Novembre 2021

In questa pagina:
Pensieri a voce alta: Una partita che non si vince da soli (Maddalena Gissi)
La parola di questo mese: Creatività (Gianni Gasparini)
La scuola è viva. W la scuola: Tirate fuori le streghe! (Cecilia Stefanini)
La poesia dei luoghi: Il Piano di Verra e l’Universo (Gianni Gasparini)
Storia contemporanea: 1961-1971: dal muro di Berlino alla fine di Bretton Woods (Paolo Acanfora)
Ecologia integrale: Ambiente, biodiversità, tutela degli animali
Il canto delle donne afghane
: Voci del buio e del silenzio (Leonarda Tola)
Autobiografie scolastiche: Charles Juliet (Mario Bertin)
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PENSIERI A VOCE ALTA

Una partita che non si vince da soli

di Maddalena Gissi

Sono ancora i nostri stipendi l’oggetto delle mie riflessioni in apertura di un nuovo mese, per due ragioni diverse ma inevitabilmente collegate: l’ormai imminente conclusione del triennio di vigenza del contratto, cui vogliamo faccia riscontro al più presto l’avvio delle trattative all’ARAN anche per il nostro comparto, e la presentazione alle Camere di una legge di bilancio che è stata oggetto pochi giorni or sono di un confronto con i sindacati conclusosi, come è noto, in modo non positivo.
Pesa sul giudizio dei sindacati, che uscendo da Palazzo Chigi si sono detti pronti ad assumere ogni necessaria iniziativa di mobilitazione, soprattutto l’intervento annunciato in materia previdenziale, su cui si è espresso con nettezza il segretario generale della CISL, Luigi Sbarra, ricordando che le pensioni non sono “un lusso, un privilegio, una regalia”, bensì “un diritto fondamentale della persona dopo un’intensa attività lavorativa”.
Al di là del tema previdenza, che pure investe direttamente anche le attese e gli interessi di chi lavora nella scuola, è chiaro come dai contenuti della legge di bilancio discenda la possibilità di dare piena e concreta attuazione a quanto sindacati e governo hanno scritto − e sottoscritto − nell’intesa del 22 maggio scorso (Patto per la Scuola al centro del Paese) in ordine alla necessità di “prevedere efficaci politiche salariali per la valorizzazione del personale dirigente, docente e ATA con il prossimo rinnovo del contratto”, e inoltre “prevedere, in un’ottica pluriennale, forme di valorizzazione di tutto il personale della scuola ... coerentemente con le politiche relative al personale pubblico di cui al patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”.
Il problema retribuzioni, per la sua portata, è tale da non poter essere risolto completamente attraverso un solo rinnovo contrattuale, né con una sola manovra finanziaria. Non è infatti irrilevante il divario da colmare per un riallineamento con la media retributiva europea: ma ai dati emergenti dai confronti internazionali, cui facevo riferimento il mese scorso, fanno riscontro quelli di una comparazione, tutta italiana, fra gli stipendi del comparto istruzione e il resto del lavoro pubblico. Sono dati, questi ultimi (desunti dall’ultimo Rapporto ARAN sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici) la cui lettura è ben più diretta e immediata di quanto non accada prendendo in esame Paesi diversi; in tal caso infatti non è sempre facile tenere conto in modo compiuto di tutti i fattori da considerare per rendere attendibili i confronti (costo della vita, forme di protezione sociale e previdenziale, orari e carichi di lavoro, ecc.).
Basta citarne un paio, di questi dati “tutti italiani”, per avere chiaro il quadro di una situazione alla quale va posto assolutamente rimedio. Il comparto istruzione è quello che può vantare la più alta percentuale di laureati (51,4%, superiore di quasi venti punti al 32,1%, valore medio dell’intera PA), ma la retribuzione annua media pro-capite, con 30.854 euro, lo vede collocato al penultimo posto, superando l’ultimo di appena 570 euro all’anno. Ben più netta la differenza – circa 6.000 euro in meno – rispetto al salario medio del comparto funzioni centrali (ministeriali e altri enti pubblici), e il distacco si fa ancor più pesante se si considerano le retribuzioni del comparto Sanità. Basta davvero poco per calcolare quale incremento stipendiale mensile servirebbe per colmare le distanza sopra descritta, la cui entità riflette comunque una situazione di squilibrio difficilmente giustificabile e francamente inaccettabile.
È dunque evidente, anche mantenendo lo sguardo all’interno dei confini nazionali, la necessità di ragionare in una prospettiva che va oltre il prossimo rinnovo contrattuale, non essendo certo sufficienti, per rimediare a un handicap così pesante, le risorse attualmente disponibili, né gli incrementi ragionevolmente ipotizzabili, e che insieme alle altre organizzazioni sindacali stiamo rivendicando, a carico della legge di bilancio per il 2022.
La partita stipendi, naturalmente, è fondamentale in una strategia rivolta a valorizzare in modo più giusto e adeguato tutte le professionalità operanti nella scuola, restituendo loro una “attrattività” in gran parte venuta meno, tanto da sfociare talvolta in una vera e propria “crisi della domanda”. Partita fondamentale, ma quanto mai difficile e complessa, da giocare con determinazione e intelligenza, senza perdersi nella ricerca di scorciatoie inesistenti.
Lo scrivevo il mese scorso, invitando a condurre su questi temi una riflessione approfondita, senza la quale non si costruiscono proposte che possano ambire ad essere vincenti.
Il nostro percorso congressuale, da poco avviato con le assemblee sui luoghi di lavoro e che nei prossimi giorni vedrà la celebrazione dei primi congressi territoriali, rappresenta in questo senso un’occasione da cogliere e sfruttare al meglio. Le tracce per il dibattito contengono spunti da cui partire per una discussione che affronti, oltre al nodo delle risorse necessarie, anche quello di una struttura retributiva da ripensare e rinnovare in molti suoi aspetti, rendendo ad esempio meno lunghi e più dinamici i percorsi di carriera, o introducendo elementi di flessibilità in grado di rispondere più efficacemente a un’organizzazione del lavoro che anche nella scuola è sempre più articolata e complessa.
Per vincere questa partita, la qualità delle proposte è il primo punto di forza su cui far leva. Il secondo, ancor più decisivo, è riuscire ad agire in un contesto di alleanza più vasta, fondato su una diffusa consapevolezza, a livello sociale e politico, del valore della scuola come “bene comune”, da sostenere e promuovere con politiche di forte investimento finalizzate anche a un più giusto riconoscimento della professionalità come risorsa fondamentale e cruciale per l’efficacia e la qualità del sistema d’istruzione.
È una partita che la categoria non può e non deve giocare da sola, se vuole vincerla. Su questo, la nostra dimensione confederale può rappresentare un importante valore aggiunto.

LA PAROLA DI QUESTO MESE

Creatività

di Gianni Gasparini

Creatività è una parola importante e affascinante per una Scuola che cambia. Si tratta di un termine ampio ma anche sfuggente, dal momento che si presta a parecchie declinazioni, illustrazioni e accezioni. La dimensione della creatività apre in direzione di territori da esplorare ma non li esaurisce, dissigilla con le sue scoperte e “invenzioni” ciò che è restato finora coperto, velato, non evidente, non fruibile, ma non esclude che altri veli o schermi vengano tolti o strappati in seguito.
Se vogliamo tenerci ad una definizione presa dagli psicologi, possiamo affermare che la creatività è una capacità della mente che si traduce nella produzione di innovazioni nei processi di conoscenza e di intervento effettivo sul mondo; essa, in generale, opera attraverso una felice e non predeterminabile sintesi di elementi razionali e affettivi che vengono esplicati nei campi più diversi. Da parte di alcuni si insiste sulla creatività in quanto capacità di adattamento all’ambiente e ai mutamenti relativi, così come sull’abilità di produrre innovazioni nel quadro dei problemi affrontati dai diversi contesti sociali.
Interessante è poi la visione della creatività come gap, vale a dire come “interstizio” di possibilità o potenzialità tra una situazione consolidata (o un problema dato) e una nuova situazione che ne possa emergere per essere affrontata: è il caso della celebre parabola evangelica dei talenti affidati a tre servi (Matteo 25, 14-30). In essa si vede all’opera la creatività dei primi due servi, che riescono a raddoppiare i talenti ricevuti dal padrone in partenza per un viaggio, e la non-creatività del terzo servo che seppellisce il talento ricevuto per paura del padrone, e cioè per paura di sbagliare ad essere creativo.
Perché è considerato così importante da molti e in tanti campi, compreso quello socio-economico, l’essere creativi o lo sviluppare un pensiero creativo? È probabile che la creatività del pensiero, a partire da quella che si esplica in ambito scientifico e artistico, sia espressione di una profonda e forse incancellabile esigenza “relitta” e irrisolvibile: tornare all’inizio, alla creazione del mondo. Ha scritto Charles Du Bos, grande scrittore e critico francese oggi dimenticato:

«Dopo l’amore umano, ciò che vi è di più grande quaggiù, nell’ordine del terrestre, è la creazione, che si offre a noi sotto due aspetti: la creazione che viene direttamente da Dio, la bellezza del mondo da lui creato, e quella indirettamente uscita da Dio, ... [quella] che Dio consente liberamente al libero genio creatore dell’uomo.»(1)

