Aprile 2021

In questa pagina:
Cose da fare: Aprile, non c'è tempo per dormire (Maddalena Gissi)
Con altro sguardo: Le ferite del mondo (Daniele Mencarelli)
Storia contemporanea: 1911- Il giubileo della Patria (Paolo Acanfora)
Hombre vertical: Non è folklore, non è ingenuità (Emidio Pichelan)
La poesia dei luoghi: Rocca d'Orcia (Gianni Gasparini)
Letture: Sconfiggere il razzismo. Dialogo e azione (Leonarda Tola)
Sul filo del tempo: Aprile, sboccia una vita nuova (Mario Bertin)
Versante didattica: Zerosei: tante, belle, forse troppe, pillole (Donato De Silvestri)
Un anno con Pinocchio: Un poeta di nome Pinocchio (Gianni Gasparini)
Ricorrenze: Se così grande è il potere delle parole … (Emidio Pichelan)
In memoria: Enzo Spaltro. Ricordo per un Maestro (Aladino Tognon)
Scrivici, se vuoi, a redazione@cislscuola.it

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COSE DA FARE

Aprile, non c'è tempo per dormire

di Maddalena Gissi

Le cose da fare subito dopo Pasqua (a proposito: auguri per una festa così importante che per la seconda volta – sperabilmente ultima – celebreremo in lockdown!) le ha elencate il documento del nostro Esecutivo Nazionale, riunito mercoledì 24 marzo in modalità telematica, come purtroppo siamo ancora costretti a fare. La particolare condizione in cui ci costringe a operare l’ancora irrisolta crisi pandemica richiede una cura attenta nell’individuare, tra gli obiettivi di più lo meno lungo termine, un ordine di priorità.
Vediamoli, anzitutto, gli obiettivi. Ne sottolineo tre: riaprire le scuole a un’attività in presenza che tutti avvertiamo come necessità impellente; creare le condizioni perché si possa far partire a pieno regime il prossimo anno scolastico fin dal 1° settembre; rinnovare il contratto, scaduto nel 2018 e di cui l’anno in corso dovrebbe concludere il triennio di vigenza. Aggiungo due grandi temi, che in qualche modo fanno da cornice al terzo obiettivo (il rinnovo del contratto), e sono: il Patto per l’istruzione e la formazione, su cui il 16 marzo, dopo la sottoscrizione del Patto per l'innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, avvenuta pochi giorni prima, si è aperto il confronto fra il Ministro Patrizio Bianchi e le parti sociali; il PNRR (Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza nell’ambito del Next Generation EU), da cogliere come occasione irripetibile per affrontare e risolvere criticità di sistema rese più evidenti e aggravate dalla crisi, attingendo a investimenti che consentano di definire una strategia complessiva di rilancio del sistema di istruzione e formazione, riconoscendone il ruolo strategico per il presente e per il futuro del Paese.
Il confronto col Ministro dell’Istruzione dovrebbe concludersi, come da impegno condiviso dalle parti, entro la prima decade di aprile, mentre il 30 aprile è la data entro cui il PNRR dovrà essere presentato alla Commissione Europea. Tempi stretti, dunque, perché stringenti sono le urgenze, e per il cui rispetto siamo pronti a dare il nostro contributo.
Lo faremo come stiamo facendo su altri temi, con l’intelligenza, la concretezza e il buon senso necessari, non sempre rintracciabili nelle polemiche superficiali e strumentali di cui diventano troppo spesso oggetto, in questi giorni, i temi della scuola. Abbiamo diffuso pochi giorni or sono un nuovo dossier, incentrato sui temi dell'inclusione (Per una scuola inclusiva. Risorse, problemi, proposte), dopo che a dicembre avevamo presentato, con Rilanciare la scuola. Uno sguardo strategico, le proposte della CISL Scuola per un dopo pandemia che voglia essere di innovazione e di crescita.
Poiché il Governo, tra le attività da riavviare, ha messo al primo posto quelle scolastiche, puntando a una riapertura delle scuole subito dopo Pasqua, sarebbe quanto mai importante che il ritorno in classe fosse accompagnato dall’adozione delle misure di sicurezza necessarie, rendendo concretamente operative quelle azioni di tracciamento fin qui assenti e da cui non si può prescindere se si vuol mettere in atto un’efficace strategia di contrasto alla diffusione del contagio.
Per riaprire le scuole, è il caso di ripeterlo, non basta fissare una data: serve fare ciò che occorre per dare a tutti sufficienti garanzie di una frequenza in sicurezza delle attività scolastiche. Si discute da tempo su quale sia l’effettivo livello di esposizione al rischio di contagio connesso al loro svolgimento: peccato che le azioni di monitoraggio siano state fin qui, se non assenti, del tutto insufficienti e comunque mai adeguatamente pubblicizzate. L’enfasi posta dal Ministro Bianchi, fin dalle sue prime dichiarazioni, sull’importanza dei dati di conoscenza come presupposto per l’efficacia di ogni strategia di intervento lascia sperare che si possano rapidamente colmare, sotto questo aspetto, le enormi lacune ad oggi riscontrabili.
Sulle vaccinazioni, bene abbiamo fatto a lanciare, sin dai primi di gennaio, un segnale chiaro, e positivamente raccolto, perché si riconoscesse al personale della scuola una corsia preferenziale; pur tra le vicissitudini che in generale sta vivendo la campagna vaccinale, va fatto il possibile perché le operazioni procedano con la massima celerità e soprattutto siano gestite al meglio anche sotto il profilo di una attenta programmazione dei tempi: assolutamente da evitare, per esempio, che gli impegni del personale per gli esami di stato a giugno siano concomitanti con le convocazioni per la vaccinazione di richiamo.
Non mancheranno, come si vede, le cose da fare in questo mese, tanto da rendere affollatissima la nostra agenda e intenso il lavoro delle nostre strutture, già alle prese con la consulenza sulle graduatorie del personale ATA cui si aggiunge quella sulle operazioni di mobilità.

Aprile porta con sé, oltre alla celebrazione della Pasqua, una ricorrenza civile importante che ci rimanda alle fondamenta della nostra democrazia, la festa del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo avvenuta 76 anni or sono. Abbiamo voluto onorarla, questa ricorrenza, inserendo fra gli interventi di questo mese la presentazione di un bel libro di Luigi Lo Papa, “Antisemitismo. Dal pregiudizio all’odio razziale”, curata da Emidio Pichelan. Entrambi con un passato da dirigenti del sindacato scuola nella CISL, ritrovano nel presente la continuità di un impegno che incrocia a diverso titolo le tematiche sindacali. Siamo grati e onorati di poter ospitare il prezioso contributo che come “uomini liberi e consapevoli e coscienti e impegnati” continuano a dare con il loro scrivere, e anche attraverso noi, al sindacato e al mondo della scuola.

