone su mattone, mattone dopo mattone la completezza del pensiero, la sua definitività, in assonanze e richiami musicali, emotivi, di senso d’una grande densità.
I valori a cui tutta la sua vita si può ricondurre sono la libertà e la Rivoluzione, da intendersi, come affermava lui, in una accezione “mistica”. Di lui Fulvio Panzeri ha scritto: “La sua polemica contro il mondo moderno, la difesa delle categorie di umano, di carnale, di temporale contro ogni riduzione spiritualistica, fanno di Péguy una voce carica di attualità e quasi una guida obbligata a chi voglia comprendere il presente”. Fu un uomo appassionato che niente e nessuno poteva ostacolare nella sua volontà di proclamare quello che giudicava essere la verità.
È interessante vedere come i valori della sua vita prendono corpo nella sua visione dell’educazione che traccia in La nostra giovinezza, una delle sue ultime e più importanti opere. Ma non si può non rinviare il lettore anche ad un’altra opera in cui Péguy, sull’onda dei ricordi, parla dei cambiamenti intervenuti nella società a partire dal tempo della “sua” scuola. Il testo non può essere offerto in questa sede per la sua lunghezza e la impossibilità di pubblicarne semplici stralci senza tradirne la qualità originaria. Si veda dunque la recente edizione de Il denaro, a cura di Giaime Rodano, Castelvecchi, Roma 2016.