Anche senza aderire necessariamente come Du Bos ad una visione religiosa ebraico-cristiana del mondo, resta il fatto che ogni attività creativa dell’uomo – tra cui va ovviamente ricordata quella che si chiama procreazione – non può non richiamare un gesto creativo originario, qualunque si ritiene che esso sia.
Si è soliti distinguere poi una serie di diverse aree in cui si esercita il pensiero creativo dell’uomo, a partire dalla scienza e dall’arte. La creatività di carattere scientifico-tecnologico è, attraverso i suoi risultati, sotto i nostri occhi e i nostri sensi di cittadini del mondo globalizzato e digitalizzato nel quale oggi viviamo: occhi che si sono fatti attenti e sensibili non solo alle mirabilia del progresso tecnologico ma alle gravi conseguenze che di fatto ne sono derivate in termini di violenze e armamenti micidiali, inquinamento, devastazione di quella casa comune che è il pianeta terra di cui parla in particolare papa Francesco nelle sue encicliche e documenti. Non è questa la sede per trattare degli effetti perversi della creatività o peggio ancora di una sua esplicita finalizzazione a gesti lesivi della dignità e dei diritti umani, che purtroppo non sono mancati nel Novecento e oltre. Mi limito poi a segnalare, accanto e insieme alle scoperte scientifico-tecnologiche, l’importanza dell’elaborazione dei concetti scientifici, alla base delle teorie che hanno dato nuove interpretazioni del mondo, come è accaduto in fisica (basti citare Einstein o Heisenberg) e nelle diverse scienze del vivente.
L’altra area a cui normalmente viene associata con un carattere di apprezzamento l’elaborazione del pensiero creativo è l’arte: poesia e letteratura, pittura, scultura e architettura, musica, teatro e cinema, soprattutto. Nel corso dell’ultimo secolo o poco più l’arte ha subìto processi di impressionante mutamento innovativo: basti pensare alla rivoluzione della pittura astratta di inizio Novecento, al nuovo modo di esprimere sentimenti in letteratura attraverso il “flusso di coscienza” (Joyce in Ulisse), al superamento del verso libero e della metrica in poesia, alle installazioni sempre più diffuse e varie dell’arte contemporanea. Tra arte e creatività esiste un legame imprescindibile, come è evidente: nessun vero artista si potrebbe accontentare di una mera ripetizione di moduli o forme già elaborate da altri. Al contrario, un artista che sia tale persegue l’obiettivo di dare alla propria opera un’impronta creativa che sia inconfondibile, unica al limite. Ed è appunto per questo che noi riusciamo a distinguere da lontano il quadro di un grande pittore – Giotto o Caravaggio, Van Gogh o Picasso –, o a riconoscere un poeta significativo di cui ci capita occasionalmente di ascoltare pochi versi.
Vi è poi un’altra area-contenitore della creatività, che ha essenziali risvolti in campo economico, politico, religioso, educativo e sociale in genere e che si può far corrispondere in linea di massima al dominio delle scienze umane e sociali. E’, in effetti, un pensiero creativo quello che spesso sta a monte di nuovi indirizzi economici, quello che può accompagnare certi progetti politici o anche sovrintendere a determinate innovazioni in campo religioso. Pensiamo tra l’altro all’idea geniale di concepire il Welfare State all’inizio del Novecento in Europa e poi dopo la Grande recessione degli anni Trenta in America; all’idea lungimirante del secondo dopoguerra di dar vita a una Unione Europea; o alla creatività che guidò manifestamente lo spirito di Giovanni XXIII nell’indire nel 1962 a Roma il Concilio Vaticano II. Anche l’esperienza scolastica ed educativa si presta ampiamente ad essere interessata e investita da processi di creatività.
Non va trascurata, infine, un’altra area, quella che riguarda la creatività della vita quotidiana e che ciascuno può perseguire attraverso proprie scelte private e personali: ad esempio nell’arredamento della casa e nella cura delle sue eventuali propaggini (il giardino, l’orto), nel modo di impostare le relazioni significative del proprio ambito di vita, nelle scelte operate in fatto di stili familiari e di vita, di formazione, di viaggi e così via.

Vengo ora, a complemento di quanto sopra scritto, ad alcune considerazioni specifiche sulla creatività in rapporto all’area educazione-scuola-università. Hugo von Hofmannstahl, uno dei massimi lirici del Novecento, raccomanda di “pensare col cuore”(2), dal momento che la dimensione affettiva è primaria nell’esperienza artistica, dove essa si coniuga felicemente col pensiero. È una raccomandazione che mi sembra importante da raccogliere non solo in relazione alla creatività poetico-artistica in senso stretto ma anche da parte di chiunque cerchi di essere creativo nel mondo educativo, o abbia deciso comunque di aprirsi ad un pensiero creativo nelle relazioni con gli studenti.
Essere creativi – cercare di esserlo – vuol dire essere appassionati alle relazioni umane, che in questo caso sono soprattutto quelle tra docenti e studenti. Pensare con il cuore, al di là di traduzioni banali o semplicistiche, credo significhi avere attenzione e benevolenza per la persona dell’altro nella relazione educativa, offrirgli spunti e poi lasciare a lui la libertà di continuare, interagendo o meno. Vale la pena di citare qui a mo’ di esempio le pagine della rubrica settimanale che Alessandro d’Avenia, insegnante di liceo e scrittore, da anni tiene sul Corriere della sera per dialogare con studenti e insegnanti.
Non dimentichiamo poi che, da studi e ricerche ampiamente acquisiti(3), conosciamo l’importanza decisiva che un atteggiamento di fiducia di un insegnante può avere nei confronti di uno studente in difficoltà, bloccato, scoraggiato riguardo alle proprie possibilità, in pericolo persino di essere espulso dal sistema educativo. E sappiamo quante volte un inizio di vocazione giovanile abbia avuto spunto e conferma nella figura di un professore appassionato e originale che si è avuta la fortuna di incontrare alle medie o al liceo.
La creatività innescata da un insegnante nei confronti di singoli studenti o di una classe può trovare pendant in una “creatività corrisposta”, per così dire: ne potranno nascere esiti nuovi, con ripercussioni anche conflittuali sulle conoscenze scientifiche e sulle strutture educative. La cosa sarà probabilmente ancora più consistente in ambito universitario, perché è qui che il docente si avvicina nei suoi corsi e seminari a temi e argomenti innovativi, di recente acquisizione o in corso di dibattito non sempre pacifico tra gli studiosi. In effetti, come sappiamo, è proprio la funzione della ricerca quella che distingue l’università dalla scuola: per questo, il corso di un docente universitario non dovrebbe trasmettere soltanto nozioni consolidate, ma elementi di un approccio permeato in qualche misura di creatività e tale da stimolare a sua volta creatività negli studenti. Del resto, è questo – qualche elemento almeno modesto di impostazione innovativa e creativa – quello che ci si attende dagli elaborati che concludono l’iter universitario degli studenti, vale a dire diplomi e tesi di laurea. Senza contare che per alcuni dei laureati si apre la prospettiva di continuare a fare studi e ricerche, inserendosi insieme agli altri docenti e ricercatori presenti in università in una logica e in un disegno che è anche di creatività.

(1) Charles Du Bos, Journal 1930-1939, Buchet-Castel, Paris 2005, p. 933.
(2) Cfr. Hugo von Hofmannstahl, L’ignoto che appare, Adelphi 1991, p. 144.
(3) Come quelli di Jacobson e Rosenthal su Pigmalione in classe, F. Angeli 1972.

LA SCUOLA È VIVA. W LA SCUOLA

Ogni giornata di scuola è piena di sorprese. Certo, ci sono i problemi, le difficoltà, le stanchezze, le delusioni. Ma anche lo stupore, la curiosità, l’allegria. Ogni giorno è nuovo e si riempie comunque di vita e di crescita.
Annotarsi, almeno qualche volta, ciò che accade, uscendo dalla gabbia delle pratiche pur necessarie, della documentazione formale e dei compiti burocratici può essere un modo per andare al cuore del lavoro di una scuola viva. E può trasformarsi in un capitale narrativo che aiuta a tenere teso il filo della passione e dell’impegno di un mestiere che chiede tanto ma che può, anche dare tanto.
Questa rubrica è per chi vuole raccontarsi e raccontare un po’ di questa bellezza. 