CON ALTRO SGUARDO

Le ferite del mondo

di Daniele Mencarelli

Accade periodicamente. Mai nei nostri paesi, nelle nostre città, sempre in un altrove abitato da esseri che tutto sommato riteniamo diversi da noi, nati con un destino di tragedia scritto e avverato.
Una ferita sanguina nel mondo, di sangue innocente, nello stato del Mozambico. I racconti che arrivano rinnovano lo stupore di cosa è in grado di fare l’uomo quando accecato dai suoi idoli, il potere, il denaro, un Dio che si sconvolge sino a renderlo partecipe di barbarie del genere. Perché nessun Dio, questo è certo, vorrebbe mai che si avverassero queste tragedie.
Nella provincia di Cabo Delgado sono state uccise 2600 persone, il dato è di qualche giorno fa, quindi la conta dovrà essere senz’altro aggiornata, per mano dei terroristi islamici dell’Isis. Tra le vittime moltissimi sono i bambini, decapitati davanti ai loro genitori, ai fratelli più piccoli. La denuncia arriva da Save the Children, che opera in quelle zone per tentare di garantire ai più piccoli quel minimo indispensabile per sopravvivere. In quelle zone, appena un paio di anni fa, si è abbattuto il ciclone Kenneth che ha portato devastazione e successive carestie, il tutto su una terra già martoriata da anni di conflitto. Una terra in cui la salute come l’istruzione, i servizi sanitari e l’ordine pubblico, sono ancora chimere lontane all’orizzonte.
È dal 2017 che i terroristi islamici portano morte nella provincia di Cabo Delgado, le persone costrette alla fuga sono ormai quasi 700mila, ma la responsabilità di tutto l’orrore è da attribuirsi anche ad alcune scelte del governo che per combattere i terroristi si è affidata a mercenari e guerriglieri, provenienti da diverse zone dell’Africa, che hanno portato altra violenza e morte, spesso indiscriminata al pari dei terroristi dell’Isis.
Come accade spesso in queste vicende, l’attrazione verso uno specifico fazzoletto di terra è raramente gratuito. La zona di Cabo Delgado, infatti, è ricca di petrolio e molto probabilmente di altre materie prime. I terroristi, dunque, ambiscono al controllo della provincia e alla gestione di queste risorse. Una storia vecchia quanto il mondo, come vecchio quanto il mondo, Qoelet insegna, è l’odio e la brama di potere di alcuni individui.
A farne le spese, come succede sempre, i deboli e gli indifesi, e ancora più tragicamente i bambini. Le storie che arrivano sono atroci, irricevibili, tanto più toccanti perché raccontate spesso dalle madri delle piccole vittime.
Come la vicenda di Elsa, che ha visto il proprio villaggio dato alle fiamme, e uno dei suoi quattro figli, di appena dodici anni, decapitato davanti a lei e ai suoi fratellini, senza poter fare nulla se non fuggire.
Più che le parole in questi casi serve altro. Si potrebbe volare alti, altissimi, e chiedere a gran voce a che cosa servano i grandi organismi internazionali se non a sedare situazioni del genere. Ma sarebbe tempo perso. Il corpo a corpo dev’essere dentro di noi, siamo noi che dobbiamo invertire l’indifferenza, o la fugace commozione, in azioni culturali stabili, in richiesta concrete. Senza questa inversione, con gli alibi che sono sempre gli altri a dover fare e risolvere, non si arriverà mai da nessuna parte. La prima inversione, o se preferite vera grande rivoluzione, è questa

STORIA CONTEMPORANEA

1911 – Il giubileo della Patria, la Libia e il nuovo nazionalismo italiano

di Paolo Acanfora

Nel 1911 l’Italia liberale si apprestava a festeggiare il Giubileo della patria (il cinquantenario dell’unità) guidata da una delle figure più rilevanti della sua storia nazionale. Da circa dieci anni, Giovanni Giolitti svolgeva il ruolo di demiurgo in una nazione ancora giovane che aveva raggiunto tardivamente la sua unità politica ed aspirava ad assumere il profilo di una grande potenza europea ed internazionale. Personalità di grandissima capacità politica, dotato di pragmatismo ed incline ad un tatticismo che tuttavia non comprometteva visioni di lungo respiro, Giolitti aveva piena coscienza dei limiti del proprio paese. Esemplificazione lucida di questa consapevolezza è il noto brano di una lettera scritta alla figlia in cui per descrivere l’Italia e la sua guida politica utilizzava la metafora del sarto che si accingeva a vestire un gobbo. Un vestito (una politica) che non avesse tenuto conto della gobba (cioè delle caratteristiche del paese) non avrebbe avuto alcuna utilità. C’est-à-dire, si possono elaborare i migliori progetti a tavolino ma quando poi si deve concretamente operare non si può fare a meno di tenere conto delle situazioni reali in cui quella progettualità deve essere calata.
Una simile attitudine poteva, naturalmente, essere declinata in molti modi. I metodi giolittiani furono spesso al centro di velenose polemiche. Valga su tutte l’appellativo di “ministro della malavita” che gli affibbiò uno dei principali intellettuali dell’Italia dell’epoca, Gaetano Salvemini. L’accusa era rivolta al metodo clientelare che caratterizzava, soprattutto al meridione, la costruzione del consenso attorno a Giolitti e ai suoi uomini. Era uno dei segni dell’antigiolittismo che caratterizzava un gran numero di forze politiche ed intellettuali della società italiana. È naturalmente in questo coacervo che va cercata la crisi della sua leadership. Ma sarebbe miope leggere tali contrapposizioni in un’ottica esclusivamente personalistica. Il sistema che Giolitti incarnava (in un mondo liberale, peraltro, tutt’altro che omogeneo) stava entrando in una fase di crisi acuta a causa dei processi di democratizzazione (il protagonismo delle masse) e di radicalizzazione della politica. Le forze antisistema acquisivano un ruolo ed un consenso inedito.
In questo quadro, il nazionalismo italiano cambiava rapidamente pelle rispetto alla tradizione risorgimentale. In linea con l’evoluzione europea ed internazionale, i nazionalisti italiani spingevano per un’Italia imperialista che finalmente avrebbe potuto riscattare le umiliazioni di Adua e Dogali (le fallite imprese coloniali dell’età crispina) assumendo il suo giusto posto nell’agone internazionale. Il giubileo del 1911 alimentava l’idea della grande Italia e l’occasione venne proprio in quell’anno con la guerra di Libia. Negli anni precedenti la diplomazia italiana aveva lavorato per ipotecare la propria egemonia sull’area, ottenendo il consenso delle grandi potenze. Le circostanze internazionali (la crisi balcanica apertasi nel 1908, la rivoluzione dei giovani turchi nel medesimo anno, la crisi franco-tedesca sul Marocco nel 1911) spingevano ora per una soluzione definitiva. Per interessi economici, di prestigio internazionale, di politica interna il governo italiano aveva deciso che era ormai giunto il momento di riscuotere il proprio credito.
La guerra coloniale italiana andava però ad innescare una catena di reazioni solo parzialmente previste. Si preparava un’escalation bellicistica che si innestava su una già largamente sviluppata propensione alla corsa agli armamenti, alla definizione di piani di conquista (o di difesa) che presupponevano scontri armati tra potenze europee. L’Italia era la prima nazione a mettere in discussione un principio basilare dell’equilibrio europeo emerso dal congresso di Berlino del 1878: l’intangibilità dell’Impero ottomano. Il ragionamento uscito dal congresso voluto e guidato da Bismarck era piuttosto semplice: l’Impero ottomano era un gigante malato e la sua fragilità doveva essere tutelata al fine di evitare che gli appetiti nazionalistici ne provocassero la dissoluzione creando, di conseguenza, tensioni tra le maggiori potenze. L’Italia fu la prima a mettere in discussione quel principio, conquistando la Libia (territorio allora sotto la giurisdizione ottomana). E non è un caso che il venir meno di questo assunto abbia scatenato le guerre balcaniche (1912 e 1913) e contribuito ad alzare il livello della tensione internazionale che esploderà proprio nei Balcani nel 1914.
L’impresa libica era un’impresa politica ed economica ma agli occhi dei nazionalisti costituiva soprattutto il segno che la nuova Italia, a cinquanta anni dalla sua fondazione, poteva finalmente ambire al ruolo di grande nazione coloniale alla pari delle altre potenze. Era il prestigio internazionale ad essere al centro dell’attenzione di questi circoli, promotori di un movimento politico nuovo, espressione di una visione nazionalista, imperialista, autoritaria della modernità. La “giovane proletaria” trovava ulteriori sbocchi, dopo la Somalia e l’Eritrea, alla sua missione civilizzatrice. L’Italia, culla della romanità, patria del diritto, centro della cristianità, poteva dare sfogo alla sua vocazione imperialista, partecipando allo sviluppo della mondialità europea, all’egemonia cioè del vecchio continente sul mondo. La mentalità colonialista continuava a diffondersi in modo trasversale tra nazioni, classi, appartenenze politiche e religiose. Sentitasi investita di una sacra missione, la civiltà europea si autoproclamava civiltà superiore, eleggendosi a modello universale, valido erga omnes. La competizione avviatasi al suo interno per il primato tra le nazioni apriva la strada verso l’abisso delle due guerre mondiali e la fine del dominio europeo.

