Ottobre 2021

In questa pagina:
Pensieri a voce alta: OCSE e stipendi: repetita iuvant? (Maddalena Gissi)
La parola di questo mese: Setting (Donato De Silvestri)
Con altro sguardo: Rinascere dai nostri mali (Daniele Mencarelli)
Scuola e società: IeFP: da Cenerentola a… (Elio Formosa)
Hombre vertical: “Ma questo mondo lo amiamo abbastanza?” (Emidio Pichelan)
La poesia dei luoghi
: Verde (Entrare in un bosco) (Gianni Gasparini)
Dibattito: Umanesimo, partecipazione e libertà(Donato De Silvestri)
Storia contemporanea: 1951 - L’anno dell’Europa (Paolo Acanfora)
Il canto delle donne afghane: Di sorella in sorella... un alito di gelsomino (Leonarda Tola)
Un anno con Pinocchio: La lingua di Collodi (Gianni Gasparini)
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PENSIERI A VOCE ALTA

OCSE e stipendi: repetita iuvant?

di Maddalena Gissi

Potrebbe risultare sconveniente riprodurre ad alta voce i pensieri suscitati dal rapporto OCSE 2021, puntuale ancora una volta nel sottolineare - mettendo nero su bianco le cifre - quanto sia marcata la differenza fra gli stipendi degli insegnanti italiani e quelli dei loro colleghi nel resto d’Europa. Un dato ampiamente noto, ma su cui vale comunque la pena richiamare l’attenzione, specie dei più distratti, o meno informati, inclini per questo ad una certa accondiscendenza verso i tanti luoghi comuni di cui si alimenta una parte della pubblica opinione non proprio benevola nei confronti di chi lavora nella scuola.
I rapporti dell’OCSE sono sempre e comunque una fonte preziosa da cui attingere, un osservatorio dal quale è difficile prescindere quando si ragiona seriamente di istruzione e formazione. Per questo sono rilanciati ogni volta con enfasi dai mezzi di informazione: ma nel caso delle retribuzioni degli insegnanti, a fare notizia non è tanto il dato in sé, quanto la ripetitività con la quale ad ogni uscita del rapporto ci viene riproposto. Un’attestazione lampante dei ritardi, della scarsa attenzione, della negligenza di cui è vittima da troppo tempo, nonostante il profluvio di proclami e belle parole, la dignità professionale del nostro corpo docente (ma il discorso va esteso anche agli altri profili operanti nel settore, dal personale ATA alla dirigenza scolastica).
Tutto ciò è anche il riflesso – come attestano ancora i dati del rapporto OCSE – del minor livello di attenzione e di investimento, rispetto ad altri, riservato ai settori della conoscenza dal nostro Paese, da tempo stabilmente sotto la media per quanto riguarda la quota di PIL spesa per scuola, università e ricerca. Le ingenti risorse del piano Next Generation EU offrono l’opportunità di un significativo cambio di rotta: quasi venti miliardi di euro, di cui oltre diciassette destinati alla scuola, rappresentano un budget senza precedenti, a buon diritto la si può definire un’occasione storica, banco di prova su cui misurare la capacità di resilienza, ossia di trasformare una crisi imprevista e violenta in un’opportunità di rilancio e di crescita.
Sappiamo bene, ed è necessario averne tutti piena consapevolezza, che quelle risorse costituiscono la base per uno straordinario intervento di sistema, attraverso il quale mettere fra l’altro al passo con i tempi, risolvendone annose criticità, strutture e infrastrutture della nostra rete scolastica. Ridisegnando nel segno dell’equità un quadro drammaticamente segnato da squilibri e disuguaglianze, rese ancor più evidenti dall’emergenza pandemica.
Se questa è la linea di orientamento di cui è doveroso tenere conto nel definire obiettivi e strategie attuative del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), non c’è dubbio che anche la questione retributiva meriti di essere finalmente assunta come una delle priorità cui mettere mano, non limitandosi semplicemente a declamarla a seconda delle circostanze e delle convenienze. Il rinnovo del contratto nazionale, a quasi tre anni dalla scadenza del precedente, diventa sotto questo aspetto un immediato ed eloquente banco di prova, così come lo diventeranno, necessariamente, le future leggi di bilancio, a partire dalla prossima.
Non ci sfugge la complessità di un tema che presenta innumerevoli risvolti e implicazioni. In generale è troppo limitata - ci dicono i dati OCSE - la differenza tra la retribuzione percepita a inizio carriera e quella in godimento alle soglie della pensione: chiediamo da tempo di farne oggetto di una riflessione seria, in quanto è un fattore che contribuisce a rendere meno attrattiva una professione con così poche opportunità di crescita e progressione professionale, che non a caso molti laureati disdegnano a favore di impieghi non solo più remunerativi ma soprattutto con maggiori prospettive. Si discute inoltre da anni, anzi da decenni, di come la retribuzione di chi lavora nella scuola possa e debba essere strutturata e articolata, muovendosi tra rigidità diventate in qualche misura elementi di garanzia, in assenza di una più generale e significativa rivalutazione, ed elementi di maggiore dinamicità per i quali si è sempre faticato a individuare soluzioni facilmente percorribili e sufficientemente condivise.
Ecco: l’unica via per sfuggire alla tentazione di un semplice sfogo, richiamata proprio in avvio di queste riflessioni, è quella di farne lo spunto per condurre su questi temi una riflessione approfondita, alla quale non ci si può sottrarre e senza la quale non si costruiscono proposte che possano ambire ad essere vincenti. Di fronte alla realtà descritta dall’OCSE è certamente più facile, ma del tutto sterile, gridare il proprio sdegno e tradurlo in un massimalismo di facile presa. Non è mai stato questo il nostro modo di ragionare e di agire, men che meno lo può essere in un momento che richiede a tutti un sovrappiù di intelligenza e di responsabilità.