Tirate fuori le streghe

di Cecilia Stefanini

Ottobre. Giornata grigia, piove. Grigia è anche l’aula in cui insegno quest’anno: vecchie finestre, vecchi banchi, un pavimento malridotto. Le pareti sono spoglie come gli alberi di questo periodo: niente disegni dei bambini causa regolamento Covid.
Entro alla seconda ora: al primo banco scorgo il viso di un bimbo sconosciuto ... già è il nuovo arrivato, starà con noi poco più di un mese, poi ripartirà di nuovo perché la sua famiglia gestisce un circo.
Sto per dargli una stretta di mano, ma no, non si può. Nessun contatto, è la regola. Gli do in qualche modo il benvenuto.
Le aule dell’edificio di cui siamo ospiti hanno il soffitto talmente alto che quando uno parla si sente l’eco. Inoltre dobbiamo condividere gli spazi con alunni e professori delle medie: quanti rumori per il corridoio, diverse attività, diversi orari, diverse campanelle ...
Sospiro.
I bambini cominciano a farmi domande su ciò che faremo durante la lezione di italiano; a causa delle mascherine capisco una media di tre parole su dieci. Spesso ho bisogno del silenzio assoluto per comprendere ciò che vuole dirmi uno di loro.
“Resisti”, mi dico.
Come da regolamento apro le finestre. Niente vasistas, solo grandi finestroni del secolo scorso: appena uno tenta di aprirli poco poco ecco che il vento ne approfitta per spalancarli all’improvviso, facendo entrare un’aria che ormai è fredda, umida. Come se non bastasse arriva il rumore del solito trattore che a quest’ora fa il solito giro, su e giù per i campi attorno all’edificio.
Che frustrazione.
Imposto la voce un tono più alto del solito, altrimenti il bambino dell’ultimo banco non mi sentirà.
“Tirate fuori Le Streghe!”.
Dobbiamo finire un capitolo lasciato a metà. Lo leggeremo a più voci. Loro, a turno, faranno la voce narrante, a me l’onore di interpretare la Strega Suprema.
Cala un silenzio trepidante d’attesa. Penso “Ecco cosa riesci a fare ancora una volta, mio caro Roald, ecco la magia che si ripresenta ogni volta che apriamo un tuo libro”.
Le streghe descritte da Roald Dahl sono le vere streghe: mica quelle che somigliano alla Befana, che se ne vanno a cavallo delle scope, no. Qui si parla di donne reali, che vivono attorno a noi, che portano parrucche per nascondere crani calvi, guanti che coprono artigli affilati e scarpe a punta che mascherano piedi senza dita.
Siamo arrivati al punto in cui tutte le streghe di Inghilterra sono state convocate a un grande congresso; riunite in gran segreto sotto mentite spoglie, sono riuscite a far credere al direttore dell’albergo che le ospita di appartenere alla ‘Reale società per la protezione dell’infanzia maltrattata’. In verità sono lì per ascoltare il loro capo, la Strega Suprema, che a breve illustrerà il suo malefico piano per eliminare definitivamente tutti i bambini del Paese.
Come in molte delle sue famosissime storie anche qui lo scrittore, con un linguaggio creativo e originale (e una struttura narrativa a dir poco brillante), racconta della sopraffazione del protagonista bambino da parte di un mondo adulto privo di scrupoli, della crudeltà che genera sofferenza. Forse, penso, perché lui stesso aveva sperimentato fin da piccolo la durezza del sistema educativo tipico dei collegi inglesi.
Ma lui ora è lì, a fianco dei bambini, pronto a difenderli da questi esseri spietati e a tratti disumani, pronto a svelare e descrivere minuziosamente tutti i loro innumerevoli difetti, fino al punto di ridicolizzarli. Questo genera solitamente nel lettore un’avida voglia di conoscere come si svolgeranno i fatti, perché nulla viene mai dato per scontato: sarà l’adulto a prevalere e il bambino a soccombere, come succede quasi sempre nella realtà? Come dice Gaspari, in Dahl si ritrova sempre l’urgenza di sapere, alla fine di ogni pagina, cosa succederà in quella successiva. Avete presente quella sensazione di quando il cuore batte forte, sempre più forte e chiede “E poi? Come va a finire? Ancora, ancora!”.
Mi piacerebbe far leggere tutti, ma alzo lo sguardo e in due secondi sono obbligata a fare una selezione dei lettori di oggi: quelli con una voce squillante, tanto forte da poter abbattere qualsiasi rumore di sottofondo.
“Ale, comincia tu!”.
E Ale comincia. Mi ricordo solo ora che poco prima ho prestato spontaneamente il mio libro al nuovo arrivato: sono senza. Non potrò leggere rivolta verso la classe, né girando tra i banchi per farmi sentire meglio.
Sospiro.
Non importa: senza interrompere il mio compare raggiungo a passi felpati Benedetta che sta al primo banco, seguirò assieme a lei, sul suo libro. Devo stare a distanza di almeno un metro. Non vedo bene. Ad ogni modo abbastanza per continuare.
Trovo il segno, tra poco tocca a me.
La Strega Suprema, all’apparenza un’adorabile signora, ora si toglie la maschera, mostrando alle colleghe la sua orribile faccia putrefatta. E con quella parlata così strana comincia il suo discorso. “I pampìni sono rripugnanti!”. “Li annienteremo! Li spazzeremo fia dalla faccia della terra! Li metterremo a testa in giù nel gapinetto e tirrerremo lo sciacquone!”.
“Sì, sì!” fa eco Ale dando voce alle centinaia di streghe riunite al congresso, “Annientiamoli, buttiamoli nelle fogne!”.
“I pampìni sono sporrchi e puzzolenti!”, continuo.
“I pampìni puzzano di cacca di cane!”.
“Parrlarre di pampìni mi dà la nausea!”. “Mi fiene da fomitarre solo a pensarrci! Porrtatemi una pacinella!”.
I miei assistenti ridono, ma tengono il segno con il ditino. Ne chiamo uno, poi un altro, poi un altro ancora: nessuno si è perso. Nessuno ha mai alzato lo sguardo da quelle pagine.
Leggiamo in grande sintonia io e Ale, poi io e Federico, io e Samir. Noto con piacere che stanno cominciando ad imitarmi, cercano di dare una voce diversa ad ogni personaggio, mettono enfasi nella lettura, rispettano la punteggiatura, in particolare i punti esclamativi.
Mi sforzo di farmi sentire lottando contro la mia Ffp2; forse sto leggendo a voce troppo alta perché all’improvviso mi accorgo che mi gira la testa.
Aiuto.
A volte registro un capitolo a casa su un file audio per farlo ascoltare l’indomani ai bambini. Lì sono libera di respirare, di leggere come e quanto voglio. Ma ieri sera c’è stata un’interminabile riunione fino alle 20.00, non ho proprio avuto il tempo.
Non importa. Resisto.
Vogliamo sapere a tutti i costi quale sarà il malefico piano. In che modo Sua Streghità riuscirà nel suo intento? Come agirà la sua ‘Formula 86 pozione fabbricatopo a scoppio ritardato’?
Ed ecco finalmente che la strega di tutte le streghe spiega il suo progetto diabolico: eliminare tutti bambini regalando loro dolcetti riempiti di pozione magica che li trasformerà in ... TOPI!
Seguono sguardi di ammirazione, ovazioni, applausi, consensi. La folla è in delirio.
Oddio non ho più fiato. Ho bisogno di fermarmi. Il resto lo darò da leggere come compito per casa
...
No, non sarebbe la stessa cosa. Do un’occhiata all’orologio, c’è ancora qualche minuto prima dell’intervallo.
E allora continuo.
Ora Samir legge la sua parte e io seguo con gli occhi il testo, mentre con la mano sinistra apro velocemente la finestra di fianco a me cercando di evitare il benché minimo rumore per non distrarre i miei piccoli collaboratori; ormai hanno sguardi corrucciati, due righe sottili sono comparse sulla loro giovane fronte: sorrido.
Non posso abbandonarli.
Tolgo per tre secondi la mascherina, prendo due respiri profondi per poi immergermi di nuovo.
Torno in apnea.
Non trovo più la riga! Ah, eccola, meno male. Tocca ancora a me: non è facile continuare a parlare a gran voce come un tedesco, con il trattore in sottofondo, l’aria consumata della mascherina e il libro a un metro di distanza ... Prego di non cadere a terra senza fiato da un momento all’altro. Sarebbe poco elegante.
Sono senza ossigeno ma mi sto divertendo da matti.
Avanti. Indietro non si torna.
Oh no! La mia voce subisce un calo!
Non so dove trovo la forza, la alzo, la reimposto, non posso fallire.
Samir si è calato nel personaggio, legge sempre meglio, le streghe (e i bambini) ora pendono dalle labbra della Strega Suprema, il loro assoluto silenzio grida “Ancora! Ancora!”.
E allora ci siamo Signore e Signori.
La Strega Suprema è così esaltata che per la gioia improvvisa sul palco un balletto e, piena di malvagia allegria, ora canta la sua canzone.

«A morrte, a morrte gli orrrendi marrmocchi,
facciamoli frritti, cafiamogli gli occhi!
Dofete annientarrli, schiacciarrli, trritarrli,
di dolci strregati dofete ingozzarrli,
che torrnino a casa con l'arria contenta,
la pancia pen piena di chicche alla menta.
E il giorrno dopo, da idioti perrfetti,
nei panchi siedono gli scolarretti.
Ma già impallidisce un pampino e sta male
e sùpito grrida: "Non sono norrmale!
Mi spunta la coda, che orrripile cosa!".
Un'altrra singhiozza: "Son tutta pelosa!"
Un terrzo schiamazza e piange strillando:
"Aiuto! Anche i paffi mi stanno spuntando!"
Il pimpo più alto difenta piccino
e lo stesso accade a ogni pampino.
Trra zampe, trra code, trra peli e paffetti,
si son trrasforrmati in topi perrfetti!
E sul pafimento orrmai fanno lesti
topini e toponi, topacci molesti!
Maestri e maestrre, fedeste che faccia!
Infine comincia, spietata, la caccia.
Grridando: "No ai topi! Facciamoli fuorri!
Su, sfelti! le trrappole!", qvei prrafi signorri
ne ammazzano dieci, poi cento, poi mille!
Le trrappole scattano, fanno scintille,
rrisuonano ofunque le molle assassine
che mozzan la testa a topini e topine.
Ci son topi morrti in ogni angolino
e più non si fede neanche un pampino.

I bambini sono immobili, trattengono il respiro: con voce ancora più potente mi lancio tutto d’un fiato verso il gran finale.

Maestri e maestrre son già prreoccupati:
"I nostrri piccini, dofe sono andati?".
Li cerrcano infano, a sinistrra e a destrra,
in pagno, in corrtile e anche in palestrra.
Si guarrdano in faccia maestrri e maestrre,
si affacciano ansiosi a porrte e finestrre!
È fuota la classe, i panchi son fuoti,
non sanno che farre, qvei poferri idioti!
Con scope e rramazze orra fan pulizia,
rraccolgono i topi, li puttano fia!
Il magico intrruglio ha pen funzionato:
LA STRREGA SUPRREMA INFINE HA TRRIONFATO!