HOMBRE VERTICAL

Non è folklore, non è ingenuità

di Emidio Pichelan

“Non fossi così brutta, ti stuprerei”: a pronunciare una frase tanto greve quanto sessista non è un machista dilettante, ma Jair Bolsonaro (lontani origini rodigine), Presidente del (lontanissimo) Brasile – non proprio il più insignificante dei Paesi del mondo. Nella (vicinissima) Vicenza, si sta facendo notare un “gruppo” (la buona educazione sconsiglia l’uso dei termini “banda” o “gang”) di giovanotti dai 18 ai 25 anni a zonzo per piazze e strade “a caccia di allogeni” (“stranieri” e “diversi”) e dei “loro tutori progressisti” (chi crede negli artt. 3 della Costituzione e 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani).
Alla destra pura e dura, sovranista e populista piace la forza, predica l’odio verso l’altro e il diverso, non sopporta l’eguaglianza, disprezza la democrazia, vive una diversa realtà (quella trumpiana, per intenderci), rinnega la storia: anzi, si attiva per attuare la neolingua del Grande Fratello e del Ministero della Verità (d’obbligo la lettura di 1984 e di La fattoria degli animali di G. Orwell).
Non stiamo esagerando. Se tu, studioso-storico-associazione, recita la mozione approvata il mese scorso dal Consiglio Regionale Veneto (centrodestra, anzi zaiano, granitico e inossidabile), vuoi accedere ai finanziamenti pubblici, non ti devi macchiare dei reati di “negazionismo” o di “riduzionismo” nei confronti delle foibe e dell’esodo fiumano e dalmata. Per far capire anche ai non addetti ai lavori: caro storico-studioso, il tuo lavoro intellettuale sarà finanziato se affermi che le foibe rientrano nella fattispecie della “pulizia etnica”, che gli infoibati sono 12mila e gli esuli fiumani-dalmati 350mila.
Non stiamo parlando del sesso degli angeli: si tratta di una mostruosità inaudita nei sistemi democratici che vivono di libertà di pensiero e di ricerca. È come se a decidere quali siano i vaccini da utilizzare fosse la politica e non la scienza. Sempre a beneficio dei non addetti ai lavori ricordiamo qui che gli studiosi con una vita spesa a studiare le foibe e l’esodo fiumano-dalmata hanno detto e sostengono che le “foibe” nulla hanno a che vedere con la “pulizia etnica”, che le vittime delle foibe non superano le 5mila unità e che l’esodo fiumano-dalmata ha riguardato tra le 250 e le 270mila persone.
E che dice il superpopolare, moderato Presidente Zaia, che a suo tempo ha sentito il dovere di smarcarsi dalla sua assessora (FdI) a proposito della Shoah? Nada de nada, non una parola. Mesi fa, nel salotto di Fabio Fazio, un sorridente Zaia lanciato verso una riconferma plebiscitaria spendeva la sua performance alla ricerca affannosa del momento opportuno per piazzare una citazione di Seneca. Voleva dimostrare che anche quelli della Lega leggono i libri.
Che sia arrivato fino ai classici russi Tolstoj e Dostoevskij, magari anche a Maupassant, ma ad Orwell proprio no, magari per una cattiva informazione? L’inglese George Orwell ha sì preso parte alla guerra civile spagnola (1936-39) dalla parte repubblicana, era un anarchico rosso (c’erano anche gli anarchici neri), ma era anche un antistalinista della prima ora. Non ha scritto 1984 e La fattoria degli animali per pura ispirazione poetica: ma per denunciare e avvertire dei pericoli che correva la democrazia liberale.

LA POESIA DEI LUOGHI

Rocca d’Orcia

di Gianni Gasparini

Rocca d’Orcia sta al centro della valle formata dal fiume Orcia, che scorre tra le province di Siena e di Grosseto, in mezzo a colli appenninici di modesta altezza. Nel suo breve corso il fiume, nato dalle pendici dell’antico vulcano spento del Cetona, confluisce nell’Ombrone poco prima che questo si getti nel Tirreno.
Il borgo, ricco di una grande e intatta cisterna medievale, è dominato dalla rocca di Tentennano, austero castello attorno al quale “i venti percuotono” come scrisse Caterina da Siena, che qui trascorse gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza. Il castello apparteneva ai genitori e parenti di Caterina: ancora oggi si staglia superbo sulla valle e stabilisce una sorta di aereo legame con altri luoghi sopraelevati distesi sui colli circostanti: Castiglione d’Orcia, Pienza, Monticchiello, Vivo, Radicofani. Caterina dalla Rocca scendeva talvolta a Bagno Vignoni, dove accudiva i malati che qui si recavano per usufruire dei benefici delle acque termali ancor oggi utilizzate.
Attorno a Tentennano si snoda un sentiero che ne compie il giro dal basso, incontrando un paesaggio di ulivi, cipressi, lecci, ornielli e altre essenze di tipo mediterraneo; si sfiora il castello diruto di Castiglione d’Orcia, il borgo che diede i natali al Vecchietta, grande pittore rinascimentale di cui la cattedrale di Pienza ospita alcune tele significative. Un altro sentiero scende direttamente all’Orcia, che in questo punto si restringe in una gola e come avvolto da un paesaggio fluviale dolce e luminoso: abbondano pioppi e tamarischi, canne e salici; e qui si muovono instancabilmente, al pelo dell’acqua, libellule minute dalle ali trasparenti di colore azzurro e rosso.
Ma è soprattutto la sera, con il paesaggio della valle inondato dalla luna, che questo luogo acquista un fascino particolare. C’è luna e luna, lo sappiamo: la luna che sembra una falce appena percettibile nel cielo, e la luna piena che diffonde i suoi riflessi sul mare calmo d’estate; la luna che sorge improvvisa tra le case in città e la luna che tramonta alla fine della notte, cedendo alla luce del nuovo giorno. Ogni volta la luna, così diversa da ogni altro astro, dal sole come dalle stelle, può evocare in noi qualcosa di diverso, di nuovo, persino di mai provato prima.
Conservo un ricordo indelebile di quando fui la prima volta a Rocca d’Orcia. Era d’agosto, una serata di luna piena. Al crepuscolo, ancora in piena luce, da un poggio scrutavo il filo dei colli che cingono la valle, spiando l’arrivo della luna. E infatti arrivò, spuntando dall’orlo di un colle come qualcuno che faticosamente e progressivamente si arrampichi per guadagnare l’opposto versante. A dire il vero, la luna non sembrava la luna, perché mostrava un rosso così intenso e particolare come mai mi era capitato di vederla né mai più avrei visto in val d’Orcia o altrove. La luna, il cui colore si avvicinava al rosso pomodoro, sembrava un piccolo sole al tramonto, mentre a poco a poco emergeva nella sua rotondità, quasi rotolando sul ciglio del colle. Poi, nel giro di alcuni minuti, la luna irradiò bagliori aranciati e prese quota al centro della valle, quasi fosse un aerostato pronto per una lunga traversata. La luna si innalzava sempre più nel cielo, sembrava prendere una deriva in direzione delle stelle. E intanto il suo colore mutava, assumendo tonalità diverse di bianco che illuminavano pienamente la valle dell’Orcia e il paesaggio che io stavo contemplando in silenzio.
Rocca è oggi abitata da pochissime persone ed è incorporata nell’adiacente comune di Castiglione d’Orcia, all’estremità meridionale della provincia di Siena. Castiglione è un borgo tranquillo con le sue antiche case compatte, la chiesa parrocchiale con alcuni quadri pregevoli e un’altra antica cappella dedicata a Santa Maria Maddalena, il palazzo comunale, la piazza raccolta intitolata al Vecchietta che si apre con una forma irregolare e quasi fantasiosa nel centro del borgo. Qui si avverte un genius loci tipico e particolare, che anche il linguaggio tuttora usato dalle persone, con le sue cadenze e le sue espressioni toscane, contribuisce nella misura del possibile a perpetuare nel tempo. Questo luogo, forse, è rimasto ancora un’isola.