LA PAROLA DI QUESTO MESE

Setting - Il terzo educatore

di Donato De Silvestri

Le Corbusier nel sottolineare l’importanza della nostra relazione con l’ambiente in cui viviamo arriva ad affermare che “La prima prova della nostra esistenza è che occupiamo uno spazio”(1). Bachelard ne parla in termini di poesia e “topografia del nostro essere intimo”(2) e Gennari afferma che lo spazio scolastico assume un ruolo attoriale, passando da oggetto a soggetto pedagogico(3).
In sintonia con quest’ultima affermazione, le Linee Pedagogiche per il sistema integrato zero-sei, che sono il più recente documento di indirizzo nel nostro sistema formativo, usano un’espressione che trovo bellissima, ossia definiscono il setting il terzo educatore e dicono letteralmente che “lo spazio parla”, un concetto già sviluppato da Eco nei suoi scritti sulla prossemica(4).
Nulla di più centrato: l’organizzazione dello spazio racconta il tipo di azione didattica che viene attuato.
Il termine set (setting) è mutuato dal mondo del teatro e del cinema e sta ad indicare l’ambientazione che si crea per la messa in scena. Ebbene, nella scuola assistiamo troppo spesso all’assurdo che ogni copione venga recitato nello stesso identico ambiente e che gli attori, ossia coloro che dovrebbero essere i veri protagonisti dell’azione didattica, siano bloccati, seduti, spesso nell’impossibilità di vedersi, di trasmettere sensazioni ed emozioni, relegati passivamente ad ascoltare ciò che invece dovrebbero recitare. Le Linee Pedagogiche sottolineano, come accennavo, l’importanza che l’ambiente sia progettato e continuamente ri-progettato avendo cura che garantisca: sicurezza e serenità, inclusività, flessibilità, gradevolezza, benessere, nonché adeguate dotazioni tecnologiche. La questione della sicurezza è diventata oggetto di grande attenzione nelle scuole di ogni ordine e grado, specie in questa stagione resa tanto problematica dalla pandemia, ma quanto ci si pone il problema di un ambiente inclusivo, flessibile e gradevole? Sono state fatte numerose ricerche sulla relazione tra architettura scolastica ed apprendimento, a partire dalla qualità degli spazi, dal tipo di arredi, dai colori, dalla loro flessibilità, nonché sul loro potenziale in termini di motivazione e incentivazione dell’apprendimento. Martin(5) , ad esempio, individua tre fondamentali categorie di docenti: imprisoned, simply confused e free. Alla prima apparterrebbero quegli insegnanti che non attribuiscono alcuna particolare attenzione all’ambiente ed alla sua organizzazione, la seconda comprenderebbe coloro che si rendono conto che qualcosa non funziona ma non sanno intravedere soluzioni idonee, mentre alla categoria dei free apparterebbero i docenti consapevoli dell’importanza di una corretta progettazione dello spazio educativo e che, conseguentemente, lo usano sapientemente per favorire l’apprendimento dei loro alunni.
Ciò premesso, vorrei soffermarmi soprattutto sul concetto di inclusività, chiarito al di là di ogni dubbio dall’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), che dovremmo assumere come guida non solo per gli alunni disabili, ma per tutti, perché in una scuola attenta e responsabile ogni alunno presenta bisogni educativi che non possono essere sacrificati alla logica omogeneizzante della “programmazione di classe”. È la personalizzazione di cui parlano tutti i documenti di fondo che regolamentano la scuola italiana. Ebbene l’ICF fa riferimento a due categorie: le barriere ed i facilitatori. Un ambiente, e qui vorrei allargare il significato del termine a quello più ampio di contesto educativo, è inclusivo se riduce, fino ad annullarle, le barriere e mette a disposizione delle facilitazioni che favoriscano una reale inclusione, ossia la possibilità per gli alunni di esprimere al meglio il proprio potenziale, garantendo il successo educativo, che, vale la pena sottolinearlo, i suddetti documenti pongono come l’obiettivo prioritario ed irrinunciabile della scuola.
Ora, la predisposizione del set è fondamentale per creare l’opportunità che le cose accadano. Il docente, che in un contesto didattico finalizzato a favorire il protagonismo attivo degli alunni, diventa scaffolder, ossia fa da impalcatura, dovrebbe quindi gestire l’ambiente al meglio, rendendolo idoneo a promuovere esperienze diversificate, ad alternare diverse attività, che mettano effettivamente in gioco gli alunni, favorendo il sostegno reciproco (peer education e cooperative learning) ed attivando un potenziale troppo spesso assopito dal protagonismo assoluto di chi “fa lezione”.
Mi rendo conto, e sarebbe sciocco non tenerne conto, che spesso l’ambiente fisico non è per nulla flessibile e che i docenti, soprattutto nello spezzatino degli interventi che caratterizza la secondaria vivono una scarsità di tempo che fa a cazzotti con la necessità di ri-organizzare sistematicamente il setting. A questo proposito ci sarebbe da dire qualcosa anche sui banchi con le ruote, su cui si è fatta tanta polemica e che presentano non pochi limiti, ma che avrebbero un enorme potenziale per favorire la ristrutturazione veloce degli spazi.
Mi limito qui ad un paio di esempi molto concreti di organizzazione dell’ambiente, anche quello più tradizionale.
La prima questione è legata ad un’attività imprescindibile: il lavoro di gruppo.
È un’opzione che dovrebbe essere attivata di frequente, se non sempre, anche alternandola velocemente a momenti di “lezione” ed a questo mi riferivo a proposito della dinamicità che potrebbero consentire i banchi con le ruote. In loro assenza, basterebbe addestrare gli alunni ad effettuare gli spostamenti nel modo più funzionale, veloce e soft possibile. All’università, dove mi capita di lavorare in aule con file di banchi avvitati per terra, ottengo semplicemente un cambiamento di setting chiedendo a gruppi di quattro studenti di girarsi per lavorare con i quattro dietro.
Se poi volessimo dare vita ad attività di discussione guidata, fondamentale per lo sviluppo del pensiero argomentativo(6), perché non “perdere” pochi minuti per spostare tutti i banchi in fondo all’aula e creare l’opportunità di guardarsi in faccia ed interagire senza ostacoli fisici che impediscano una completa reciprocità?
Infine, così come ricordano le citate Linee Pedagogiche, l’ambiente d’apprendimento dovrebbe poter contare su adeguate dotazioni strumentali, come la possibilità di tirare fuori non solo quella tradizionale, fatta di penne, libri e quaderni, ma anche notebook e tablet dotati di una veloce connessione ad Internet. Ciò faciliterebbe notevolmente l’organizzazione di un approccio EAS(7) (Episodi di apprendimento situati) o Flipped Classroom. Immagino già le obiezioni legate alla penuria tecnologica di molte nostre scuole. Ma perché non fare proprio l’approccio BYOND (Bring Your Own Device), caldeggiato anche dalle linee guida ministeriali per la Didattica Digitale Integrata dell’agosto 2020? Lo smartphone, che è un computer a tutti gli effetti, potrebbe trasformarsi da odioso babau in eccezionale risorsa: provare per credere.
Mi rassicura la consapevolezza che i docenti italiani hanno sicuramente una marcia in più nella creatività e nel saper arrangiarsi, cambiando i limiti in risorse. Possiamo farlo anche per il setting, riconoscendone il potenziale e trasformandolo in un prezioso alleato. Il terzo educatore è lì pronto a darci una preziosa mano: sta a noi saperne approfittare.

(1) Le Corbusier, Maniera di pensare l’urbanistica, (tr. it.), Laterza, Bari, 1965
(2) G. Bachelard, La poetica dello spazio, (tr. it.), Dedalo, Bari, 1975.
(3) M. Gennari, Pedagogia degli ambienti educativi, Armando Editore, Roma, 1997
(4) U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968.
(5) S.H. Martin, (2002) ‘The classroom environment and its effects on the practice of teachers’, Journal of Environmental Psychology 22: 139-156.
(6) M.Marttunen, L. Laurinen, L. Litosseliti e K. Lund (2005), Argumentation skills as prerequisites for collaborative learning among Finnish, French, and English secondary school students. «Educational Research and Evaluation», vol. 11, n.4, pp. 365-384.
(7) P.C. Rivoltella (2018a), Didattica inclusiva con gli EAS, Brescia, Editrice La Scuola.

CON ALTRO SGUARDO

Rinascere dai nostri mali.