Tre secondi di assoluto silenzio.
Mi volto verso i bambini e ... uno scroscio di applausi invade l’aula, cori di “Evviva!” e “Urrà!” echeggiano fino all’alto soffitto.
Si alzano in piedi, i pugni al cielo, fan giravolte, saltellano fieri.
“Perché esultate?” chiedo io “state per essere trasformati in topini!”.
“Sìììì, evviva! In topini! Urrà, diventeremo topini!”.
Intuisco i loro sorrisi nascosti; me ne accorgo dai loro occhi. In questi mesi ho imparato a leggerli con molta attenzione. Li guardo: sono luminosi, intensi, sono vivi ...
VIVI.
Mi avvicino a Samir per riprendere il mio libro e lui mi chiede: “Maestra ma tu quando ci sei ancora?”.
Ora gli aspiranti topini fanno merenda, e io posso permettermi di stare un paio di minuti alla finestra, fiera di non essere svenuta. Dietro la mascherina sorrido e silenziosamente ringrazio Roald Dahl per i miracoli che ancora oggi riesce a fare ... anche nel bel mezzo di una pandemia.
Il cielo è grigio, piove. Il trattore si è fermato. Gli alberi sono leggermente più spogli.
Mi volto ad ammirare i miei piccoli allievi.
Tutto ora ha un senso.

Bibliografia
Roal Dahl (1987), Le Streghe. Salani Editore, 2021
Ilaria Gaspari, Rileggere da grandi “Le streghe” di Roald Dahl (e divertirsi un sacco), disponibile su: https://www.illibraio.it/news/dautore/le-streghe-dahl-1391302/

*Cecilia Stefanini, è docente di scuola primaria E ricercatrice.

LA POESIA DEI LUOGHI

Il Piano di Verra e l’Universo

di Gianni Gasparini

Nello scorso mese di maggio sono salito come molte altre volte al Piano inferiore di Verra, un ampio pianoro glaciale che a duemila metri di altezza si distende davanti al Monte Rosa, ai quattromila ghiacciati del Castore, del Polluce e dei Breithorn verso il Cervino.
In tanti anni, mai vi avevo avvertito un senso così totale, grandioso e inquietante di solitudine. E ho pensato che il piccolo grande compito era quello di trasformare l’inquietudine in poesia, il timore in canto.
La sensazione che provavo era dovuta forse alla situazione di isolamento per la pandemia, all’assenza di persone e di animali, ma non si trattava soltanto di questo. Sul pianoro si alternavano chiazze di neve residua e folti gruppi di crochi bianchi e viola appena spuntati dai prati ispidi, progressivamente riconquistati al verde avanzante. Le conifere erano ancora quiescenti nella loro postura invernale, in attesa di fronde nuove e poi di fiori e pigne da ostendere tra qualche mese ai ghiacciai.
Era una caratteristica situazione di passaggio tra inverno e primavera, che a duemila metri nelle Alpi occidentali propende ancora verso la stagione fredda: di notte ghiaccia, di giorno può nevicare quando il cielo si offusca e una coltre di nubi lo copre. Il paesaggio era fatto soprattutto di esseri inanimati, come noi li chiamiamo: le rocce scure e verticali che cingono il pianoro, la neve, le bordure di ghiaccio nei punti meno riscaldati dal sole, l’acqua del torrente che in questo luogo pianeggiante non cessa di scorrere in nessun mese dell’anno, per quanto ridotta di volume.
Passo e resto, come l’Universo. Mi è tornato alla mente, anzi mi si è imposto nel pensiero, questo verso di una poesia di Pessoa/Caeiro, tra le più intense che io conosca: dell’eteronimo Alberto Cairo, poeta della natura a tutto campo e “pagano”, Fernando Pessoa afferma che si tratta del proprio maestro, di quello – interpreto – che gli ha svelato i segreti della Natureza.
Ho pensato che l’Universo era esattamente quello che stavo vedendo: un pezzo, un frammento, un segmento di esso – certo –, ma integro e tale da riprodurne le caratteristiche in modo esatto, fedele. Quell’Universo che osservavo e percepivo nella sua wilderness, soprattutto quello significato dalle rocce aspre del monte e dalla neve e dall’acqua del rio e più su dai ghiacciai inconsumati, era lo stesso Universo che esisteva all’alba dei tempi. Avrebbe potuto essere il paesaggio desolato del Labrador, o magari quello di una foresta primaria e intatta come ancora ne rimangono lembi residui in Europa. Intuivo vagamente, percepivo in nuce che quella minima parte di cosmo rappresentata da un pianoro alpino quasi sconosciuto nel quale mi trovavo era l’Universo. E che anche senza il mio occhio e la mia partecipazione esso comunque esisteva di per sé, senza bisogno di alcuna presenza e interpretazione umana: come quando secondo il racconto mitico di Genesi si accende e si perfeziona progressivamente la Creazione, a partire dal momento in cui lo Spirito aleggia sulle acque primordiali e pullulanti di vita potenziale.
Soprattutto, intuivo come quel segmento minimo di Universo comunicasse il senso profondo della vita nel cosmo, dell’esistenza dell’uomo attraverso il mistero del tempo. “Passo e resto”. L’insegnamento è duplice nella sua unicità: passare per trasformarsi così come accade ad ogni elemento vivente (nascere, trascorrere, morire), e poi restare. Restare come il fiore e l’albero che si rinnovano ad ogni nuova stagione, come le migliaia di crochi che occupano gli spazi disinnevati del piano alla fine dell’inverno. Restare come ogni animale che propaghi nel tempo e nello spazio la propria presenza in competizione e in sinergia con tutte le altre specie. Restare senza nulla perdere della creatività della mente, della potenza sconfinata di un cuore capace di amore. Restare oltre i limiti di questa vita e di questa terra meravigliosa e imperfetta, come è nell’anelito di chi ne abbia gustato anche solo per attimi l’incanto e mantenga in sé nostalgia di una bellezza che non finisce. Una bellezza che sia foriera di un tempo pacificato e in cui trovi finalmente espressione la realizzazione armoniosa di ciascun uomo, degli uomini fra loro e di tutte le miriadi di esseri che compongono questo Universo impermanente e mirabile.

STORIA CONTEMPORANEA

1961-1971: dal muro di Berlino alla fine di Bretton Woods

di Paolo Acanfora

Il 13 agosto 1961 le guardie di frontiera della Repubblica democratica tedesca davano il via alla costruzione del muro di Berlino, che divenne, agli occhi degli europei, il simbolo più significativo della divisione del mondo in due blocchi. La guerra fredda, che dal 1947 aveva imposto la struttura tendenzialmente bipolare delle relazioni internazionali, aveva ora una propria plastica raffigurazione. La civiltà comunista, atea e materialista, da una parte; la civiltà occidentale, liberale e democratica, dall’altra. A dividerle non solo una immaginaria cortina di ferro – come aveva affermato Churchill nel marzo del 1946 – ma una barriera di cemento, custodita da posti di blocco armati. Una linea di confine invalicabile. Con la costruzione del muro si chiudeva la cosiddetta seconda crisi di Berlino che, come la prima del 1948, era stata causata dal mancato accordo sulla Germania tra le potenze vincitrici la seconda guerra mondiale. Da una parte i paesi occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia) dall’altra l’Unione sovietica. La prima crisi sboccò nella creazione dei due Stati tedeschi, la seconda nel muro di Berlino. In entrambi i casi la risposta fu divisiva e lacerante per la nazione tedesca.
La fase di disgelo e di coesistenza pacifica tra le due superpotenze che si era aperta con la nuova politica di Kruscev nel 1956 veniva duramente messa alla prova prima con le vicende berlinesi (1958-1961) e, successivamente, con la crisi di Cuba. Il nuovo presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, eletto nel novembre del 1960, si trovò subito a gestire situazioni assai spinose (in parte ereditate) che avrebbero portato lo scontro bipolare sull’orlo di una terza guerra mondiale. Le aperture avanzate con la politica della nuova frontiera e l’avvio di strategie come quella dell’Alleanza per il progresso, si scontrarono ineluttabilmente con un clima internazionale incandescente che poco spazio sembrava poter concedere a politiche di pacificazione.
Con la distanza temporale, di contesto e di clima, oggi possibile, sembra difficile potersi immaginare un conflitto di dimensione globale in un sistema come quello della Guerra fredda, tendenzialmente stabile. Eppure, mai come con la crisi di Cuba del 1962, l’opinione pubblica internazionale percepì la concreta sensazione che una nuova guerra mondiale potesse davvero scoppiare, una guerra che sarebbe stata ineluttabilmente devastante in virtù dei potenti armamenti nucleari. L’avvio della crisi nacque sostanzialmente in conseguenza della rivoluzione castrista. Rovesciato il dittatore Fulgencio Batista nel 1959, Fidel Castro instaurò sull’isola, distante poche miglia dalle coste della più grande potenza del mondo capitalista, un regime socialista. Il governo statunitense reagì sia con strumenti tradizionali come l’embargo economico sia con programmi ad hoc. Il famoso sbarco alla baia dei porci da parte di alcuni marines statunitensi nacque con l’obiettivo di provocare un sollevamento popolare anticastrista. L’operazione fallì ma spinse la classe dirigente cubana a cercare una protezione internazionale che la garantisse da ulteriori tentativi di rovesciamento del proprio governo. L’avvicinamento all’Unione Sovietica fu, dunque, uno sbocco in una certa misura inevitabile. Kruscev vide in questa novità la possibilità di fare pressione sugli Stati Uniti ed avviò un programma segreto di installazione dei missili sovietici sull’isola di Cuba. Missili con testate nucleari puntate direttamente sul territorio statunitense. Venuto a conoscenza dell’operazione, Kennedy scelse probabilmente la più complicata e rischiosa tra le opzioni possibili. Non solo intimò l’Urss di bloccare immediatamente la costruzione delle basi militari ma rese pubbliche le foto delle navi sovietiche che trasportavano i materiali per l’installazione. Rendendo lo scontro visibile, aperto e trasparente, Kennedy rese più complicate le trattative tra le due superpotenze irrigidendo la posizione sovietica. Consegnò all’opinione pubblica un quadro di tensioni aggravate, suscitando una reazione emotiva di paure e timori. In una guerra di rappresentazioni, di consenso, come era la Guerra fredda, cedere apertamente non era un’opzione per nessuno degli attori in campo. La soluzione fu trovata con concessioni reciproche. La vittoria statunitense fu netta ma apparse, al contempo, necessaria una contropartita a favore dell’Urss. Oltre all’ovvio impegno di non interferenza negli affari cubani, questa fu trovata nel ritiro di alcune postazioni missilistiche statunitensi in Europa. Si trattò di un’esperienza drammatica del bipolarismo mondiale ma avviò anche un inedito percorso di pacificazione tra le due superpotenze simboleggiato dalla cosiddetta linea rossa, strumento di comunicazione diretto ad evitare conflitti nucleari.
La situazione americana piombò però velocemente verso uno scenario difficile. Il 22 novembre 1963 il presidente degli Stati Uniti fu assassinato, segnando una pagina drammatica della storia del paese. Nel contempo si aggravava lo scenario asiatico, con il Vietnam sempre più in ebollizione. Gli Stati Uniti, rimasti sostanzialmente dietro le quinte, cominciarono ad inviare, a partire dal 1965, propri contingenti, sempre più numerosi, al fine di evitare la comunistizzazione del Vietnam del Sud. Una guerra dai risvolti tragici che si concluse solo dieci anni dopo con costi umani e militari gravosissimi ed un’immagine internazionale degli USA devastata. Il Vietnam divenne il simbolo dei movimenti pacifisti in tutto l’Occidente. La contestazione dell’imperialismo americano dilagò a dismisura conquistando intere generazioni. Il paese che si era presentato al mondo come lo scudo, la difesa della democrazia, della libertà, dei diritti umani veniva ora percepito come una potenza imperiale, che discriminava e negava le libertà altrui (anche al proprio interno, con l’emergere della questione dei diritti degli afroamericani).
La situazione divenne sempre più insostenibile. Le contestazioni interne (in cui non mancarono i momenti drammatici), la moltiplicazione delle spese militari (a cominciare dal costoso impegno vietnamita), le difficoltà dei propri prodotti sul mercato internazionale (con i conseguenti problemi di bilancia commerciale), misero sempre più in difficoltà le finanze statunitensi. Il sistema stava mostrando i propri limiti, non più eludibili. Il nuovo presidente Richard Nixon, eletto nel novembre del 1968, scelse una via di intervento radicale, aprendo nel 1971 una crisi monetaria che pose fine al sistema internazionale costruito a Bretton Woods nel 1944. Si aprì così la strada a quei cambiamenti strutturali nella economia mondiale che caratterizzarono gli anni Settanta e che imposero, alla fine del decennio, una revisione completa dei paradigmi di politica economica, contribuendo a dare forma al nuovo mondo a venire.