Questi grand’uomini

Parliamo più semplicemente di questi grand'uomini. E meno duramente. La politica è diventata nelle loro mani un maneggio di cavalli di legno. Dicono: Avete cambiato, non siete piú al posto di prima. La prova è che non siete più di fronte allo stesso cavallo di legno. Scusi, signor deputato, sono i cavalli di legno che si sono spostati.
Dobbiamo tuttavia render giustizia a questi poveretti e riconoscere che generalmente sono cortesissimi con noi, eccetto la maggior parte di quanti, venendo dal personale insegnante, formano il partito intellettuale. Tutti gli altri, i deputati, i politicanti propriamente detti, i parlamentari di professione hanno ben altro da fare che occuparsi di noi, darci fastidio, farci sgarberie: i concorrenti, i competitori, gli elettori, la rielezione, le competizioni, gli affari, la vita. Preferiscono lasciarci in pace. E poi per loro contiamo tanto poco (come volume, come massa). Come massa politica e sociale. Non si accorgono neppure di noi. Per loro non esistiamo neppure. Non illudiamoci di contare qualcosa per loro. Ci disprezzano troppo per odiarci, per avercela con noi perché siamo infedeli, cioè perché loro sono infedeli a noi e alla nostra mistica, alla loro mistica, alla mistica ci è comune (a noi perché ce ne nutriamo e viviamo per essa, a loro perché ne approfittano e ci vivono sopra da parassiti). E se qualche volta ci capita di dover loro rivolgere qualche richiesta, spesso si mettono d'impegno per accontentarci, con un certo gusto segreto, con un certo punto d'onore, d'un certo onore, con una certa civetteria. Come per dire: Vedete bene, questo è il nostro mestiere. Sappiamo quel che vale. Bisogna pure guadagnarsi il pane. Bisogna pure far carriera. Ma quando bisogna, quando si può, quando si presenta l'occasione, riconoscete che siamo ancora competenti, siamo ancora capaci d'interessarci alle grandi questioni spirituali, ancora capaci di difenderle.
Hanno ragione. Bisogna riconoscerlo. È una specie di apprezzabile civetteria la loro, un gusto (un rimorso) una specie di garanzia interiore che vogliono assicurarsi, un rimpianto, quasi la risposta a una voce segreta. Intrattabili, assolutamente chiusi sono invece solo gli antichi intellettuali divenuti deputati, soprattutto gli antichi professori e in particolare gli antichi normalisti: questi ce l'hanno veramente con la cultura. Hanno per essa un odio veramente diabolico.
Bisogna però fare attenzione. Quando si parla di partito intellettuale e di tirannia della scuola elementare bisogna fare attenzione. Non basta prendersela coi maestri elementari. Bisogna distinguere: la mentalità da scuola elementare, non è tutta nella scuola elementare: anzi è senza dubbio nelle scuole superiori che oggi è più diffusa la mentalità da scuola elementare. Quanto a me sono persuaso che si conservi molta più autentica cultura ancor oggi nella maggior parte delle scuole elementari, nella maggior parte dei paesi di Francia, tra i filari di vite, all'ombra dei platani e dei castagni che non fra le quattro mura della Sorbona. Ecco press’a poco com'è oggi nella realtà la gerarchia dei tre tipi di scuola: un gran numero di maestri, anche radicali e radicalsocialisti, anche frammassoni, anche liberi pensatori di professione, per una quantità di ragioni di condizione e di razza, continuano ancora ad esercitare, generalmente a loro insaputa, nelle scuole di provincia e anche di città un certo ministero di cultura. Sono ancora, spesso loro malgrado, ministri, maestri nella distribuzione della cultura. Esercitano quest'ufficio. La scuola secondaria dà un ammirevole esempio, fa un ammirevole sforzo per mantenere, per conservare, per difendere contro l'invasione della barbarie la cultura antica, quella cultura classica che essa aveva in custodia e di cui conserva, malgrado tutto e contro tutti, la tradizione. È meraviglioso lo spettacolo offerto da tanti professori medi che, poveri, modesti, miseri impiegati esposti a tutto, sacrificano tutto, lottano contro tutto, resistono a tutto per difendere la loro scuola. Lottano contro i pubblici poteri e le autorità costituite. Contro, le famiglie, gli elettori, l'opinione pubblica; contro i genitori degli alunni; contro il provveditore, il sindaco, l'ispettore accademico, il rettore accademico, l'ispettore generale, il direttore generale delle scuole medie, il ministro, i deputati, contro tutto il meccanismo, tutta la gerarchia, tutti gli uomini politici, contro il proprio avvenire, la propria carriera, il proprio avanzamento, letteralmente contro, il proprio pane. Contro i capi, i padroni, l'amministratore, l'Amministrazione coll'a maiuscola, i superiori gerarchici, coloro che dovrebbero difenderli. E invece li abbandonano. Mentre essi non li tradiscono. Contro tutti i loro interessi. Contro tutti i poteri e contro il potere più, temibile, quello della opinione. Che dappertutto è del tutto moderna. E perché. Per una indiscutibile devozione. Per un invincibile, insormontabile attaccamento di razza e di libertà al proprio mestiere, al proprio lavoro, al proprio ufficio, alla propria antica virtù, alla propria funzione sociale, a un vecchio civismo classico e francese. Per un incrollabile attaccamento all'antica cultura che era tutt'uno con l'antica virtù, per fedeltà, per una specie di eroico attaccamento al vecchio mestiere, al vecchio paese, al vecchio liceo. E perché. Per cercare di salvarne un po'. Per opera loro, per opera di un certo numero di insegnanti di scuola media, fortunatamente ancora abbastanza grande, la cultura non è ancora interamente scomparsa in questo paese. Io conosco e potrei citare – io solo – almeno centocinquanta insegnanti di scuola media che fanno tutto, rischiano, sfidano tutto, anche la noia, il più grande rischio, anche una miserabile fine di carriera per mantenere e salvare quel che ancora può esser salvato. Non sarebbe facile trovare cinquanta insegnanti di scuola superiore, e neppur trenta, e neppure quindici, che si propongano qualcosa di diverso (a parte la carriera e l'avanzamento, e prima di tutto l'appartenenza alla scuola superiore) dall'ossificare e mummificare la realtà, le realtà a loro imprudentemente affidate, e seppellire la materia del loro insegnamento sotto montagne di schede.
Io potrei citare centocinquanta professori di scuola media che fanno tutto quel che possono e anche di più per cercare di conservare in questo vecchio paese un po' di buon gusto, un po' di decoro, un po' di gusto antico, un po' degli antichi costumi dello spirito, un po' dell'antico spirito di libertà dello spirito.
I maestri non sono poi così gran parte del partito intellettuale. Non tanto quanto credono. Né tanto quanto vorrebbero. Comunque facciano, hanno ancora radici troppo profonde nella realtà del paese. Sono portatori di cultura molto più che non pensino. I professori della scuola media non ne fanno assolutamente parte, tranne pochi politicanti, che aspirano all'avanzamento, alla rapida marcia su Parigi. Fatte queste eccezioni, di tutti gli altri, di tutto il corpo, si può dire, si deve dire che la scuola secondaria, per quanto smantellata, è ancora la cittadella, il fortino della cultura in Francia.
Nelle scuole superiori si fa molto notare, almeno in principio, per far colpo sui nuovi venuti, che mentre gli insegnanti medi fanno lezioni, quelli superiori fanno dei corsi. Purtroppo bisogna dire: allo stato attuale delle cose nelle lezioni si può ancora parlar di cultura, nei corsi non ce n'è più.