di Daniele Mencarelli

Se guardiamo alla storia della nostra civiltà, ogni periodo di crisi, che fosse scatenata da una guerra o da un’epidemia o da altra funesta calamità, ha cagionato un cambiamento radicale nella società in essere. Cambiamento non sempre in positivo, anzi. Spesso il male è stato premessa di male ancora più grande. Basta volgere lo sguardo al Novecento, alle due guerre che lo hanno massacrato, per rendersi conto di questo. Ma non è andata sempre così, per fortuna, spesso l’uomo è riuscito a invertire la rotta e a rovesciare il male in bene, traendo dai suoi errori la premessa per una crescita, un risanamento, un periodo di rinascita dalle ceneri del male. La crisi come occasione, di rifondazione, slancio nuovo, entusiasmo.
In questo deve tramutarsi l’epidemia di Covid19 per il nostro Paese. Ora che finalmente si vede una possibile e definitiva conclusione di questa emergenza globale mai sperimentata prima nella storia dell’uomo.
A differenza di altre nazioni, che avevano prima della pandemia una stabilità economica e sociale ben più rassicurante della nostra, per noi questo periodo deve trasformarsi in uno scatto storico, e non possiamo permetterci di fallire.
Ma per arrivare a un traguardo così importante si deve avere il coraggio di scommettere. Su una visione che sia tale, su un cambiamento che ci affranchi da questo stato di appena sopravvivenza.
Il popolo italiano è senz’altro in grado di farsi portatore di un forte cambiamento. Questo Popolo, nei mesi che ci siamo lasciati alle spalle, semplicemente terribili, ha dimostrato di avere risorse enormi, merita di meglio: trasformarsi in un paese che sia espressione della sua maturità, della sua voglia di stabilità e benessere.
Non facciamo passare questo momento come niente fosse, tramutiamo il male in bene. Scommettiamo su una visione nuova.
A partire dalla burocrazia, quell’inesorabile processo che invecchia idee e progetti ancora prima che vedano la luce, che appesantisce sino allo sfinimento rendendo la vita di tutti una corsa ad ostacoli, una prova di resistenza.
Ripensare al nostro regime fiscale, una rivoluzione vera e propria, l’introduzione di strumenti e figure nuove, una semplificazione che permetta a imprese e cittadini di riappropriarsi di quel sentimento che dovrebbe rendere, se non piacevole, almeno accettabile il nostro esborso nelle tasche dello Stato.
Da sud a nord, investire su un piano che guardi a 360 gradi le nostre infrastrutture, coinvolgere industrie, imprese, amministrazioni locali, risolvere una volta per tutte il problema atavico delle competenze, uno dei mali più incancreniti del nostro Paese.
Investire con passione nella cultura, rilanciare il turismo correggendo i tanti errori del passato, fare del nostro sistema sanitario un fiore all’occhiello, non dimenticando il mondo dell’istruzione, la trasmissione del sapere resta uno degli obiettivi principali di ogni civiltà evoluta.
L’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Ma, per prima cosa, andrebbe rinnovata la nostra classe politica, perché è attraverso di essa che diventa possibile tutto il resto.
Il semestre bianco, la figura carismatica di Mario Draghi, i numeri positivi di questi ultimi mesi, tutti questi elementi hanno cristallizzato il problema, ma non lo hanno risolto.
Le tante discussioni di un dibattito politico che affolla sempre più la straripante vetrina dei media vedono calcare la scena figure raramente al livello delle aspettative e ci fanno desiderare il ritorno di una politica come vocazione, che non insegue gli istinti peggiori delle persone, che ha il coraggio di essere impopolare.
Una classe politica all’altezza, insomma, è quello che ci manca ormai da decenni.

SCUOLA E SOCIETÀ

IeFP: da Cenerentola a…

di Elio Formosa

Foto di MustangJoe da Pixabay

Le risorse destinate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza alle componenti della “missione Istruzione e ricerca” ammontano a 30,88 miliardi di euro. Nulla è stato destinato alla Istruzione e Formazione Professionale (IeFP), sebbene l’Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche abbia diffuso in rete la notizia che “con la formazione professionale 7 allievi su 10 trovano lavoro a 3 anni dal diploma”. Il tasso di coerenza all’occupazione rispetto al percorso formativo, sia triennale che quadriennale, è elevatissimo. Anche il percorso IFTS (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore) successivo al diploma professionale, quello quadriennale per intenderci, fa registrare un tasso di occupazione del 64% nell’arco di soli 2 anni dal conseguimento del titolo.
Qualcuno, immaginiamo, sosterrà che il comunicato dell’INAPP sia giunto fuori tempo massimo, ad assegnazione delle risorse già compiuta e chiusa, anche se a testimoniare degli esiti occupazionali della IeFP non è stato il suddetto comunicato del 1° settembre, ma la sua stessa storia. Il dato fornitoci dall’INAPP è ancora più significativo se raffrontato con i disastrosi esiti sull’occupazione che la pandemia in corso ha prodotto.
Il mondo del lavoro ha pagato e sta ancora pagando un altissimo prezzo alla crisi epidemiologica. Ha perso in due anni oltre un milione e duecentomila posti di lavoro, una media di oltre 1800 per ogni giorno lavorativo. Secondo il documento ISTAT sul mercato del lavoro, pubblicato lo scorso 13 settembre, solo una parte dei posti di lavoro persi è stata recuperata. Un vero disastro! Ancora più allarmante se si pensa che il recupero ha riguardato soprattutto il lavoro a tempo determinato.
Per semplificare, è possibile sostenere che il sistema dell’Istruzione e della formazione professionale (IeFP) genera occupazione, coerente e stabile, sebbene il mercato, pur in forte ripresa, non riesca a riassorbire i posti di lavoro persi durante la pandemia.
La ragione di un tale fenomeno, secondo il presidente dell’INAPP, il prof. Sebastiano Fedda, sta nel solido legame che unisce la formazione professionale e il lavoro. Questo legame fa sì che il mondo imprenditoriale guardi con grande attenzione a questi percorsi che costituiscono un bacino di reclutamento delle professionalità tecniche di livello iniziale e intermedio. È un vero peccato di omissione che nel PNRR non si dica nulla o quasi su un legame storico e ben consolidato che ha dato e sta dando grandi risultati sul versante dell’occupazione giovanile. Eppure solo qualche anno fa i risultati occupazionali tra i giovani che avevano frequentato i percorsi di IeFP erano di gran lunga migliori. Sappiamo che oltre il 60% di quei giovani, in uscita dai percorsi formativi, trovava una stabile occupazione a poco più di sei mesi dalla qualifica e dal diploma. Anche allora, come adesso, la questione legata all’occupazione giovanile, al di là dei ricorrenti dati sui Neet e sull’abbandono scolastico, non ha sollecitato alcuna politica di respiro nazionale. Insomma l’impresa guarda con grande interesse e attenzione alla IeFP, ma non la politica, sia nazionale che locale.
Sembra che l’IeFP non appartenga al patrimonio della nazione.
Poco la si tollera nell’ambito dell’istruzione professionale, tanto che sui ragazzi che la frequentano sono riversate, a fatica e spesso a stento, risorse di gran lunga inferiori a quelle destinate ai coetanei che frequentano i percorsi di istruzione professionale negli istituti statali. Perché? È probabile che entrino in campo le logiche divisive e ostative sulla contrapposizione dei sistemi di istruzione professionalizzanti, uno nazionale, l’altro regionale, il primo statale, l’altro privato o sulla struttura stessa del sistema di IeFP.
Le Regioni hanno elaborato e pubblicato qualche anno addietro un’approfondita analisi sui rapporti che il sistema di IeFP mantiene con il Governo e con lo stesso sistema di Istruzione Tecnica e Professionale, formulando al contempo una articolata proposta riformatrice. L’IeFP, hanno sostenuto, non può più essere un sistema incompiuto, frammentato, sbilanciato e con una precaria sostenibilità economica. Il fatto che il sistema di IeFP, hanno sostenuto, rientri nell’ambito della competenza esclusiva regionale, non esclude un livello di governance condiviso con lo Stato al fine di rendere fruibile su tutto il territorio nazionale l’offerta formativa a garanzia dei diritti civili e sociali di tutti i cittadini. Il PNRR è l’ennesima occasione perduta. A farne le spese sono i più deboli e più bisognosi, sono i ragazzi. Il risultato occupazionale certificato dall’INAPP è stato raggiunto sebbene le risorse statali destinate al settore siano in costante riduzione tanto da costringere le amministrazioni regionali a promuovere l’IeFP presso gli Istituti Professionali anche a partire dalla considerazione del fatto che tali percorsi sono sostanzialmente a carico del bilancio statale. Una soluzione di ripiego che certo non ha bisogno di ulteriori approfondimenti.
Visti i risultati certificati dall’INAPP, stante la posizione espressa dalle regioni e qui riportata solo in minima parte, stante la poca attenzione del Governo, non trova alcuna giustificazione il fatto che non vi siano nei confronti della Formazione Professionale un interesse ed un’attenzione proporzionate ai risultati che ha conseguito in passato e consegue tuttora sul versante occupazionale e su quello, non meno importante, del recupero dei giovani alla cittadinanza attiva.
Il merito di questi risultati che, non è certo facile mantenere, appartiene soprattutto ai quei soggetti che, pur con risorse inadeguate ed un CCNL fermo da 10 anni, hanno profuso nel settore attenzioni e professionalità crescente. Forse è questo l’alibi che sostiene, ma non giustifica, l’ennesima distrazione dei nostri "attenti" politici.