LETTURE

Sconfiggere il razzismo
Dialogo e azione

di Leonarda Tola

I meccanismi dell’odio” (Mondadori 2020) è il libro che Eraldo Affinati (1956) scrittore e Marco Gatto (1983), ricercatore e studioso hanno scritto in forma di dialogo: un alternarsi di brani di un colloquio tra i due che nella vita condividono l’impegno di promozione umana e culturale nelle Penny Wirton: sono le scuole gratuite di italiano per stranieri disseminate in Italia sulla scia della prima esperienza che si deve alla tensione pedagogica e alla passione civile di Affinati e della moglie Anna Luce Lenzi.
Il libro (120 pagine), scritto in massima parte prima dell’arrivo della pandemia, al momento della pubblicazione si è arricchito di un primo capitolo che include uno sguardo su quella che è l’inaudita novità della nostra vita oggi. Si incomincia dagli individui scartati, rifiutati e offesi, “le rotelle storte: dal ribelle al ripetente”, calamita che da sempre monopolizza l’attenzione di Affinati. La condizione di estromissione e marginalità nella desolazione del confinamento si incarna nel barbone davanti al portone di casa: specchio dell’impotenza della società (norme e istituzioni) a proteggere dentro lo stesso argine e a riparare sotto lo stesso cielo le fragilità che appartengono a tutti in quanto umani; fino al consolidamento strutturale di ingiuste e crudeli gerarchie tra le fragilità, alcune da sostenere e altre da sotterrare. La salvezza? L’insorgere sempre possibile di un’istanza etica che spinga tanti di noi, se non tutti, a farsi carico del dolore del proprio simile oltraggiato, da cercare e incontrare nella comune umanità: “Vita tua, vita mea”.
Per i successivi quattro capitoli il libro si incarica di dare ragione del titolo con ricchezza di argomentazione e preziosi rimandi a una vasta letteratura. “Il razzismo ordinario” nell’Italia contemporanea è esemplificato attraverso alcuni dei ricorrenti episodi che vanno dall’uccisone di immigrati alle manifestazioni di disprezzo quotidiano e straordinario squallore in cui normali cittadini, sul bus o per strada, si esibiscono per marcare la differenza tra “noi e gli altri”. È “la sconfitta culturale a cui nessuno può dirsi estraneo”: il tema dl libro. L’esclusione dell’altro e la paura del diverso hanno radici che affondano nell’abisso dell’umano, attualmente rafforzate dal sentimento di insicurezza, ansia e incertezza che vuole essere placato con la richiesta scomposta di esclusiva protezione. “È in questi momenti che la fabbrica razzista si mette al lavoro, allestendo una serie di false identificazioni del nemico, del diverso”. Oggi il migrante, un tempo il meridionale.
Non c’è dunque speranza? “Il razzismo avvelena i pozzi e inaridisce le fonti perché impedisce di riconoscere la fratellanza. E invece noi siamo legati da una radice comune: tocchi la nervatura e fai vibrare tutta la pianta. In tale prospettiva l’educatore e lo scrittore sono due facce della sessa medaglia”.
La via d’uscita dagli automatismi meccanici dell’odio c’è e il libro la indica: bisogna credere nella possibilità di mettersi in relazione all’altro con la volontà di stabilire un rapporto, tra parimenti diversi, di conoscenza e comprensione. È quanto accade nelle scuole Wirton dove spesso ad interagire con l’immigrato è un volontario o anche uno studente italiano suo coetaneo: l’incontro uno ad uno, faccia a faccia, è condizione propizia per l’apprendimento della lingua, l’italiano, indispensabile per la decifrazione della realtà circostante e l’inserimento per chi arriva straniero tra noi. L’alfabeto che si impara è codice linguistico e insieme tavola di scambio di pensieri e sentimenti che trovano voce e ascolto nell’espressione parlata e scritta.
Sostengono gli autori che non c’è teoria educativa senza esperienza della buona relazione alunno-maestro. Metodologie pedagogiche e tecniche didattiche studiate per l’elevazione culturale e umana degli educandi hanno senso e verità a condizione che ci si sporchi le mani nella polvere dell’esperienza di insegnamento e alla prova della realtà. L’antica lezione di pensiero e azione alla scuola mazziniana ritorna a giustificare i libri che si scrivono attraverso la virtù della testimonianza. A fondo perduto.

SUL FILO DEL TEMPO

Aprile, sboccia una vita nuova

di Mario Bertin

Il mese di aprile è pervaso dalla primaverile atmosfera creata dalla presenza o dalla prossimità delle festività pasquali. È lo sbocciare di una “vita nuova” dentro la vita di tutti i giorni.
Pasqua, con la celebrazione della Resurrezione di Cristo, è la festa maggiore del cristianesimo. Ma non solo. È la festa dell’esodo, d’ogni cammino di liberazione. Nasce con la fuga degli ebrei dall’Egitto, dove erano tenuti schiavi, verso la terra promessa. Ma non è principalmente il passaggio da un luogo a un altro luogo. Non è principalmente un passaggio fisico, ma metafisico: dal sé all’altro (Kierkegaard, La prossimità assoluta è nella distanza infinita), dal fuori al dentro (sant’Agostino), dal ripiegamento sull’io all’estasi della bellezza (J.J. Rousseau), dal possesso al dono. La resurrezione di Cristo celebra la vittoria sulla morte nella glorificazione della vita di quaggiù. È il rifiorire della vita di oggi.
Così descrive la pasqua di Resurrezione Luigi Berzano nel suo libro recente Un altro Gesù. Il tempo e le parole di un uomo
(Editrice Elledici, Torino 2020). Ne proponiamo un brano in queste pagine. Luigi Berzano è ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Torino e prete cattolico molto attento agli aspetti del dialogo interculturale.