ECOLOGIA INTEGRALE

Ambiente, biodiversità, tutela degli animali

di Stefano Ceccanti

Foto di Annapictures da Pixabay

Lo scorso 9 giugno il Senato ha approvato, con 221 favorevoli, nessun voto contrario e 23 astenuti (appartenenti al gruppo di Fratelli d’Italia) il progetto di legge costituzionale che interviene sulla Costituzione per introdurvi il principio della tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi e degli animali.
In seguito la Camera il 12 ottobre ha approvato lo stesso identico testo con un’analoga maggioranza: 412 favorevoli, 1 contrario e 16 astenuti.
Ora entrambe le Camere, ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione, sono chiamate all’ultima decisiva lettura in cui, senza più emendamenti, dovranno dire Sì o no complessivamente a quel testo. Cosa che accadrà presumibilmente entro fine gennaio.
Il progetto di legge costituzionale introduce, in particolare, un nuovo comma all’articolo 9 della Costituzione, al fine di riconoscere nell’ambito dei principi fondamentali, accanto alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione, anche quella dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. Il principio di tutela degli animali viene inserito attraverso la previsione di una riserva di legge statale che ne disciplini le forme e i modi.
Si interviene anche per modificare l’articolo 41 della Costituzione: da una parte si stabilisce che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in danno alla salute e all'ambiente, premettendo questi due limiti a quelli già vigenti e riguardanti la sicurezza, la libertà e la dignità umana; dall’altra si riserva alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l'attività economica, pubblica e privata, a fini non solo sociali ma anche ambientali.
Pubblichiamo l’intervento in Aula della Camera del deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti, svolto l’11 ottobre.

È iscritto a parlare il deputato Ceccanti. Ne ha facoltà.
STEFANO CECCANTI (PD). Grazie, Presidente. Il disegno di legge costituzionale di cui discutiamo oggi è stato approvato dal Senato della Repubblica in prima deliberazione nella seduta del 9 giugno 2021 con 224 voti favorevoli, nessuno contrario e 23 astensioni. Il suo obiettivo è quello di conferire dignità costituzionale esplicita alla tutela dell’ambiente e degli animali, come ha già sostenuto precedentemente la relatrice. In questo modo si vuole conferire un solido ancoraggio ulteriore rispetto alla menzione della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali previsto dall’articolo 117, secondo comma, della Costituzione, a partire dalla revisione del Titolo V del 2001. Nel caso italiano, infatti, la tutela normativa dell’ambiente non trova espressi riferimenti, se non in diversi e molteplici interventi normativi di rango primario e secondario, a differenza di molti Paesi che hanno introdotto già da tempo specifiche disposizioni costituzionali.
Lo hanno fatto sin dall’inizio tutti quelli della terza ondata democratica iniziata negli anni Settanta, ma lo hanno anche fatto, con revisione costituzionale, anche democrazie consolidate, come Francia e Germania. Si parla di costituzionalismo ambientale finalizzato a comprendere il complesso rapporto tra individuo, comunità e territorio nel difficile bilanciamento dei nuovi diritti.
È ben noto come la popolazione mondiale sia aumentata notevolmente, fino quasi a raggiungere 8 miliardi ma, nel frattempo, le risorse sono diminuite; al tempo stesso, il cambiamento climatico e l’inquinamento sono tematiche che non possono essere tralasciate, se si considera l’impatto determinante che hanno sulla coesione sociale. La tutela degli ambienti, degli ecosistemi e della biodiversità, oltre a essere strettamente connessa con il tema della salute, costituisce un diritto intragenerazionale e intergenerazionale. Nel primo caso, è il diritto fondamentale che spetta al singolo, ma che, al tempo stesso, implica una responsabilità individuale nei confronti della collettività; nel secondo caso, invece, rappresenta un dovere delle generazioni presenti e un diritto delle generazioni future. In questo modo si compie un passo in avanti rispetto a quanto già innovato con la giurisprudenza costituzionale, ma anche ordinaria, che ha introdotto, attraverso un’interpretazione estensiva del testo costituzionale, ulteriori diritti rispetto a quelli da esso espressamente previsti, tra cui il diritto all’ambiente salubre, tratto dalla tutela del paesaggio. Difatti, sin dalla sentenza n. 641 del 1987, relativa alla protezione dell’ambiente come valore costituzionale primario, la Corte costituzionale ha riconosciuto l’ambiente come un bene giuridico, in quanto riconosciuto e tutelato da norme e protetto “come elemento determinativo della qualità della vita”. “La sua protezione – prosegue la Corte in questa sentenza – non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprimere l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive e agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (articoli 9 e 32), per cui esso assurge a valore primario e assoluto”.
Nonostante la lungimiranza dei padri costituenti, fino a oggi il diritto all’ambiente non ha trovato espressa menzione nella Costituzione, questo perché all’epoca – come ha già sostenuto la relatrice – non vi era particolare attenzione al tema, sia in considerazione della tipologia di economia prevalentemente agricola su cui si basava l’Italia, sia per la scarsa attenzione ai fenomeni dell’inquinamento, del cambiamento climatico e degli effetti che si ingenerano sul pianeta e sugli esseri umani. Oggi, il contesto nazionale e internazionale è cambiato, comportando l’inserimento dell’ambiente tra i diritti inviolabili della persona umana, in ragione della sua natura multidimensionale. In questo modo, tale diritto può trovare declinazione in diverse forme, dalla tutela del paesaggio e del suolo al diritto a vivere in un ambiente salubre.
È doveroso ricordare come la Costituzione italiana poggia le proprie fondamenta su alcuni princìpi, tra cui quello del pluralismo politico, territoriale, linguistico e religioso; in questo modo si va oltre la concezione individualista tipica del liberalismo classico, ma il singolo è da considerarsi al centro di un rapporto di tipo relazionale con le diverse formazioni sociali con cui si interfaccia. È per tale ragione che il diritto all’ambiente, da intendersi come diritto inviolabile della persona umana, deve trovare adeguata considerazione, sia come dovere di solidarietà sociale ed economica a favore delle generazioni future, per preservare le condizioni necessarie per la sopravvivenza, sia come diritto fondamentale, giacché può incidere sul pieno sviluppo della personalità di ogni individuo.
Proprio in tale senso, con la modifica all’articolo 9, non solo il legislatore decide di novellare uno dei principi fondamentali della Costituzione, mai oggetto di modifica sin dal 1948, ma soprattutto introduce un concetto di portata epocale, attraverso la dicitura: “interesse delle future generazioni”. La riforma in itinere si palesa ancora più importante non solo in ragione degli evidenti effetti catastrofici dell’inquinamento e del cambiamento climatico, peraltro a gran voce evidenziati dagli attivisti e dagli scienziati, ma altresì in considerazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il cui testo definitivo è stato trasmesso dal Governo alla Commissione europea il 30 aprile 2021.
Proprio il tema dell’ambiente costituisce una delle macro-aree che prevede che siano destinate cospicue risorse alla tutela del territorio e delle risorse idriche, all’economia circolare, alla rigenerazione urbana e housing sociale, al superbonus 110 per cento e alle infrastrutture per la mobilità sostenibile. Come dichiarato dalla capogruppo al Senato del Partito Democratico, Simona Malpezzi, è una riforma importante per le future generazioni e assume un valore ancora più rilevante nel corso di una pandemia, che farà da spartiacque nel nostro stile di vita, e nel momento in cui l’Unione europea assume obiettivi ancora più ambiziosi nel contrasto ai cambiamenti climatici. Il senatore Parrini, in occasione della seduta del Senato dell’8 giugno 2021, ha evidenziato come vi siano dei momenti e degli argomenti rispetto ai quali è necessario che si realizzino un raccordo e un allineamento tra la Costituzione scritta e la Costituzione vivente. “Noi ammettiamo – proseguiva Parrini – che nella coscienza pubblica si siano fatti da tempo molti passi in avanti in termini di attenzione nei confronti delle questioni ambientali, ma sappiamo che è venuto il momento di fare quell’allineamento di cui dicevo”. “Considero fondamentale il riferimento al fatto che si operi nell’interesse delle future generazioni. Quel detto abusatissimo ma che non posso fare a meno di citare anche oggi, ossia che il nostro pianeta e il nostro ambiente li abbiamo non ereditati dai padri, ma ricevuti in prestito dai nostri figli, è vero e doveva avere una sanzione nel testo costituzionale”.
Due ultime necessarie precisazioni, anzi, tre, in conclusione. La prima, politico culturale: con la revisione di oggi ci si inserisce in una visione ambientalista positiva, coniugata con lo sviluppo economico e sociale, senza concessioni a teorie sempliciste e di decrescita felice, all’idea di tirare costantemente il freno di emergenza a un treno che deve, invece, muoversi nella logica del PNRR. Non sono, quindi, norme per l’inazione economico sociale, ma di garanzia e di equilibrio.
La seconda osservazione è costituzionale, nel momento in cui incidiamo per la prima volta sui primi dodici articoli: anche le norme relative ai princìpi fondamentali non sono sacre e immutabili, sono scritte allo scopo di non tornare indietro nella tutela dei diritti, ma niente impedisce che puntuali revisioni incrementali consentano, invece, di andare avanti, esattamente come quella odierna.
Un’ultima considerazione: noi non pensiamo di essere dei giganti, operando sul testo della prima parte della Costituzione, scritta, invece, sì, da giganti; noi siamo nani sulle spalle dei giganti, per riferirsi a una celebre metafora; siamo nani sulle spalle di giganti e abbiamo, come nostra responsabilità specifica, quella di cogliere le novità del tempo e di fare delle cose che all’epoca i giganti non potevano fare, perché ancora non in grado per le condizioni dell’epoca. Ma continuiamo a pensare di essere noi i nani e loro i giganti.
(Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)