HOMBRE VERTICAL

Dopo la lettura delle pagine dedicate alla scuola nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza Emidio Pichelan ci scriveva di aver trovato parole antiche ma ancora valide come tempo pieno, miglioramento dei processi di reclutamento e di formazione degli insegnanti, ma anche altre relativamente nuove tipo Servizio Civile Obbligatorio quasi un nuovo rito di passaggio a una vita adulta solidaristica e responsabile. “Avrei dovuto emozionarmi e l’ho fatto” ci scriveva. Ma aggiungeva: “E tuttavia…”. Il testo è una lettera indirizzata a una sua ex allieva, ma con il pensiero rivolto anche a tutti gli altri attori di una forte importante esperienza scolastica degli anni 70-80. (G.C.)

“Ma questo mondo lo amiamo abbastanza?”

di Emidio Pichelan

Foto di Poky Chen da Pixabay

Cara Marta,
hai un nome impegnativo, lo sai? Lo sai di sicuro; allora, quand’eri piccola, prima e anche dopo gli anni della “nostra” scuola (1), frequentavi il catechismo, la messa e i vespri domenicali. E, dunque, sai bene che Marta e la sorella Maria e il fratello Lazzaro vivevano a Betania, a due passi da Gerusalemme. Una famiglia amica del Maestro di Nazareth. Le due sorelle erano diverse: l’una, Marta, si dedicava all’accoglienza degli ospiti mentre Maria preferiva accoccolarsi ai piedi del Maestro e nutrirsi delle sue parole. Dopo infinite diatribe sulla supremazia dell’azione e/o della contemplazione/meditazione – detto altrimenti: della supremazia degli ordini contemplativi su quelli pastorali o viceversa – si è convenuto su una loro evidente complementarietà: per essere feconde e utili a sé e agli altri, l’azione e la riflessione hanno bisogno l’una dell’altra.
Scrivo a te come a Luca, Patrizia, Gabriele, Consuelo, Lucio, Martina, Fabrizio …, ai tanti che hanno frequentato quella “nostra” realtà ed esperienza formativa più che particolare. Lo hai detto e ripetuto: non fosse stato per quella scuola pubblica, accogliente e rispettosa della personalità e delle storie individuali – sempre e ovunque uniche e irripetibili – non saresti diventata quella che sei: una accademica di Matematica a Leiden, in Olanda.
È stata un dono quel decennio di autentica euforia. E pura euforia mi è capitato di ri-vivere quando, ormai quattro anni fa, abbiamo avuto (ricordi? è stato un lavoro collettivo) il coraggio e la pazienza di rendere conto di quell’esperienza. Un dono rimasto intatto.
Tanti anni sono passati da allora, la vita si è srotolata tra alti e bassi, speranze e delusioni. Ora siamo tutti finiti nella spirale di un virus astuto – che abbia deciso di piantare le tende tra noi in pianta stabile? – si è portato via un comune amico di quella scuola, il prof di Francese Nando Bertotti, e io sono rimasto senza la presenza a cui confidare pensieri e dubbi e interrogativi. Ma quel dono rimane lì, presente e luminoso, gratificante e fecondo. Un dono, appunto, merito anche vostro. L’insegnamento è stato, ed è, un gran dono.
Da poco ha compiuto cento anni Edgard Morin, un maestro vero, capace di attraversare da cittadino cosciente e responsabile e da studioso dalla curiosità sconfinata, capace di rimanere in tensione per un secolo intero: frenetico, ricco di tornanti e di svolte. Soprattutto, capace di raccontare – in libri, saggi, conferenze, relazioni – una storia straordinaria: della sua famiglia e del mondo, della realtà e del fascino del sapere. Al centro di tanta fervida attività ha collocato sempre la scuola e il dovere dei sistemi formativi di tenere uniti i saperi in modo da educare alla complessità e all’era planetaria: “sebbene quasi nessuno ne abbia ancora coscienza”, ha affermato in una delle ultime interviste concesse, “non si è mai avuta una causa così grande, così nobile, così necessaria alla causa dell’umanità per sopravvivere, vivere e umanizzarsi”.
Dello stesso parere Hannah Arendt: “l’educazione è il punto in cui si decide se amiamo abbastanza il mondo per assumere le responsabilità, anzi per salvarlo dalla rovina”.

Cara Marta, il virus ha colpito la tua comunità come la nostra. Un nemico invisibile, implacabile, si è insediato nel corpo dell’uomo, escogita e trova varianti sempre più fatali. Così, dirla tutta, mi capita di entrare in contrasto con me stesso. Come stavolta, se penso ai nostri ragazzi in formazione. Chiunque viva la professione dell’insegnamento come un dono non può non pensare a loro, ai ragazzi per i quali, scriveva il maestro degli umani maestri tanti e tanti secoli fa, “la cosa giusta è averne cura perché crescano nel mondo migliore possibile” (Socrate). Non so da voi, ma da noi i nostri peccati di omissione, di promesse non mantenute, di codardia, di irresponsabilità sono imperdonabili.
L’aggravante specifico del nostro Paese, cara Marta, è che l’uragano Covid si è abbattuto, imprevisto e funesto, su un Paese in coma, da decenni incapace di progredire.
La crisi”, scrive il governo Draghi in apertura del PNRR, presentato e approvato dal Parlamento (e inviato a Bruxelles), “si è abbattuto su un Paese già fragile dal punto di vista economico, sociale e ambientale. Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9%. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’andamento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6%. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2%, mentre in Francia e in Germania è aumentata rispettivamente del 21,2 e del 21,3%. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessiva di un’economia, è diminuita del 6,2% tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo”.

Cara Marta, sei una statistica by training, ti muovi a tuo agio tra i numeri. Impietosi. Le tante tabelle europee e OCSE ci vedono – spesso, vergognosamente – inchiodati nelle posizioni più basse. Gli estensori del PNRR sono economisti; non sono medici né fisici ai quali chiedere spiegazioni razionali: in una situazione di emergenze (medico-sanitaria e socio-economica) e di un incremento pauroso e socialmente devastante delle disuguaglianze è già molto se indicano obiettivi e strumenti (e, ovviamente, risorse) per risorgere. Cambiare paradigma, invertire la rotta. È proprio quello che mi è capitato nel leggere gli obiettivi e le azioni elencate nella Missione 4, “Istruzione e ricerca”, dove si elenca quello che ci si propone di fare per invertire la rotta: più servizi ai bimbi e ai giovani in formazione – a iniziare dagli asili-nido –, estensione del tempo pieno, “miglioramento dei processi di reclutamento e di formazione degli insegnanti”, introduzione del servizio civile universale …

Cara Marta, mi fermo qui, le azioni proposte sono di più. Lo ammetto: leggere di estensione del tempo pieno e di introduzione del servizio civile universale obbligatorio e di nuovi processi di reclutamento e aggiornamento del personale mi ha spalancato il cuore. Alla mia età bisogna stare attenti alle emozioni forti. Per di più, a differenza degli anni Settanta – me ne rendo ben conto, ere geologiche fa; ma è la “nostra” storia, di là veniamo, di là vengono insegnamenti e suggestioni e dibattiti tutt’altro che archiviati – non ci si può nemmeno rifugiare nella formuletta delle “nozze coi fichi secchi”, a proposito di riforme e cambiamenti e obiettivi (allora) proposti, quasi sempre rigorosamente “a costo zero”. Oggi le risorse ci sono, molto più consistenti di quelle del mitico Piano Marshall.