Comprendere il messaggio della risurrezione significa comprendere il messaggio evangelico intero. Che cosa richiama il fatto che la risurrezione di Gesù sia avvenuta la domenica? Domenica: il primo giorno della settimana, il giorno in cui Dio aveva cominciato la creazione dicendo «"Sia la luce!". E la luce fu» (Genesi 1,3). Gesù era stato condannato a morte dai sommi sacerdoti in quanto profanatore del Tempio, luogo dove si amministrava la religione. Morì nel giorno di parasceve, ovvero il venerdì, vigilia e preparazione in vista del sabato. Durante tutto il sabato, giorno sacro della religione ebraica, Gesù rimase nella tomba. Risorse all'alba del primo giorno dopo il sabato, quasi fosse un tempo nuovo, oltre la religione. La risurrezione è primizia, ritorno all'origine dopo aver attraversato l'esperienza della vita e della storia. È il ritorno perfetto del tempo nuovo. «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Genesi 1,1); «In principio era il Verbo» (Giovanni 1,1). Ora, è la risurrezione.
La risurrezione non appartiene al sabato – il giorno religioso –, ma all'alba del primo giorno del tempo nuovo, quando finiscono il tempo, la "vecchia" vita dell'uomo e anche la religione. È la creazione nuova di Dio, quando la religione dell'uomo ha esaurito i suoi tentativi e i suoi significati. Se l'uomo ristagna nelle sue idee religiose, tenderà a travisare il messaggio della risurrezione, riducendolo a un recupero della vita di adesso, un prolungamento di questo mondo, un'ultima trovata religiosa per non accettare la morte. Attendere la risurrezione come se potessimo continuare questa vita tale e quale, è come se il seme volesse germogliare, ma senza scomparire del tutto. Invece, non può esserci germoglio senza la scomparsa totale del seme.
Nella prima Lettera ai Corinzi (15,14) Paolo scrisse: «Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede». Nel buddhismo si dice: «Se Buddha non è il Risvegliato, entrato nel Nirvana, allora inutile è la nostra pratica e la nostra fede nella via». Due affermazioni radicali, indipendentemente dal fatto che parlino di cose diverse. Con la risurrezione di Gesù ha inizio la seconda creazione, come se il giorno di Pasqua ricordasse il giorno in cui Adamo divenne persona vivente. Da quel momento, l'evoluzione dei mondi e della storia non ha fatto che assecondare la forza creativa di quel soffio. Ovunque si vedano i segni della civiltà, lo splendore della libertà umana, la materia arricchita dallo spirito, lì si trova l'effusione di quello Spirito Creatore e, oggi, della Pasqua. Ecco perché tutte le creature si sentono accomunate, qualunque sia la loro provenienza, cultura o religione. Tutte assecondano l'intimo soffio del Dio Creatore. È su tale bellezza delle creature che si riflette il volto di Dio.
Pasqua è parola che deriva dal verbo ebraico pèsach: passare, mettersi in cammino, ricominciare. Non è festa per residenti sedentari, ma per migranti che si affrettano al viaggio. È festa anche per persone di fede: ma non per chi è radicato nel centro della propria certezza, bensì per chi si trova continuamente in movimento su sentieri o su piste appena tracciate. È festa di chi crede ed è in cerca di un rinnovo quotidiano dell'energia di credere. È festa di chi insegue il Creatore, costringendolo a manifestarsi. È festa di chi sta sempre su un suo pèsach-passaggio. Mentre con generosità si attribuisce al non credente, un suo cammino di ricerca, è anche vero, a volte, che il credente è colui che non parte mai, che non si azzarda mai nell'altrove assetato del credere. Ogni volta che è Pasqua, si urta contro la doppia notizia delle Scritture: l'uscita dall'Egitto e il patibolo romano della croce piantata sopra Gerusalemme. Sono due scatti verso l'ignoto. Il primo è un tuffo nel deserto per agguantare un'altra terra e una nuova libertà. Il secondo è il salto mortale oltre il corpo e la vita uccisa, verso la più integrale risurrezione.

VERSANTE DIDATTICA

Linee pedagogiche per il sistema integrato “zerosei”

Tante, belle, forse troppe, pillole

di Donato De Silvestri

La continuità del percorso educativo
È questo un argomento tanto abusato quanto ambiguo e che si concretizza molte volte in mere ritualità. Generazioni di insegnanti di scuola dell’infanzia si sono profuse nella predisposizione di progetti “zainetto” o “valigetta”, avente lo scopo di presentare gli alunni alla primaria con una sorta di bagaglio a mano, che doveva raccontare il senso del percorso scolastico concluso, descrivere i loro connotati salienti, dare un riferimento rispetto all’ambiente di provenienza e creare il presupposto perché la nuova avventura scolastica partisse da lì. Mi pare di rivedere ancora quei contenitori in fila sugli scaffali, destinati a custodire intonsi i loro preziosi segreti. Il problema consisteva e consiste nel fatto che i docenti della scuola da cui comincia una nuova avventura non sentono come un’emergenza significativa il creare un fil rouge all’insegna della continuità con la scuola di provenienza, salvo per casi di significativi bisogni speciali. Del resto la frustrazione degli insegnanti dell’infanzia è la stessa che poi vivono quelli della primaria al momento del passaggio alla secondaria. È infatti ancora diffuso nella cultura della primaria accompagnare i percorsi dei propri alunni in una prospettiva ideografica, che si adatti ai bisogni individuali, anche se le tentazioni di omogeneizzazione paiono sempre più diffuse. Quanta delusione ho letto nei volti dei maestri e delle maestre quando i professori della secondaria di primo grado facevano loro capire che erano interessati ai livelli, all’esito conclusivo sulla cui base poter organizzare le classi in modo da suddividere equamente punti forza e di debolezza. E nel passaggio dalla secondaria di primo grado al secondo abbiamo forse la percezione che ci sia un qualche tentativo di mantenere una sintonia con il percorso scolastico precedente? Vi è forse un qualche modo, anche lo si volesse, per capire cosa vi sia dietro l’incertezza o la sicurezza di un alunno? Tutti ricordiamo il clamoroso fallimento del portfolio personale introdotto con il decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59. La cosa era stata vissuta da molti come l’ennesimo tentativo di gravare i docenti di una nuova incombenza burocratica, di cui, come dicevo, non si percepiva una reale necessità. Eppure non sarebbe giusto che ogni alunno fosse accompagnato dalla documentazione necessaria a comprenderne la storia, senza dover ogni volta ricominciare da capo? Inoltre ora si potrebbe utilizzare un cosiddetto e-portfolio, ossia un documento digitale, facile da trasmettere e da condividere. Ma esiste nella nostra scuola un tale senso di fiducia tra un ordine di scuola e l’altro, per cui si dovrebbero prendere per buone le osservazioni di chi ti ha preceduto? C’è poi chi sostiene che non si dovrebbe ipotecare la possibilità di ognuno di rimettersi in gioco su un piano diverso, reinventandosi, cambiando, senza subire il vincolo della coerenza con ciò che si è stati, sia in negativo che in positivo: perché dovrei iniziare il liceo portando con me il fatto che finora mi sono impegnato poco nello studio? E se il mio punto di forza era la matematica, perché non posso invece ora presentarmi come un appassionato di letteratura? Un altro limite straordinario è stato introdotto dalle rigorose misure stabilite dal Garante per tutelare la privatezza dei dati sensibili, presupponendo che non è per nulla facile tenere separata la performance da ciò che è riconducibile alla salute, poiché rientra in essa anche lo stato psicologico e conseguentemente il complesso delle emozioni.