***

Questo il testo approvato in prima deliberazione dal Senato

SENATO DELLA REPUBBLICA

Attesto che il Senato della Repubblica, il 9 giugno 2021, ha approvato, in sede di prima deliberazione, il seguente disegno di legge costituzionale risultante dall’unificazione dei disegni di legge costituzionale n. 83 d’iniziativa delle senatrici De Petris e Nugnes; n. 212 d’iniziativa delle senatrici De Petris, Cirinnà, Giammanco e Nugnes; n. 938 d’iniziativa dei senatori Collina, Marcucci, Ferrari e Ferrazzi; n. 1203 d’iniziativa del senatore Perilli; n. 1532 d’iniziativa della senatrice Gallone; n. 1627 d’iniziativa della senatrice L’Abbate; n. 1632 d’iniziativa della senatrice Bonino; n. 2160 d’iniziativa dei senatori Calderoli, Augussori, Grassi, Pirovano e Riccardi:

Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente

Art. 1
All’articolo 9 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali».

Art. 2
All’articolo 41 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, dopo la parola: «danno» sono inserite le seguenti: «alla salute, all’ambiente,»;
b) al terzo comma sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e ambientali».

Art. 3
1. La legge dello Stato che disciplina i modi e le forme di tutela degli animali, di cui all’articolo 9 della Costituzione, come modificato dall’articolo 1 della presente legge costituzionale, si applica alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano nei limiti delle competenze legislative ad esse riconosciute dai rispettivi statuti.

Il Presidente

IL CANTO DELLE DONNE AFGHANE

Voci del buio e del silenzio

di Leonarda Tola

Foto di Amber Clay da Pixabay

Non possiamo smettere di parlare dell’Afghanistan. È di questi giorni la decisione dell’Unione Europea di accorrere in soccorso del popolo afghano sospeso tra la vita e la morte per fame, indigenza e totale mancanza di beni essenziali. Milioni di bambini, uomini e donne dopo guerre e invasioni vivono una immane tragedia umanitaria. In una situazione che sembra preludere alla catastrofe non bisogna dimenticare che in quella società sconvolta le donne continuano ad essere l’anello che non tiene, costrette a sopportare, in aggiunta all’estrema povertà, il giogo millenario della dipendenza dagli uomini: padre, marito, fratello, cugino. È la storia delle tante ragazze afghane, Shekiba, Rhaima, Obayda, Meena, Alia, Neela, che si racconta nei romanzi soprattutto di autrici, anche per ragazzi (Nadia Hashimi, La figlia dell’arcobaleno, Piemme 2017). È la quotidianità di mogli, figlie, sorelle trattenute nella prigione della famiglia dalla sorveglianza occhiuta dei maschi, nello spazio ristretto di case spesso misere protette da alti muri. Il tacere in casa e il vegliare di spose bambine sui malumori rancorosi di mariti attempati, prontamente serviti nell’appagamento obbligato delle loro incontrastate ragioni e pretese. “Lunghi capelli neri sciolti e occhi verdi come smeraldo”: nessuno li deve vedere perché la bellezza delle donne non appartiene alle donne stesse, ma è data, venduta, in uso esclusivo al maschio. Da coprire sotto i veli azzurri e neri del burqa.
Eppure nel silenzio delle calde notti d’estate, in ascolto del respiro del cuore, questa segregata umanità femminile ha saputo inventare una forma di resistenza antica che trova nella parola poetica la sua espressione popolare: sono i Landay (piccola serpe in lingua pashtun), versi brevi, a due a due, che pungono iniettando veleno, giunti fino a noi attraverso una ininterrotta tradizione orale (raccolta e meritoriamente tradotta in “Sono il mendicante del mondo” di Eliza Griswold e Seamus Murphy) .
Alle donne era ed è vietato cantare in pubblico e i Landay sono componimenti canori custoditi dall’anonimato e trasmessi nella circolazione invisibile delle confidenze e della memoria appartata delle donne. I talebani tornati al comando, ancora oggi proibiscono l’insegnamento e lo studio della musica (come anche lo sport con la decapitazione della pallavolista Majhubin Hakimi).
I serpentelli in versi sono parole cantate che assecondano il ritmo e l’armonia intrinseca a quella lingua: accompagnati dal suono del tamburo i Landay diventano canti di protesta che descrivono con metafore e in modo immaginifico la condizione delle donne nei diversi aspetti dell’esistenza, soprattutto nel decisivo rapporto donna-uomo. Una ribellione intenzionalmente mascherata nella dolce melodia del canto per denunciare i diritti negati a cominciare dalla libertà essenziale di trovare le parole per dire quello che la mente e il cuore suggeriscono.

“Posa le tue labbra sulle mie
ma lascia la mia lingua libera di parlarti d’amore”.
“Il mio amato vuole trattenere la mia lingua sulla sua bocca,
non per diletto di essa, ma solo per stabilire i suoi costanti diritti su di me”.

Si fondono in questi versi le evidenze del desiderio femminile: corrispondere all’amore attraverso l’esperienza dei sensi sollecitati, senza ripensamenti o finta inconsapevolezza. Soprattutto è rivendicata la libertà di vivere la corporeità che invece viene negata: tutte le volte che nell’incontro il maschio è mosso dalla voglia e dall’impulso del dominatore. È significativo che la donna che compone e canta rivendichi il diritto alla parola, esplicitata attraverso la fisicità della lingua. A sorpresa emerge il punto decisivo a cui la donna è pervenuta nella sua maturità di essere pensante: è affermata l’unicità di corpo e mente, la complementarità di sensi e sentimento di sé. Di nuovo c’è che la donna non è intimamente disposta a rinunciare ad essere quello che è; da qui il dolore di fronte al desiderio divorante dell’uomo che vuole consumare e prosciugare, significativamente nel bacio, la risorgiva che è la lingua, da cui devono scaturire tutte le parole necessarie: all’amore, alla vita vera.

“Ci avete tolto l’aria
Ma noi siamo le foglie che respirano.”
*
“Sono della tua stessa carne
perché mi vendi al mercato come il bestiame?”
*
“Mi faccio di pietra e di marmo
Non alzare le mani e neanche la voce
Attento, dalla testa rotta
escono le mie poesie più affilate”
*
“Celo il corpo sotto il lino da me lavorato
È prigione da cui evado con gli occhi.”
*
“La tua voce prigioniera
grida dalla mia bocca il nostro dolore”
*
“Voci da Occidente, rare.
Qualcuno ci pensa? Ci conosce qualcuno?”
*
“Chi mi solleva in volo?
Chi si unisce al mio canto?”

È la rivoluzione gentile di donne ferite nella sottomissione che insorgono contro l’oppressione dei maschi. Un’eredità preziosa per le giovani di quelle e altre latitudini.

AUTOBIOGRAFIE SCOLASTICHE

Con il testo di Charles Juliet tratto dal libro L’année de l’éveil (L’anno del risveglio) prende inizio una rubrica di scritti autobiografici significativi sul percorso e sulle vicende scolastiche di autori che hanno scritto per rendersi presenti a sé stessi riportando alla luce una loro lontana persa dentro di loro. “Io scrivo per generarmi”, dice per l’appunto Juliet.