Cara Marta, com’è allora che parole tanto care, evocative di energia e passione e creatività e fantasia e ben-essere e di protagonismo di adulti e ragazzi non mi entusiasmano più di tanto? Per essere più precisi, mi sento come il saggio don Antonio Machado:

Como un perro olvidado que no tiene
huella ni olfato (…), como
el niño que en la noche de una fiesta
se pierde entre el gentío (...)
así voy yo, borracho melancólico,
guitarrista lunático, poeta,
y pobre hombre en sueños,
siempre buscando a Dios entre la niebla.

(come un cane privo / di traccia e di olfatto... come / un bambino che nella notte di una festa / si perde tra la folla / così son io, ubriaco melanconico, / chitarrista lunatico, poeta, / e pover’uomo trasognato, / sempre cercando Dio tra le nuvole) (2).

Tu, Marta e Luca, Patrizia e Gabriele, Martina e Lucio, Consuelo, sapete bene che cosa voleva dire “tempo pieno”, meglio ancora e più precisamente, sperimentazione del tempo pieno. Si traduceva in stare bene a scuola, voi ragazzi e noi adulti: secondo The How of Happiness: a scientific approach to getting the life you want di Sonja Lyubormisky, docente di Psicologia dell’Università di Riverside California, la felicità dipende per il 50% dalla genetica (per dire: c’è chi nasce più contento di altri) e per il 40% da noi. E noi, allora, in quei dieci anni di quotidiane sorprese e di cura e di passione e di scoperta abbiamo tutti molto appreso, emozionandoci. Noi e voi, formatori e formandi, docenti e discenti.
Ecco perché mi sento un ubriaco melanconico: i termini di cui sopra sono stati scritti, forse, con visione ed entusiasmo, ma – a quanto è dato di vedere finora – non hanno cambiato lo stato politico delle cose. Tanto meno l’agenda politica dei partiti e della società civile: il governo continua a governare le emergenze e a preparare i piani per il Recovery, i partiti non si schiodano dalle problematiche identitarie e di consenso, in una schermaglia verbale tanto stucchevole quanto infruttuosa. Nella speranza – tacita – che lo scompiglio passi e tutto torni come prima?
Ma è meglio che ce lo diciamo subito: improbabile e, comunque, suicida immaginare di tornare allo status quo di prima. I dati citati e le parole di Edgard Morin ci dicono chiaramente che, anche prima dello scompiglio, non eravamo messi bene, né come sistema economico né come sistema formativo, e che l’emergenza pianeta non è l’ultimo ritrovato dei “poteri forti” per spaventare e soggiogare i poveri mortali. Lo ha scritto nero su bianco anche Papa Francesco in “Fratelli tutti”.

Nulla due volte accade
né accadrà. Per tale ragione
si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione

(W. Szymborska, Nulla due volte)

Per tornare a dove abbiamo iniziato, è ora di coniugare al meglio Marta e Maria, la teoria e la prassi, il pensiero e l’azione. In piena libertà. Perché il compito urgente e ineludibile è di salvare e umanizzare il pianeta e, va da sé, l’umana esistenza (E. Morin), ed è qui che la scuola non può che essere rimessa al centro della politica. Perché, come già ricordato, “l’educazione è il punto in cui si decide se amiamo abbastanza il mondo per assumere le responsabilità, anzi per salvarlo dalla rovina” (H. Arendt).
Come ci esorta, sommessamente ma senza sconti, l’ultima fatica di Luigina Mortari, della quale ci permettiamo una citazione lunga, chiara:
Si può vivere la vita così come accade, là dove gli eventi ci portano, oppure viverla in una formula cristallizzata che ci libera dal lavoro faticoso di pensare a quello che si ha da fare, o viverla tenendosi fedeli alla tensione a realizzare una verità. Per avvicinarci alla verità – possederla per intero non è possibile – è necessario innanzitutto sottrarsi alla tendenza a pensar secondo formule già date e, invece, dedicarsi con la fatica del pensare da sé alla ricerca di ciò che sta nell’orizzonte del bene secondo libertà, cioè senza essere sottoposti a vincoli”(3).
Un testo che ci invita ad affrontare la realtà e “fare quel che si ha da fare” con spirito che esige tensione alla verità, ci impegna a sottrarsi alle formule già date, e ci chiede invece la fatica del pensare. Insomma, sperimentare e provare e battere sentieri sconosciuti. Non dare (quasi) niente per scontato.
Bisognerà tornarci sopra: la posta in gioco è definitiva, non ammette timidezze.

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(1) Emidio Pichelan, Scusate il disturbo. La sperimentazione di integrazione scolastica, Scuola Media Statale Giacomo Leopardi, Pontelongo, Padova 1972-1982, Overview editore, 2017.
(2) Don Antonio Machado, Poesías Completas, LXXVII.
(3) Luigina Mortari, La politica della cura. Prendere a cuore la vita, Raffaello Cortina Editore, 2021, pag. 157.

LA POESIA DEI LUOGHI

Verde (Entrare in un bosco)

di Gianni Gasparini

Il verde è un colore attrattivo, potente, che ha appassionato poeti, pittori e artisti, e non solo per l’evidente nesso con la natura, il risveglio della vegetazione, la primavera.
Una celebre lirica di Federico García Lorca di un secolo fa, Romance sonnambulo (Primo Romancero Gitano, 1924), inizia con il verso-refrain Verde que te quiero verde, pressoché intraducibile in termini sensati (“Verde che ti voglio verde”). Successivamente il verde investe il vento, i rami, la barca sul mare e il cavallo in montagna; e poi la donna che sogna alla balaustrata e che viene evocata con “verde carne, verde chioma”. Verso la fine della lirica anche le alte balaustrate a cui si affacciano due compari diventeranno verdi. È un’apoteosi di verde che fa da sfondo alla storia di gitani che intanto il poeta racconta e che forse evoca indirettamente il verde della terra.
Ed è proprio al verde della natura che vorrei dedicare questa breve prosa: più precisamente, al verde di un bosco in cui si sia deciso di entrare. Penso specialmente a una situazione intermedia tra estate e autunno, quando i fiori in montagna sono pressoché assenti e si possono verificare condizioni ideali per far risaltare il verde naturale.
È allora che può capitare di sentirsi immersi in un verde così penetrante da desiderare che vi sia un termine esplicito per dirlo: verdezza forse, o verdità. E si scommette, o meglio si comprende che non è possibile che esista sulla terra un verde più pieno, più integro e integrale, più verde di questo da cui ci troviamo circondati ora. Così pure, si intuisce la difficoltà di rappresentare con i colori le gamme di verdi presenti: per quanto possa sembrare paradossale, meglio rinunciare ad immagini colorate, a vantaggio di descrizioni verbali. La parola ha una potenza allusiva che, se bene impiegata, riesce talora a superare la rappresentazione effettiva di un oggetto attraverso la sua immagine.
In ogni caso, non si riesce a distinguere il prima e il dopo di questo verde avvolgente e continuo: fili d’erba, felci di varie fogge, steli di fiori appassiti, foglie, rami, arbusti, alberi sempreverdi e piante di latifoglie. È un tutt’uno che si comunica nel bosco a chi sfiori una traccia di sentiero o percorra un breve itinerario, magari attraversando d’un balzo un ruscello. C’è il verde delle foglie e delle erbe, degli alberi e dei polloni, dei muschi umidi e di quelli asciutti. Tutto è verde, e ci sono verdi diversi tra loro che si accostano gradevolmente: ogni arbusto, ogni pianta, ogni erba persino esprime un verde differente che si integra con tutto il resto. Il verde è dappertutto, senza escludere le acque ruscellanti che intersecano la foresta umida e ne sono quasi assorbite, emanando e rimandando riflessi verdi.
Il silenzio stesso sembra acuire la sensazione del verde, così come la esalta l’assenza di moto delle fronde nei casi in cui non spira neppure un alito di vento. Il silenzio aiuta a concentrarsi sulla visione del verde che domina nella foresta. Viene da chiedersi, al limite, se il verde abbia un proprio suono, o una possibilità di essere percepito in senso auditivo, magari attraverso un’esperienza di sinestesia. Ho presente un bosco di una verdezza avvolgente e completamente silenziosa, quando sembra che sia il silenzio stesso a costituirne il paesaggio sonoro, interrotto da quasi impercettibili mormorii e brusii d’acqua.
Incedo ora nella foresta guardingo, quasi come se dovessi difendermi da qualche pericolo, un animale forse. In realtà constato di non aver timore d’incontri sgradevoli: sto procedendo trepidante perché tengo in modo tutto particolare a questo silenzio totalizzante e non desidero sciupare l’aura di mistero e di creatività che lo circonda.
Ecco. Questo è un silenzio verde: una verdità silente da attraversare con occhi mobili, in punta di piedi e trattenendo il respiro.