Un’ulteriore riflessione merita il rapporto tra continuità e discontinuità.
Infatti, per molti versi anche la discontinuità è un valore. La crescita ha bisogno di discontinuità, del percepire che sta avvenendo un cambiamento, che vengono richieste nuove forme di responsabilità. Ad esempio, è comunemente accettato che un bambino assuma comportamenti che in un preadolescente sarebbero considerati inaccettabili. L’Etologia ha studiato attentamente il significato dei cosiddetti riti di passaggio (e di iniziazione), ossia momenti appositamente organizzati per sancire la transizione da uno stato ad un altro. Un tempo anche nelle università italiane le cosiddette “matricole” dovevano essere sottoposte ad una serie di prove, talora del tutto riprovevoli, per poter essere accettate nel nuovo ambiente. La stessa cosa accadeva alle reclute al loro arrivo in caserma ed io ricordo che quando ero un ragazzino il poter mettersi le calze di nylon costituiva un vero e proprio rito per le mie compagne che passavano dalle elementari alle medie. Dobbiamo allora rassegnarci a considerare la continuità un’impresa impossibile e forse nemmeno opportuna? Io penso di no. Credo che sia importante contare sulla trasmissione di informazioni, seppure essenziali e magari limitate ai soli punti di forza, o ai consigli che in una logica ICF potrebbero aiutare a togliere barriere e facilitare il percorso scolastico. Credo poi che il più efficace esempio di continuità potrebbe essere l’assunzione da parte di tutti di una didattica effettivamente inclusiva, che valorizzi il protagonismo degli alunni, con una decisa personalizzazione dei percorsi educativi.

UN ANNO CON PINOCCHIO

Un poeta di nome Pinocchio

di Gianni Gasparini

Chi è Pinocchio? Il protagonista del racconto di Collodi che stiamo rileggendo a puntate e in modo atipico ha molti volti: la sua identità può essere definita perciò in parecchi modi, come stiamo verificando attraverso le diverse sfaccettature e le messe a fuoco che ne emergono.
C’è tuttavia un tratto del burattino che mi sembra centrale e significativo, quantunque forse poco evidente e in realtà tralasciato quasi completamente dalle analisi: si tratta del fatto che Pinocchio è poeta. Che Pinocchio sia pervaso dalla dimensione poetica lo si arguisce già dalla passione che nutre per la dimensione estetica e gratuita del correre: proprio attraverso la sua corsa egli appare come un bambino-poeta che reinterpreta e destruttura la realtà alla luce di una visione diversa, alternativa. Pinocchio mira a reinventare il mondo e a costruirne uno che sia antitetico rispetto alle regole esistenti, le quali corrispondono a quelle degli adulti: un mondo che abbia la libertà tra i suoi elementi fondativi, ciò che non a caso appare in linea con le aspirazioni risorgimentali e libertarie di Collodi. Si può osservare poi che il correre e il saltare inesausto di Pinocchio risultano analoghi al percorso della creatività poetica e letteraria, specialmente per quanto riguarda l’aspetto della rapidità e della spontaneità.
E vi sono altre dimensioni che parlano del radicamento di Pinocchio nel regno della poesia: una di queste è quello che viene chiamato “il cuore” del burattino: non solo il buon cuore che lo fa essere generoso e memore dei benefici ricevuti da Geppetto e da quella specie di madre che è la Fata, ma un cuore capace di lungimiranza e penetrazione del reale, tale da riuscire talvolta a vedere con occhi che vanno al di là delle apparenze. Ce lo mostra un episodio del cap. XXV, ambientato nell’isola delle Api industriose alla quale approda il burattino. Quando Pinocchio arriva a casa della misteriosa donnina di cui ha accettato di portare una brocca d’acqua la riconosce come la Fata, malgrado la metamorfosi di quest’ultima rispetto allo stadio precedente di Bambina dai capelli turchini. La Fata si stupisce e gli dice: “Come mai ti sei accorto che ero io?” E Pinocchio di rimando: “Gli è il grande bene che vi voglio, quello che me l’ha detto”. In altri termini, il cuore e la dimensione affettiva riescono a penetrare là dove le esplorazioni normali dei sensi falliscono: ma questo è anche il modo di porsi della poesia, se essa viene intesa come una tensione alla saggezza e alla verità che ha sensori e modi di espressione diversi da quelli di carattere razionale e scientifico.
Un’altra dimensione sinergica alla sensibilità poetica è la curiosità, che emerge a più riprese nel racconto e che nel nostro burattino non è un fatto banale o superficiale. Pinocchio è curioso perché vuol conoscere il mondo, vuole aprirsi all’avventura, desidera schiudere nuove porte che potranno farlo entrare in realtà sconosciute e meravigliose. Significativo è al riguardo l’episodio del volo in groppa al Colombo che si offre di portarlo in riva al mare per rintracciare Geppetto, nel cap. XXIII: giunto ad una altezza straordinaria, quale novello Astolfo sull’Ippogrifo, il burattino “ebbe la curiosità di voltarsi in giù a guardare”. E qui non importa che Pinocchio venga preso a questo punto da “giracapi” e da timori, non dissimili da chi vola oggi su un aereo per le prime volte: interessa che egli anche qui riesca ad esprimere la sua incontenibile, vitalistica spinta alla curiosità sul mondo che lo circonda.

Insomma, Pinocchio si rivela poeta, al di sotto delle apparenze e forse al di là delle stesse intenzioni esplicite del suo autore. Egli lo è fino all’ultima scena del capitolo finale, quella in cui un ragazzino perbene e benvestito guarda un burattino di legno che giace inerte su una sedia, “con le braccia ciondoloni e le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo” (cap. XXXVI).
In queste ultime, sconcertanti battute del racconto non è solo Pinocchio a cessare di esistere: con lui viene meno la sua poesia fatta di corsa e di velocità, di curiosità e di avventura, di fiducia gioiosa in un mondo alternativo. Si può tener presente qui, per analogia, il finale del film del 2002 di Benigni su Pinocchio: qui il protagonista si avvia a frequentare la scuola e ad integrarsi pienamente nel mondo degli adulti, mentre una farfallina vola via, allusione all’anima del burattino e – mi sembra – alla sua poesia. Prima ancora, è significativa la testimonianza della figlia di Giorgio Manganelli su suo padre, autore di uno dei libri più acuti sulle Avventure di Pinocchio che abbiamo già avuto modo di citare. Manganelli infatti

...sfogliava le pagine di quel libro fantastico per poi sciogliersi in lacrime disperate alla morte del burattino ‘maraviglioso’ che veniva sacrificato per dar vita all’inutile e banale ‘bravo ragazzo’, senza storia e senza nulla da raccontare. (L. Manganelli, Un viaggio parallelo, in R. Dedola. M. Casari cur., Pinocchio in volo tra immagini e letteratura, B. Mondadori, Milano 2008)

Da ultimo, vorrei ricordare che tra i pochissimi ad aver notato indirettamente la dimensione poetica di Pinocchio è stato un pedagogista, Luigi Volpicelli (1900-1983): egli vide nel burattino una “immagine eterna e felice della fanciullezza”, la quale tuttavia al termine del racconto si dissolve e, a suo parere, cede “alle leggi ferree” della vita adulta (L. Volpicelli, Introduzione a C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, illustrato da S. Bartolini, Pescia, Fondazione Nazionale C. Collodi 1983).