Charles Péguy, La nostra giovinezza, Editrice Studium, Roma 1947, pp. 26-30

ZIBALDONE MINIMO

Attenzione

di Gianni Gasparini

Foto di Pexels da Pixabay

L’attenzione ha qualche legame con l’attesa (entrambe derivano dal latino attendere, tendere a) ma è piuttosto da intendersi nel senso di prestare attenzione a qualche cosa. Oggi nella nostra lingua utilizziamo per la verità tre accezioni di attenzione: una esprime il senso della concentrazione della mente verso un oggetto, una seconda è sinonimo di premura o gentilezza. C’è poi un terzo utilizzo, quando si impiega il termine come interiezione (Attenzione! oppure Attento!) che segnala un pericolo o simili.
Simone Weil, la grande filosofa e umanista francese scomparsa a Londra durante la seconda guerra mondiale a soli 34 anni (1909-1943), ci ha lasciato nei suoi Cahiers migliaia di luminosi frammenti, tra i quali l’attenzione è uno dei temi ricorrenti (v. Quaderni, I-II-III-IV, Adelphi, Milano 1982-1993).
L’attenzione è in effetti un elemento-cardine della originalissima e ancora attuale visione della Weil: un elemento che si identifica con una cura profonda per tutto quello che si svolge nelle azioni, nei comportamenti umani che attraversano la vita quotidiana e in qualche modo la trasfigurano, la possono rendere nobile.
Per Simone Weil “Ogni minuto di attenzione anche imperfetta verso l’alto fa ascendere un poco, così come ogni atto compiuto con la stessa attenzione. Niente di ciò che è bene va mai perduto” (cit., II, p. 256); e l’ispirazione è ricompensa dell’attenzione più elevata (ivi, p. 306).
A più riprese si insiste sulla “luce dell’attenzione” da volgere al contesto sociale: in tal modo “Il progresso autentico sarà esattamente proporzionale alla quantità totale di vera attenzione ad esso rivolta nell’insieme degli individui interessati (oggi si tratta di tutta la terra)” (ivi, p. 232).
E ancora, occorre “pensare Dio con attenzione e amore sufficienti”: infatti – e questa mi sembra una sintesi molto efficace se non definitiva della prospettiva della Weil – “L’amore soprannaturale e la preghiera non sono altro che la forma più alta dell’attenzione” (ivi, p. 190, 266).
L’intuizione della filosofa francese è stata ripresa da una poetessa e scrittrice italiana poco nota ma di straordinaria intensità e originalità quale è stata Cristina Campo (1924-1977), le cui opere ed epistolari sono stati pubblicati dalla casa editrice Adelphi.
La Campo si pone esplicitamente sulle orme della Weil e applica il termine-concetto di attenzione soprattutto all’esperienza poetica. Di fronte alla realtà, “l’immaginazione indietreggia. L’attenzione la penetra invece, direttamente e come simbolo”: la poesia è attenzione, e i lampi dell’ispirazione sono quella scintilla misteriosa che l’attenzione “sollecita e prepara” (C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, pp. 167-168).
Dante è secondo la Campo il poeta assoluto, proprio per il suo modo di coltivare l’attenzione. Cito direttamente: “Un poeta che ad ogni singola cosa, del visibile e dell’invisibile, prestasse l’identica misura di attenzione, così come l’entomologo s’industria a esprimere con precisione l’inesprimibile azzurro di un’ala di libellula, questi sarebbe il poeta assoluto. È esistito, ed è Dante” (ivi, p. 83).
Alla luce dell’idea di attenzione qui esposta penso si possa condividere questo giudizio. Resta poi, per chi lo ritenga opportuno, da interiorizzare e da far entrare nel contesto della realtà quotidiana il senso e il valore dell’attenzione come pratica di vita virtuosa.