DIBATTITO

Nel precedente numero della nostra Agenda mese abbiamo pubblicato in questa rubrica un importante contributo di Marco Gatto per approfondire e discutere i temi delicati e complessi che quel breve saggio poneva. Il primo intervento che ci è giunto è di Donato De Silvestri. Il confronto continua.

Umanesimo, partecipazione e libertà

di Donato De Silvestri

Foto di StockSnap da Pixabay

Ho trovato molto stimolante l’intervento di Marco Gatto che ci fa riflettere sull’importanza che la scuola, ed io aggiungerei in generale la formazione, si facciano promotrici di un nuovo umanesimo. È anche una delle più belle suggestioni che fanno da cornice alle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo(1): trovare una nuova sintesi in cui si fondano assieme la cultura umanistica, con quella scientifica, con l’espressione artistica, con la centralità dell’emozione e della relazione. Vi si dice che bisogna “insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza – l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia – in una prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme”; a cogliere gli aspetti essenziali dei problemi; a comprendere le implicazioni, per la condizione umana; a saper valutare i limiti e le possibilità delle conoscenze; a vivere ed agire in un mondo in continuo cambiamento. Vi si sostiene che i grandi problemi della condizione umana (il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca di una nuova qualità della vita) possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le culture.
Ma si pratica tutto questo?
Da un lato la società lancia continui pressanti richiami alla scuola per promuovere la formazione nelle STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e nell’indirizzare gli studenti verso lauree che non si traducano in scontata disoccupazione, e dall’altro, anche se si registrano segnali di cambiamento, gli studenti che prediligono corsi di laurea scientifici sono in netta minoranza e nel 2021 la scelta della secondaria di secondo grado vede al primo posto i licei, con il 58%, seguiti dal 30% degli istituti tecnici e dal 12% dei professionali.
Ciò evidenzia che la scuola italiana risente ancora vistosamente del preconcetto che il sapere di serie A e la cultura con la C maiuscola coincidano con l’ambito umanistico, anche se ben altro è l’umanesimo richiamato da Gatto.
Io credo comunque che si debba evitare il fraintendimento per cui la centralità della competenza coinciderebbe con il primato del saper fare. Pensarlo sarebbe riduttivo e deviante.
Forse che il saper pensare, o il saper essere, o il saper vivere un’emozione non richiedano competenza? È lo stesso fraintendimento per cui a scuola spesso i laboratori vengono identificati con quello di informatica, o di ceramica, o di fisica. In realtà si possono fare laboratori di storia, di filosofia e di ogni altra disciplina, sia che si preveda un “fare” pratico che un “fare” che metta in gioco il pensiero, la fantasia, la teorizzazione, le emozioni o l’introspezione. Io ritengo che se non basta un fare fine a se stesso, sia parimenti necessario che l’astrazione ed il pensiero siano supportati dalla competenza.
Bene fa Marco Gatto a richiamare il rischio di una deriva efficentista, di un fare svincolato dal pensiero.
Non basta il “facendo si impara”, che faceva da slogan alle coniugazioni dell’attivismo che leggevamo da giovani insegnanti negli anni ’70. Semmai pensando e facendo si impara! Bisogna saper riflettere sull’agire ed ottimizzarne il senso. Gatto usa altre tre parole che considero…magiche: mediazione, relazione, inclusione.
Aggiungerei ad esse cura e partecipazione, una parola quest’ultima che sembra superata in un contesto sempre più narcisistico e che ha un’insensata voglia di poteri forti ed assoluti: Gaber, che sapeva leggere con il sorriso i vizi e le virtù della nostra società, vedeva in essa l’essenza stessa della libertà.

(1) Per un nuovo umanesimo, in Cultura Scuola Persona, Indicazioni Nazionali 2012

STORIA CONTEMPORANEA

Ogni mese, con interventi affidati allo storico Paolo Acanfora, si propone la rilettura di alcuni avvenimenti o temi della vita italiana e internazionale che si ritengono particolarmente rilevanti ai fini della comprensione della storia contemporanea.
Si tratta di una serie di contributi occasionati da anniversari le cui date sono individuate ripercorrendo,
con cadenza decennale, un vasto arco di tempo che parte dal 1901. In questo mese è la volta del 1951.