Charles Juliet

di Mario Bertin

Charles Juliet (1934) è un poeta, romanziere, saggista francese poco noto in Italia, che ha dedicato gran parte delle sue opere a testimoniare di sé per esistere. Del suo “Diario” sono già stati pubblicati dieci volumi.
Charles Juliet nasce da una famiglia poverissima. A tre mesi è separato dalla sua madre biologica, internata in un ospedale psichiatrico, a seguito di un tentativo di suicidio, dove morirà di fame qualche anno dopo. Egli verrà allora affidato ad una famiglia di contadini svizzeri. La vita contadina, nel contatto con la natura, segnerà tutta la sua vita. A dodici anni viene iscritto alla scuola militare di Aix-en-Provence. È questa una istituzione paragonabile ai nostri seminari ecclesiastici, con la differenza che essa avviava i ragazzi, fin dalla più giovane età, alla carriera militare. Il brano che qui riproduciamo parla di questa esperienza.
A vent’anni si iscrive alla facoltà di medicina, che abbandonerà tre anni dopo per consacrarsi esclusivamente alla scrittura. Una scrittura sofferta che privilegiava l’ascolto, l’attenzione e l’accoglienza di una parola sorgiva capace di restituire la sua verità interiore. “Io non ho mai scritto una sola riga che non mi sia venuta dalla mia propria sorgente”. Una scrittura che è una ricerca del profondo, solo apparentemente semplice, che però è molto elaborata perché esige la spogliazione di sé e un grande rigore per approdare alla nitidezza che la caratterizza e per aprirsi alla conoscenza generale dell’essere umano e del mondo.

L'anno del risveglio

I nostri professori sono dei civili. Vengono a fare le loro lezioni, poi ripartono, ignorano tutto, o quasi tutto, della vita che conduciamo fra queste mura.
Tre di questi professori hanno già una loro leggenda e circolano su di loro numerosi aneddoti.
Uno è il professore di fisica e chimica. È piccolo, magrolino, ingobbito, molto miope e rattrappito per i reumatismi. Ha difficoltà a camminare. Avanza di sbieco, a piccoli passi irregolari e vacillanti. Quando lo si vede spuntare, quelli di noi che possiedono un orologio non mancano mai di cronometrare il tempo che impiega ad attraversare il cortile. Insegna in alcune classi di prima ed è lo zimbello degli alunni perché pone loro problemi di cui non sa trovare la soluzione. Ha inoltre la mania di rubare penne stilografiche, orologi e tutto ciò che eccita la sua bramosia. Un giorno, mentre si dedicava ad un esperimento di chimica, provocò un forte esplosione, che mandò in frantumi i vetri delle finestre e mise in subbuglio l'intera scuola. Gli alunni, che si erano messi al riparo sotto i banchi, quando ripresero i loro posti, lo videro inebetito che cercava a tentoni il contenitore andato in pezzi. Un alunno, dal fondo dell'aula, gli riportò gli occhiali, dei quali era sopravvissuta soltanto la montatura e lui candidamente gli chiese se pensava che l'esperimento fosse riuscito.
Un altro professore è l'insegnante di tedesco: un individuo secco, con il volto coperto di rughe, con piccoli baffi drizzati all'insù, che veste di nero dal primo all'ultimo giorno dell'anno. Durante il terzo trimestre, quando fa un caldo soffocante, continua a indossare un cappello nero, un impermeabile nero e a portare un ombrello nero. È rinomato per la sua estrema severità e nessuna classe alle sue lezioni osa fare baccano. Ha un'altra prerogativa: di mettere sempre voti negativi. Se, per esempio, ad un alunno capita di buscarsi un meno tredici, alla interrogazione successiva dovrà prendere almeno un tredici per ristabilire la situazione e vedersi attribuire uno zero. È un Professore che ci tiene a ricordare di non dare mai un voto superiore a cinque su venti...
Il terzo professore che troviamo un po' strano è il professore di educazione civica.
È un vecchio capitano dell'esercito, un omone, forte, dal viso potente. Ha occhi d'un azzurro pallido, sepolti sotto folte sopracciglia brune. Sono occhi duri, intensi, estremamente mobili. Quando parla, sempre lentamente, con voce grave, intervallata da lunghi silenzi, non cessano di setacciare l'intera aula, di far pesare su ciascuno di noi l'intimidazione della sua altezzosa autorità. Quando si posano su di me, sento la mia testa rientrare nelle spalle, tutto il mio corpo accartocciarsi su sé stesso. È calvo per tre quarti. Ha un po' di capelli soltanto sulla sommità del cranio. Sono grigi, folti, divisi a metà da una riga. Due ciuffi a semicerchio, rigorosamente simmetrici, ricadono in continuità sulla fronte ricongiungendosi a metà tra le sopracciglia, gli hanno valso il soprannome di P'tit Coeur.
All'inizio dell'anno scolastico, mentre lo aspettavamo per la sua prima lezione, nell'aula non si sentiva volare una mosca. Risuonarono alcuni colpi sordi. Ci guardammo perplessi. Uno di noi andò ad aprire. Alla porta appena socchiusa, lo vedemmo indietreggiare. Aveva un volto teso, lo sguardo come trasecolato, le mani protese in avanti come se volesse respingere o trattenere qualcosa. Entrò. Sembrava camminare con la testa in giù.
Non è esagerato affermare che quel professore ci terrorizza. Talvolta, se qualcuno di noi gira semplicemente la testa o diminuisce anche di poco l'attenzione, egli afferra quello che gli capita sotto mano, una gomma, un righello, un quaderno, il cancellino della lavagna, e glielo tira in faccia. Oppure, muovendosi tra i banchi e fracassando tutto quello che incontra, piomba su di lui, lo scaraventa sotto il banco dove lo costringe a restare fino al termine della lezione.
Quel mattino in classe eravamo soltanto in undici. Tutti gli altri sono in infermeria, chi per un raffreddore, chi per una forma di angina o di bronchite. L'infermeria è al completo e non è più in grado di accogliere nessun altro. Ecco perché, in modo del tutto eccezionale, si tollera che alcuni restino in camerata.
Noi siamo al nostro posto e, quando entra, vedendo l'aula a tre quarti vuota, il professore appare interdetto. Gli spieghiamo quello che succede. Lui scuote la testa, alza le spalle, ci tratta da signorinelle, dice che con dei miserabili come noi non si costruirà mai un esercito degno di questo nome. lo sono di pessimo umore e le sue parole mi mandano su tutte le furie. Mi alzo e gli dico che siamo demoralizzati e che ne abbiamo abbastanza di avere freddo e fame. Non mi risponde. Mi scruta con uno sguardo penetrante. lo mi devo controllare per non far vedere che tremo. Sono nel banco più distante dalla cattedra. Con il dito mi fa segno di andare a sedermi accanto a lui. Indica ugualmente agli altri di avvicinarsi a me. Lui resta sulla predella, ma si sposta davanti alla cattedra e, poggiando i piedi sul mio banco, si rivolge a me:
- Tu hai mai sentito parlare dei campi di concentramento?
Mi alzo in piedi. La paura mi ha impedito di capire quello che mi veniva chiesto. Mi ripete la domanda. Essa mi coglie così di sorpresa che dubito di avere capito bene quello che dice.
- Ne hai sentito parlare, sì o no?
Con la testa faccio segno di no.
- Tu non hai mai sentito parlare dei campi di concentramento?
In silenzio, vergognandomi, sentendomi colpevole, do la stessa risposta.
- Ma davvero? Tu non ne hai mai sentito parlare? Ma come è possibile?
Dopo lungo silenzio:
- Ma da dove vieni fuori?
Resto muto. Mi fa sedere.
- Se non puoi palare, almeno ascoltami.
Si mette a raccontare… Sono luogotenente… L’esercito è in ritirata… prigioniero… l’evasione… il rifiuto della disfatta… l’odio per questo occupante che vuole dominare il mondo… meglio morire in piedi che sotto lo stivale che ti schiaccia… la resistenza… i viaggi a Londra… la discesa in paracadute di notte… i combattimenti… l’imboscata… l’arresto… non sa perché non l’hanno fucilato… poi la partenza per un viaggio che lo porta agli ultimi gradi della decadenza e dell’abominio… nel vagone, il primo contatto con la follia e la morte… l’arrivo al campo… i flan-flan dell’orchestra… la fame e il freddo… la paura… le percosse… il lavoro estenuante… gli interminabili appelli nel vento glaciale dell’alba… la tortura… le impiccagioni… le esecuzioni… ogni settimana lo smistamento di coloro che erano più o meno validi da quelli che andavano in fumo… l’insopportabile odore di carne bruciata… gli ammassi di cadaveri che i forni non potevano assorbire… e poi, alla fine, il bombardamento… l’istante in cui si sono resi conto che le guardie si erano date alla fuga… una decina di giorni ad aspettare l’arrivo dei Russi… i giorni più terribili… la fame, il tifo, la morte presente più che mai… i cadaveri dappertutto… solo loro indifferenti a quello che poteva succedere… troppo sfiniti per temere la morte o gioire per la loro vicina liberazione…
«Da quei pochi mesi passati laggiù, in cui stavamo peggio delle bestie, proseguì, ho tirato due conclusioni: la prima portare alla disperazione. La seconda permette di mantenere la fede nell’uomo. Di queste conclusioni io vi voglio parlare e il mio desiderio sarebbe che esse si imprimano dentro di voi e vi rimangano, che voi possiate fare tesoro della mia esperienza. Che quello che io ho sopportato vi aiuti a diventare uomini lucidi, vi aiuti a comportarvi come si deve, vi aiuti ad affrontare la vita con tutta la coscienza possibile.
» La prima di queste conclusioni, molto banale, procede da una semplice constatazione. Essa potrebbe essere definita così: in completa buona coscienza – un giorno tornerò su questo punto – l’uomo è capace di infliggere agli altri uomini le cose più terribili, più atroci. Annientandoli e umiliandoli costringendoli a perdere ogni dignità e a disprezzare sé stessi, egli mira a uccidere la loro anima, a trasformarli in relitti, in rifiuti puzzolenti e rivoltanti, in modo che alla fine, inebetiti, svuotati di ogni umanità, non riconoscendosi più il diritto di vivere, arrivano a divenire vittime consenzienti, a collaborare con la macchina di morte che lavora ad annientarli. Questo è il primo punto. Ma bisogna anche sapere che, all’opposto, l’uomo può dare mostra di una devozione, di una generosità, di un eroismo assolutamente ammirevoli. Nella mia prossima lezione vi racconterò come alcuni deportati non esitarono un solo istante a mettere in gioco la propria vita per venire in aiuto ad un compagno. Ma anche a questo proposito, le cose non sono così semplici. Perché in mezzo a noi non c’erano soltanto persone ragguardevoli. Certuni si comportavano in modo vergognoso, che non mi indignava meno dei crimini più ignobili perpetrati quotidianamente dai tedeschi. Dunque, quando, divenuti, adulto cercherete di sondare il mistero che è l’essere umano, di farvi un’idea giusta di quello che siamo, bisognerà che non perdiate di vista che noi abbiamo almeno due versanti. Vederne soltanto uno ignorando l’altro, vuol dire fare inevitabilmente un grave errore. Se nell’uomo considerate soltanto ciò che porta al bene, in un certo modo sarete degli idealisti e spesso degli illusi. All’opposto, se ignorate il suo lato migliore e oscurate ciò che lo rende terribile, pernicioso, di lui avrete necessariamente una visione riduttiva, inesatta e, dunque, falsa. In questo caso è molto probabile che viviate nella sfiducia, e cioè nel risentimento o nell’odio. Ciò che potrebbe condurvi a concludere cinicamente al rifiuto di ogni morale, ad essere uno di quelli che sfruttano e annientano gli altri, di quelli che all’occorrenza – non dimentico che sarete dei militari – trattano gli altri a propria discrezione, infliggendo loro delle sevizie o addirittura eliminandoli.
» Voi forse avete già avuto l’occasione di osservare la lotta quasi incessante che si svolge dentro di voi, gli opposti bisogni che si scontrano in voi. Allora, diventati adulti, che cosa farete? Sarete di coloro che cedono alle loro inclinazioni negative, di coloro che agli altri portano nuove sofferenze e nuova infelicità? Oppure sarete di quelli che lottano per far regredire l’ignoranza, la bestialità e il male, di coloro che nutrono il desiderio di costruire un uomo di cui non aver nulla da temere, un uomo incapace di commettere le atrocità che la nostra tragica epoca ha conosciuto?
» La seconda conclusione a cui sono arrivato, non meno banale della prima, è nata ugualmente da una constatazione. Una constatazione che mi ha condotto a scoprire che l’uomo possiede risorse di coraggio, di tenacia, di energia assolutamente insospettabili. Alle prese con le circostanze peggiori, prigioniero delle situazioni più disperate, egli trova in sé i mezzi di rendersi quasi invincibile, di prendersi gioco di ciò che sembra fatto per degradarlo o distruggerlo. Se vuole, può superare la sofferenza e la disperazione. Se vuole, può anche vincere la paura della morte. E una volta affrancato da questa paura, possiede una forza e una libertà che gli consentono di sfidare ogni cosa, di affrontare qualsiasi cosa.
» Durante la resistenza, avevo un grande amico, un uomo che era per me come un fratello. Poco prima di essere arrestato, mi è morto accanto. Una pallottola gli traversò la gola. Un giorno che eravamo ricercati dai tedeschi e battevamo i denti, sepolti nella neve, io imprecavo, maledicevo quella vita. È vero che eravamo sfiniti. Da tre giorni non avevamo né mangiato né dormito e l’avvenire era dei più cupi. Egli mi richiamò all’ordine e, come se emettesse una evidenza, concluse:
- A sapersi prendere, si può essere felici anche all’inferno.
Quella riflessione non l’ho mai più scordata. Non più del suo sguardo. Uno sguardo vibrante di sfida, di forza, di gioia, di una fiera determinazione, che mi aveva trasmesso immediatamente nuovo coraggio.
» L’inferno l’ho conosciuto poco dopo. Ma a più riprese, sono riuscito a sottrarmi mentalmente a ciò che intendeva annientarmi. In quei momenti, proiettato al di là di ogni sentimento nominabile, ho sentito una grande pace, e aderivo alla vita con tutte le fibre del mio corpo».
Si interruppe. Non osavo guardarlo. Eravamo tutti in silenzio, schiavi di una intensa emozione.
- Voi siete ancora giovani, riprese dopo un lungo momento, ma mi piacerebbe che voi conservaste nella vostra memoria ciò che vi ho appena confidato. D’altronde potete farne tesoro fin d’ora.
Poi si rivolse a me:
- Tu ti lamenti d’avere fame e freddo. Certo, non è piacevole. Ma la gioia e la sofferenza avvengono nella testa. Allora quando avrai l’impressione che la vita ti maltratta, impara a persuaderti che tu puoi essere più forte di ciò che ti rende infelice. Se ne hai la volontà, finirai per dominare le circostanze contrarie, e così diventerai un uomo. Un vero uomo. Un essere che non si può né demolire né sradicare.
Mi sorrise. Io trovo il coraggio di alzarmi.
- Professore, perché Dio ha permesso che ci siano i campi di concentramento?
Il suo sorriso si spense. Scuote la testa. Non riesco a sostenere il suo sguardo. Il silenzio si fa pesante.
- Perché Dio ha permesso che ci fossero i campi di concentramento? riprese con imbarazzo. Sì, perché non è intervenuto? Perché ha lasciato che la demenza si impadronisse di milioni di uomini?
Fa qualche passo. Respinge con un gesto meccanico i due piccoli ciuffi di capelli che gli ricadono sulla fronte.
- Se la tua domanda è rivolta non al professore, ma all’uomo che sono, mi sento autorizzato a dirti che, secondo me, Dio non esiste. Dal fondo dei tempi, l’uomo è talmente terrorizzato di fronte alla vita, alla morte, all’immensità dell’universo e a tutto ciò che ignora, che ha sentito il bisogno di un padre onnipotente, di un padre con il compito di guidarlo, di proteggerlo, di consolarlo, di un padre che non cessa di implorare, al quale chiedere di dispensare in abbondanza felicità e successo, un padre che, dopo averlo gettato sulla terra, lo resusciterà assicurandogli un’esistenza e una felicità eterna. Tutto ciò è talmente puerile, talmente ridicolo. Come può l’uomo illudersi, fondare la sua vita su di un simile gioco, credere in un Dio che è il prodotto della sua fantasia? Questo per me è un mistero. D’altronde che Dio esista oppure no, che importanza ha? Invece, ciò che più importa al più alto grado è ciò che siamo, e la maniera in cui ci comportiamo con gli altri. L’altro sé stesso, il mio simile, lo rispetto, lo tratto da eguale, faccio prova di rettitudine nei miei rapporti con lui? O, al contrario, cerco, abilmente o no, di dominarlo e di sfruttarlo? Di mortificarlo e di umiliarlo? Queste domande sarete costretti a porvele lungo tutta la vostra esistenza. Quello che io desidero, quello che vorrei è che con le vostre parole, il vostro comportamento, diate delle buone risposte, voglio dire delle risposte che non vi facciano vergognare di voi stessi.
Un istante più tardi, con tutta la compagnia, assisto al rapporto. D’improvviso, travolgendo quelli che mi circondano, scappo e, dopo pochi passi, mentre sono piegato in due dai crampi, mi prendono conati di vomito. Ma ho lo stomaco vuoto e non posso fare altro che espellere un po’ di bile. Nonostante tutto, gli spasmi continuano, e con gli occhi pieni di lacrime, ansimando, gemendo, sento il mio corpo contrarsi, restringersi, comprimersi, fare sforzi furibondi per espellere ciò che sono.