RICORRENZE

Se così grande è il potere delle parole …

di Emidio Pichelan

Ancora un saggio sull’antisemitismo? Spontaneo l’interrogativo nel ricevere il volume “Antisemitismo. Dal pregiudizio all’odio razziale” (edizione Radici Future), curato da Luigi Lo Papa, amico di vecchia data (anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, militanza nel Sism-Cisl, oggi Cisl Scuola). Per caso, ma assai significativamente, nello stesso istante l’occhio cadeva su un trafiletto innocente, uno di quelli che sembrano essere messi lì apposta per riempire lo spazio della pagina del giornale e, dunque per essere saltati a favore delle notizie successive. Un trafiletto innocente ma tutt’altro che banale: secondo l’Eurispes, il 15,6 per cento degli italiani “nega la Shoah”.
Appena un mese fa, il 6 gennaio, un pugno vociante di cittadini americani, cioè della più antica e solida democrazia della storia assaliva – quanto allegramente, come si fa in una scampagnata fuori mura? – Capitol Hill. L’emblema della democrazia parlamentare, rappresentativa, liberale. Che la democrazia non goda di una sana e robusta salute e che i seguaci di teorie, pratiche e di regimi orribili siano diventati pericolosi assai, oltre che condannati dalla storia e dalla civiltà, non ci sono più dubbi.
Non ci possono essere più dubbi.
De nobis fabula narratur, ammoniva sorridendo il vecchio, saggio Esopo. È tempo, per dirla con papa Francesco, che i buoni samaritani del mondo alzino la voce. Con coraggio. È ora che quelli che credono nell’approccio francescano alla realtà, cioè a un mondo rifiorito con l’amicizia sociale, usino gli strumenti a loro disposizioni: la voce, la parola, la testimonianza, la presa di posizione. Per ammonire, segnalare il pericolo, invitare alla resipiscenza. Finché c’è tempo.
Il quale, come sempre, è una risorsa scarsa.

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”: le parole impegnative e cristalline dell’articolo 3 della nuova Costituzione repubblicana, approvate dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgate cinque giorni dopo, entravano in vigore il 1° gennaio 1948.
La dichiarazione solenne non era una stravaganza, un colpo di genio italico se, a distanza di soli dodici mesi, il consesso delle Nazioni Unite riunite a Parigi il 1° dicembre del 1948 approvava e proclamava la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il cui articolo 1 suona altrettanto cristallino e impegnativo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Il termine usato è proprio “fratellanza”, più impegnativo e meno laico di “solidarietà”, discendente direttamente dal Vangelo e dal Poverello di Assisi, dalla Rivoluzione Francese fino all’ultima, sorprendente (se non vogliamo utilizzare il termine rivoluzionaria) Enciclica di Papa Francesco. Nel frattempo veniva costituito il Tribunale di Norimberga e si cercava di definire il significato di “crimini contro l’umanità” – i capi e i padroni di Stato non possono torturare, maltrattare, tanto meno uccidere i propri cittadini.
Insomma, con il secondo conflitto mondiale ancora incombente – macerie fumanti, eserciti di orfani e di mutilati, milioni di vittime militari e civili e di vite umane sconvolte, la follia della Shoah (Olocausto) da rielaborare e metabolizzare –, le solenni dichiarazioni più sopra riportate sembravano (correttamente) il punto di arrivo di una riflessione già più che centenaria nella cultura occidentale: si pensi doverosamente alla Bill of Rights inglese del 1689, alla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 giugno 1776 e alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, solennemente proclamata dall’Assemblea Costituente francese del 1789. E sembrava, naturalmente, il punto di partenza di un’era di pace e di rispetto reciproco.
Sembrava un punto fermo: anche per questo, per “testimoniare” ai morti e ai vivi le follie disumane dell’antisemitismo e del razzismo, molti dei sopravvissuti dei campi di sterminio ce l’avevano messa tutta per vincere la battaglia della sopravvivenza contro la morte. Per dirla con Walter Benjamin, credibile testimone di quell’epoca dominata dai mostri disumani del sonno della ragione, ebreo tedesco morto suicida nel confine spagnolo in fuga dalla sua terra impazzita e da un’Europa occupata dal Terzo Reich: “Essere felici è vivere senza paura, senza complotti”.
Tutto si poteva immaginare allora meno che quell’aberrante ideologia (nazifascista) di odio e di morte e di distruzione e di riduzione dell’uomo a massa, prostrata ai piedi dell’uomo forte (ma quale appeal può mai esercitare un’esperienza storica dallo slogan vergognoso come “credere, obbedire, combattere”?), potesse ancora godere, al di qua e al di là dell’Oceano, di un seguito vociante, ostentato e pericoloso assai. Ora come allora, non illudiamoci che il fenomeno sia riconducibile a pura ignoranza o a regressione nostalgica o, tanto meno, a sfogo folkloristico di frustrazioni e declassamento socio-economico.
Cicerone aveva cercato di tranquillizzarci: historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis. Il grande romano raccomandava di affidarsi alla storia per evitare errori e buchi neri vergognosi: perché la storia è testimone dei tempi, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita e messaggera dell’antichità. Un elogio della storia che fa bene leggere e rileggere.
Vero, verissimo: dal passato si impara. Altrettanto doveroso è constatare come non sia la storia (per lo più) colpevole di negligenza nel suo dovere di insegnamento quanto siano gli allievi (noi esseri umani) a venir meno al compito essenziale per la sopravvivenza della specie umana e per l’igiene mentale di ognuno di noi; in tanti (sempre troppi) si sono rifiutati e si rifiutano di studiare, capire, farsi illuminare, abbeverarsi alle sorgenti dell’esperienza.
Sono passati più di ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali, e c’è ancora chi si permette di irridere Liliana Segre che si ostina a ricordare il suo sconcerto di bambina per vedersi un giorno, improvvisamente e senza spiegazione, espulsa dalle scuole del Regno per ragioni etniche (è risaputo: le razze non esistono, quindi non si può usare il termine “razziale”). Il prossimo anno ricorreranno i cento anni dalla c.d. “marcia su Roma”: è facile prevedere un’impennata di quello che qualche giornalista ha chiamato il “trionfo del kitsch”.
Di quella brutta, umiliante storia – dell’antisemitismo, razzismo, xenofobia, dell’intolleranza e dell’odio verso l’altro – sappiamo tutto. Come sappiamo tutto delle ragioni della “eternità” dell’antisemitismo, del fascismo, della xenofobia, della guerra, del rifiuto dell’altro, dell’etnocentrismo, della costruzione di un mondo parallelo nel quale illudersi di sconfiggere e dominare le proprie paure.
“Gli uomini non sono differenti dagli animali, Bar”, diceva al piccolo Barack Obama la madre (single e bianca). “Noi temiamo quello che non conosciamo. Quando abbiamo paura di qualcuno e ci sentiamo minacciati è più facile combattere guerra e fare altre cose stupide. Le Nazioni Unite sono un modo per i Paesi di incontrarsi e imparare a conoscersi e non avere paura”(1). In alcuni libricini (che scrittura!, che fluidità e che scioltezza di argomentazione!”) scritti tra il 1997 e il 2012, e rimessi in circolazione in questi giorni da un prestigioso giornale nazionale, Umberto Eco metteva tutti noi in guardia discettando di un fascismo inossidabile e di un antisemitismo eterno: “Mein Kampf è sopravvissuto perché si appoggia su una intolleranza selvaggia, impermeabile a ogni critica”(2).
Che fare, allora?
Quello che fa Luigi Lo Papa in questo volume ben documentato, ben scritto, ben argomentato e di estrema attualità: scrivere, ricordare, parlare. “Denunciare” e “smascherare”, per usare i verbi suggeriti da U. Eco. Luigi ha capito che l’antisemitismo (e la sua coorte di teorie regressive e tossiche e i suoi slogan semplificatori, irrazionali e disumani) è una cosa seria, una ingiustizia insopportabile, una regressione culturale e civile condannata dalla storia. A disposizione degli uomini liberi e consapevoli e coscienti e impegnati rimangono gli strumenti di sempre: la parola, il ragionamento, la riflessione, il confronto, la pazienza, la perseveranza.
In qualche modo ritorniamo là dove abbiamo incominciato, agli anni 45-50. Quando Han Jonas, ebreo e filosofo tedesco naturalizzato Usa, allievo di Martin Heidegger e compagno di studi di Hannah Arendt, affermava: “Debbo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma”. Alla domanda sul (presunto) “silenzio di Dio” fa cenno - correttamente - anche Lo Papa. Dilemma falso, piuttosto ingenuo, come noto, al quale rispondeva, in modo assai più convincente, Elias Canetti (un autore che trova spazio nel saggio di Luigi): “Se fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra… Alla situazione che ha poi reso la guerra davvero inevitabile si è arrivati per mezzo di parole, parole su parole usate a sproposito. Se così grande è il potere delle parole, perché esse non dovrebbero essere in grado di impedire la guerra?”.
A crederci alle parole, a quelle che ognuno di noi è in grado di pronunciare, dobbiamo essere, anzitutto e fermamente, noi. I convinti che tutti gli uomini sono uguali, che sono titolari di dignità e di rispetto e hanno il diritto/dovere della fratellanza e dell’amicizia sociale.