1951 - L’anno dell’Europa

di Paolo Acanfora

La costruzione dell’attuale Unione europea ha radici ancora molto recenti ed una storia piuttosto giovane. Sette decenni sono un tempo davvero ristretto per “misurare” e tanto più valutare la solidità di un processo complesso e difficile come quello dell’unificazione europea. Al tempo stesso però, è evidente che la tradizione europea ha invece tempi lunghi e radici lontanissime, talmente lontane da fare fatica a rintracciarne con precisione le origini. È una questione che ha molte peculiarità, come d’altronde si può evincere facilmente considerando la articolata struttura istituzionale dell’UE.
Se si vuole considerare con un minimo di attenzione il progetto europeo, non si può non partire da questo dato: l’UE non è sovrapponibile alla tradizione europea, nonostante si presenti con essa in totale identificazione. Ciò intanto per la banale considerazione che dentro l’Unione non vi sono tutti i paesi europei. Non c’è la Svizzera, che pure tanta importanza ha avuto nella storia moderna e contemporanea del continente (soprattutto sul versante dei diritti, delle libertà, della tolleranza); non c’è un paese scandinavo importante come la Norvegia (nonostante due tentativi di ingresso); non ci sono diversi paesi dell’area balcanica (che è una zona nevralgica della storia europea); non ci sono alcuni paesi orientali limitrofi alla Russia come, ad esempio, l’Ucraina (per ragioni di politica internazionale); non c’è più soprattutto un paese fondamentale quale la Gran Bretagna, dopo l’esito del referendum del 2016. Senza di essi la piena identificazione con la storia e la tradizione europea è quantomeno parziale.
In seconda battuta, la stessa nozione di tradizione europea apre a mille scenari, a numerose contraddizioni, ad un’infinità di particolarismi che ne sono al tempo stesso ricchezza e limite. Insomma, la storia del vecchio continente sedimentata nel corso dei secoli non è una storia unitaria. Quando si valuta l’operato dell’UE non dobbiamo perdere di vista questa complessa eredità che ci portiamo dietro e che ha reso quasi miracoloso l’avvio e, soprattutto, il progressivo consolidamento del processo di unificazione.
Avvio che ha, appunto, una data ed un contesto precisi. Il 18 aprile 1951 i governi di Francia, Italia, Repubblica federale tedesca, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo firmarono un trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Era il primo cruciale passo che andava a creare per la prima volta nella storia del continente un organismo sovranazionale. Non cioè una semplice forma di cooperazione internazionale tra i vari Stati ma una nuova forma di organizzazione fondata sul principio della cessione di sovranità da parte degli Stati membri. Ciò che era avvenuto era, cioè, una autolimitazione da parte dei tradizionali Stati nazionali, con la cessione della propria sovranità su un settore specifico a vantaggio di un’autorità sovranazionale che avesse, dunque, potere di decisione sui singoli Stati membri. L’idea era di costituire un primo nucleo di paesi europei che cominciassero a costruire un nuovo soggetto regionale capace di svolgere un ruolo attivo in un contesto internazionale – quello della Guerra fredda – dominato da due superpotenze extraeuropee: Stati Uniti e Unione sovietica (sebbene entrambe con non banali legami con l’Europa, la prima perché fondata da emigranti europei, la seconda perché potenza euroasiatica).
Le due drammatiche guerre mondiali avevano sancito in via definitiva la fine dell’egemonia europea. Con il continente spaccato a metà ed attraversato dalla cortina di ferro, le classi dirigenti dell’Europa occidentale si ponevano il problema di come stare dentro la coalizione atlantica, di quale ruolo avere sul piano internazionale. L’avvio del processo di unificazione è dunque da rintracciare nell’esigenza europea di rispondere alle nuove sfide mondiali, di trovare una propria collocazione e una nuova ragion d’essere pur dentro un’alleanza occidentale solida ed indiscussa.
Sin dall’inizio la grande questione che veniva posta concerneva l’unificazione politica. Le aspirazioni alla costruzione di una federazione di Stati si scontrava però con le profonde differenze di cultura, di sistema politico, di tradizione, di organizzazione sociale ed economica che caratterizzava i singoli paesi. Ma l’ostacolo maggiore era costituito da un senso di appartenenza nazionale forte e radicato tanto nelle masse quanto nelle classi dirigenti.
La strada intrapresa fu dunque di una graduale integrazione per settori (il cosiddetto metodo funzionalista). La scelta di iniziare dal carbone e dall’acciaio non è ovviamente frutto di casualità, né può definirsi marginale. Tutt’altro. La motivazione la troviamo nel discorso del 9 maggio 1950 tenuto dal ministro degli esteri francese Robert Schuman a cinque anni esatti dalla fine (in Europa) della seconda guerra mondiale. Il 9 maggio (non a caso giornata dell’Europa) Schuman si rivolgeva infatti agli europei, fino solo a qualche anno prima acerrimi nemici sui campi di battaglia, annunciando il progetto della Ceca ed affermando che la sola ed unica strada per ottenere una pace duratura era quella dell’unione. Cedere la propria sovranità ed affidare ad un’autorità sovranazionale il controllo dell’industria siderurgica – fondamentale per sostenere lo sforzo bellico – significava di fatto impedire il ripetersi di conflitti militari tra i paesi firmatari.
L’unione europea nasceva nel segno della pace. È un dato che non può essere trascurato. Ogni qualvolta si discute la bontà del progetto europeo – pur con tutte le sue contraddizioni, storture e difficoltà – non si può dimenticare che essa ha garantito tra i suoi Stati membri il più lungo tempo di pace nella storia del continente.

IL CANTO DELLE DONNE AFGHANE

Quasi un imperativo morale per l’Occidente farsi eco di quella parte del mondo femminile che in questo nostro tempo è scossa dai sussulti della paura e dal fremito della ribellione. Sono le donne di Kabul e di Herat, nate nelle città o nei territori periferici dell’Afghanistan che in questi giorni ri-vivono e ri-conoscono la minaccia luttuosa di un passato mai davvero passato. Sullo sfondo la storia martoriata di questo paese cuscinetto, che non rientra in nessuna classificazione geografica: non Asia meridionale, non Centrale o Medio Oriente sul quale si è abbattuta e alternata una giostra di guerre e occupazioni. Una popolazione allo stremo per le condizioni di miseria e di fame; un paese sfiorato dal terrorismo islamico e avvinghiato nelle spire del narcotraffico essendo l’Afghanistan il più importante produttore di oppio al mondo. Eppure in questo frastuono silenzioso in cui a fronteggiarsi sono vita e morte, luce e notte oscura, il canto delle donne torna a sillabare il desiderio sognando la vita.

Di sorella in sorella...
un alito di gelsomino

di Leonarda Tola

Foto di Zibik da Pixabay

Per capire l’Afghanistan e illuminare il presente di un paese di 38 milioni di esseri umani travolti da eventi drammatici è utile, crediamo, passare anche attraverso la letteratura e la poesia prodotta nelle lingue di quel popolo: il Dari (persiano afghano) e la lingua iranica Pashtu (Farsi). È la parola detta e scritta che, attingendo alla sorgente dell’interiorità, si fa voce dell’anima dando forma e bellezza a quanto accade e si agita fuori e dentro di noi. Tanto più se a dare espressione letteraria al vissuto individuale e sociale sono le donne di questo popolo tormentato, (più le donne che gli uomini) dando voce, più in generale, a una cultura che storicamente ha isolato e circoscritto la condizione femminile a stato di sudditanza, costrizione e segregazione.
Esiste una produzione letteraria afghana che fa capo alle donne.
A volte questa è incentrata sulla testimonianza e l’esperienza personale: voce autentica di una compromissione umana ed emozionale che racconta il tragico di vite strette da “Catene d’acciaio”. Altro filone sono i romanzi di scrittrici, afghane di origine che, dall’esilio, tornano a immaginare trame riprendendo le storie impresse nella memoria e nel cuore di madri e nonne, sorelle e figlie schiacciate sotto il piede dell’oppressione maschile.
Un particolare genere poetico della tradizione orale è costituito dai landay, brevi componimenti (due versi, un distico) in cui autrici anonime cantano la vita e il suo affanno sintetizzando in forma incisiva il dramma della solitudine, l’amore negato dalla crudeltà e dal predominio maschili, il sogno di liberazione.
Alla prima classificazione appartiene Nadia Anjuman, afghana e orgogliosa di esserlo, poetessa nata nel 1980 a Herat ‘Città dei poeti’ “negli anni più agghiaccianti della rivoluzione” quando il governo feroce dei Talebani ostacolava alle donne l’accesso agli studi, alla musica e alla poesia. Attratta fin da bambina dalla scrittura riuscì a curare la sua passione letteraria e a laurearsi. “L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia”.
Ebbe una vita breve poiché morì a 25 anni. Non suicida, come si volle far credere per assolvere dall’accusa fondata di omicidio il marito che non tollerava la pubblica esposizione a cui si era spinta Nadia attraverso la sua scrittura. Giusto il monito di Khaled Hosseini celebre scrittore nato a Kabul: “Imparalo adesso, imparalo bene, figlia mia. Come l'ago della bussola segna il nord, così il dito accusatore dell’uomo trova sempre una donna cui dare la colpa”.
Di lei resta ben poco; una raccolta è intitolata Gul-e-dodi (Fiore Rosso Scuro) in lingua Dari. Traduzione in italiano delle poesie in “Elegia per Nadia Anjuman”, C. Contilli, I. Scarpolo e M. Badhian (Edizioni Carte e Penne 2006).

Che cosa dovrei cantare?

Io, che sono odiata dalla vita.
Non c’è differenza fra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Io e la mia solitudine forzata.
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
Le mie labbra dovrebbero essere sigillate.
Oh, cuore mio, lo senti che è primavera
Ed è tempo di festa.
Cosa posso fare con un’ala intrappolata
Che mi impedisce di volare?

Nella poesia di Nadia Anjuman torna insistente il motivo della solitudine e della prigionia del silenzio a cui è condannata da un destino che condivide con altre donne sue contemporanee, anonime e sconosciute, sulle cui labbra è morto il sorriso.