Quella sera, a letto, batto i denti. Ma sono felice che mi sia offerta l’occasione di mettere in pratica quello di cui il professore ci ha parlato. Non lamentarsi, non lasciarsi scuotere dalla sofferenza, convincersi che si può dominare se stessi e la situazione.
[…]
Il professore, come è diverso da quello che immaginavamo. Ho avuto torto di essergli ostile nei mesi passati. Ha un’aria buona. Ha dovuto soffrire parecchio. Che cosa gli potremmo offrire per testimoniargli la nostra gratitudine? Quello che stamattina abbiamo ricevuto da lui ci accompagnerà per tutta la vita. […] In quei campi c’erano anche dei bambini. Se fossi stato uno di loro, come mi sarei comportato? Sarei stato vile? Io ho paura della morte. Spesso non riesco ad addormentarmi perché penso che, a diciotto anni, se non sono promosso, dovrò andare a battermi laggiù, in quelle risiere (del Vietnam), e morire lontano da quelli che mi hanno amato. […] Vorrei domandare perdono a Dio per tutti i crimini commessi dai tedeschi, ma come pregare quando stamattina il professore ha sconvolto tutto quello nel quale credevo? Ora non ho più nulla. Non sono mai stato così infelice.
Mi alzo. Indosso la divisa, infilo i guanti bianchi. Scendo le scale con precauzione, con gli stivali in mano.
Tutte le luci sono spente. La caserma dorme. Sono angosciato di trovarmi da solo a quest’ora nel cortile deserto.
Mi metto sull’attenti al centro del cortile, a qualche metro dal pennone della bandiera. Su di essa fisso i miei occhi. A voce bassa, con solennità mi faccio due promesse: quella di non studiare più il tedesco, quella di non compatire più me stesso.

(Charles Juliet, L’année de l’éveil, P.O.L, Paris 1989, pp. 101-114)
Traduzione di Mario Bertin