…Sono stata zitta per troppo tempo,
Ma non ho dimenticato la melodia,
Poiché continuo a bisbigliare
Le canzoni nel profondo mio cuore,
Per ricordare a me stessa
Che un giorno distruggerò questa gabbia,
E volerò via dalla solitudine
E canterò, con la mia malinconia.
Io non sono come un debole pioppo
Che si piega al vento.
Io sono una donna afghana,
E questo è il mio lamento.

Immagine ricorrente nel suo canto malinconico e straziante è l’uccello che ha ali spezzate e l’impossibilità di volare; ma si fa voce urlata tra il lutto e le lacrime il desiderio di rompere la gabbia che rinchiude le “condottiere silenziose… senza voce in un angolo sperduto, piegate in due, / cariche di ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti”.
Nella trama sfilacciata della storia recente dell’Afghanistan fatta di guerre e di dolore, in questi giorni e sotto gli occhi del mondo, si riaprono vertiginosi buchi in cui sembra precipitare e sprofondare l’esile speranza coltivata nell’ultimo ventennio di un riscatto dall’oscurantismo e dall’ignoranza che incidono sulla condizione di un paese tra i più poveri del mondo. Per le giovani donne afghane che si sono affacciate al nuovo millennio nutrendo la speranza di un’emancipazione dal giogo talebano, oggi si agitano gli spettri della segregazione, il ritorno al nascondimento nella prigione del confino domestico e dentro il buio di mille burqa trafitti da mille occhi.

UN ANNO CON PINOCCHIO

La lingua di Collodi

di Gianni Gasparini

Mentre ci avviamo a concludere con le considerazioni che seguono il nostro Anno con Pinocchio, non possiamo trascurare qualche osservazione sulla lingua che Collodi ha usato per dare forma al suo racconto, in apparenza “una bambinata” come ebbe a scrivere a Ferdinando Martini, che lo incoraggiò molto a stendere il racconto per “Il Giornale per i bambini”, una nuova iniziativa editoriale di quegli anni che nel suo primo numero del 1881 pubblicò l’inizio delle Avventure di Pinocchio.
Collodi usa una lingua accessibile ai ragazzi – un italiano non privo di toscanismi – ma stimolante anche per i grandi. Direi: una lingua popolare corretta, fresca, attenta alla realtà concreta della vita quotidiana, dove non si rinuncia ad alludere ai grandi problemi di tutti i tempi e di tutte le latitudini, a partire da quello del rapporto tra genitori e figli e da quello della violenza e della menzogna.
Come è stato osservato e dimostrato da uno dei più acuti interpreti del racconto collodiano, Fernando Tempesti – che amava definirsi un “pinocchiologo” –, le Avventure di Pinocchio riprendono ed esprimono una allure e una cadenza teatrale (cfr. Pinocchio, a cura di F. Tempesti, Feltrinelli, Milano 1993). Si pensi ai continui colpi di scena (i coups de theatre dei francesi) che si susseguono da un capitolo all’altro dei trentasei che compongono il racconto; e anche all’importanza che il teatro esercita sia sullo sfondo della narrazione che direttamente in alcune sue parti. Pinocchio, poi, è un burattino o una marionetta del teatro: uno dei momenti di maggiore gratificazione che egli prova in un racconto dove sono continuamente presenti per lui pericoli, problemi e frustrazioni è quando nel Teatro dei Burattini di Mangiafoco ritrova i suoi “fratelli di legno”, come Arlecchino, Colombina e tutti gli altri. Con loro Pinocchio balla tutta la notte in una festa la cui gioiosità e autenticità non trova riscontro neppure nei lunghi mesi trascorsi nel Paese dei Balocchi. Sarà ancora in un teatro, stavolta non più come spettatore bensì come attore obbligato ad un ruolo coatto, che Pinocchio trasformato in ciuchino addestrato si esibirà e cadrà malamente, infortunandosi e subendo altre disavventure sgradevoli (Cap. XXXIII). Verrà venduto per ricavarne pelle di tamburo, ma gettato in acqua per essere affogato si salverà grazie all’intervento di una moltitudine di pesci inviati dalla Fata: mangiando la superficie della pelle asinina i pesci libereranno il burattino di legno e ne permetteranno la fuga in mare, a nuoto, prima che venga ingoiato dal terribile Pesce-cane (Cap. XXXIV).
E Mangiafoco, colui che ha fondato e regge il Teatro dei burattini, svolge un ruolo centrale, come si è già visto attraverso il dono incongruo degli zecchini d’oro a Pinocchio, che saranno fonte di pericoli e guai per buona parte del racconto.
Ci colpiscono ancora oggi le espressioni linguistiche di Collodi, anche se alcune vanno opportunamente chiarite e illustrate. Ci sono termini che non si usano quasi più ma sono tuttavia molto efficaci, come “balocchi” per giochi o giocattoli, “garbatezza” per gentilezza, o lo stesso “ciuchino” per asino; o parole che hanno cambiato significato, come “spedale” che non è il nostro ospedale ma un ospizio frutto di iniziativa privata dove di fatto andavano a morire le persone disagiate e marginali. Nel racconto sono presenti similitudini oggi non più parlanti ma che hanno alle spalle una storia di secoli: come quella “correre come un bàrbero”, già ricordata, che diremmo semmai “come un treno, come un razzo” o non si sa bene come nella società del Duemila. Ci sono poi espressioni che sono diventate comuni e paradigmatiche del linguaggio corrente: parlare come un libro stampato, mangiare la foglia, essere alto come un soldo di cacio, buon pro ti faccia, e molte altre. Quello che mi sembra innegabile è la creatività del linguaggio di Collodi, che ancora oggi può essere apprezzata maggiormente da un pubblico di lettori adulti più che di bambini e di ragazzi.
Le Avventure di Pinocchio ci invitano a tradurre le loro problematiche nel tessuto delle società contemporanee, non solo la nostra ma le altre che con essa convivono nel XXI secolo. Non è un caso che questo piccolo libro abbia ricevuto come nessuna altra opera rivolta a un pubblico giovanile non solo traduzioni negli idiomi del mondo intero ma anche una varietà incredibile di interpretazioni figurative: penso anzitutto alle illustrazioni che accompagnano il libro sin dalla sua prima pubblicazione, da Mazzanti a Chiostri, da Jacovitti a Bartolini e a molti altri ancora. E non si può trascurare tutta la produzione in termini di analisi e critica letteraria (ne testimonia il patrimonio conservato alla Fondazione Collodi di Collodi-Pescia, a lato del Parco di Pinocchio presente in loco da decenni), né sottovalutare l’importanza delle numerose versioni teatrali e cinematografiche che da oltre un secolo e fino ad oggi hanno ispirato il racconto collodiano.

Nei pezzi di Un anno con Pinocchio che si sono susseguiti su queste pagine mese per mese mi sono sforzato di offrire spunti insoliti per sottolineare il senso di creatività quasi inesauribile che proviene da questa fiaba. Essa trae la sua forza dall’essere archetipica, dall’affondare cioè negli strati profondi della psiche individuale, così come nelle istanze della vita sociale che si svolge in ogni collettività umana.
Si è parlato in queste puntate mensili di un Pinocchio che trasgredisce, che corre, che soffre, che aspira ad affetti profondi, che crede nel prossimo, che è capace di dono e di altro ancora. Se dovessi cercare una immagine sola per concludere questa storia che ho raccontato a margine di quella di Collodi, direi che penso a qualcuno che va, che è in movimento. Pinocchio, insomma, me lo figuro come una persona per via, tra burattino e bambino, tra passato e avvenire, tra il male che lo circonda come una siepe di rovi e il bene a cui aspira come una luce: il chiarore del sole calante intravisto tra i rami di un grande albero in fondo alla strada.