(1) B. Obama, A Promised Land, Viking, 2020, pag. 468.

(2) E. Eco, Migrazione e intolleranza, edizione La Repubblica, 2021.

IN MEMORIA

Se n’è andato venerdì 26 marzo, all’età di 92 anni, Enzo Spaltro, uno dei maggiori esperti di psicologia del lavoro, materia della quale è stato professore ordinario all’Università di Bologna-Università delle Persone dopo essersi formato e specializzato con padre Agostino Gemelli all’Università Cattolica di Milano.
Per anni presidente della “Fondazione Enzo Spaltro”, centro studi interdisciplinare focalizzato sul mondo delle aziende, delle istituzioni e del sociale, il suo pensiero e le sue pubblicazioni sono state spesso un riferimento per le nostre riflessioni e per iniziative di formazione promosse in ambito sindacale. Rendiamo omaggio alla sua memoria in questo mensile dell’Agenda con un ricordo affidato alle parole di Aladino Tognon e riproponendo un suo scritto che pubblicammo sulla nostra rivista Scuola e Formazione nel 2015

Ricordo per un maestro

di Aladino Tognon

Ritratto di Enzo Spaltro realizzato da Donato De Silvestri

"Non ho più niente da insegnarti, ora devi andare dal 'Maestro': Enzo Spaltro".
Così mi disse un altro grade maestro della psicologia di gruppo: Bruno Vezzani dell’università di Padova. Con la sua presentazione mi recai a Bologna ad incontrare il "Maestro". Ricordo che mi invitò a mangiare un piatto di gustose tagliatelle nella trattoria/ristorante che c’era sotto casa sua. Mi fece parlare molto ed io ero intimidito e imbarazzato ma fu la prima lezione del Maestro: saper ascoltare, far parlare in modo autentico chi ti sta davanti.
Qualunque sia il tuo ruolo devi saper ascoltare, devi aiutare l’altro a parlare. Spaltro sapeva ascoltare.
Alla fine della giornata mi propose di iscrivermi al 1° corso, post laurea, in Italia in relazioni industriali e psicologia del lavoro. Oggi si chiamerebbe Master.
Mi iscrissi e mi trovai immerso nel "mondo di Spaltro" fatto di speranza, ottimismo, fiducia negli altri, valorizzazione del conflitto come risorsa e non come guerra dove si uccide il nemico. In quei due anni di formazione il Maestro mi aiutò a costruire la mia "cassetta degli attrezzi" per diventare formatore.
Non voglio qui ricordare i suoi lavori, gli scritti e le innumerevoli aziende che hanno usufruito dei sui insegnamenti. Vorrei ricordarlo con un altro insegnamento che mi ha profondamente segnato.
Avevamo un impegno a Napoli invitati da un mio caro amico allora maestro elementare. Passammo prima per Roma dove il Maestro incontro alti dirigenti di Ministeri e alcune personalità del mondo industriale.
Arrivati a Napoli l’insegnante di scuola elementare ci invitò a casa sua e ci fece conoscere la sua famiglia. La moglie ci preparò una tipica cena napoletana.
L’insegnamento fondamentale che ebbi in tate contesto fu semplice ma, proprio per questo, fondamentale e profondo. Il grande prof. Spaltro dava la stessa importanza, la stessa attenzione, la massima valorizzazione sia all’insegnante e alla sua famiglia come, se non meglio, l’aveva data alle importanti personalità incontrate a Roma: ogni persona si ricorderà di te se sei riuscito ad ascoltarla e valorizzarla.
Vorrei chiudere queste semplici "pennellate" a ricordo di un Maestro ricordando un altro tratto fondamentale della sua persona: la semplicità.
Eravamo sugli altopiani di Rocca di Mezzo in Abruzzo. L’organizzatrice del convegno prof. Patrizia Marziale mi chiese cosa poteva fare per ringraziare il Maestro. Posi la questione ad Enzo che mi rispose: "desidererei tanto una bella fetta d’anguria". Ricordo la sua gioia davanti alla fetta d’anguria in quella serata magica a Rocca di mezzo. Ora mio caro Maestro sei nel "vento" che mi circonda e ti sentirò sempre attorno a me. 

La bella scuola contro la paura

di Enzo Spaltro

(da Scuola e Formazione, n. 1/2 2015)

Da molto tempo si sente in Italia desiderio di una scuola che non sia solo buona ma anche bella. Si sente il desiderio di una scuola capace di facilitare lo sviluppo futuro delle persone e non di prepararle solo a reagire alle esigenze del presente. Dire desiderio significa sperare qualcosa più che dire bisogno. Il desiderio viene definito come possibile e bello da realizzare, mentre il bisogno viene inteso come difficile, spesso impossibile da soddisfare. Una scuola bella deve gestire desideri e non solo bisogni. Necessita quindi un clima ottimista, di speranza e promessa; non pessimista, di paura e di minaccia. Chi legge certo dirà: ma se non abbiamo una scuola buona, come possiamo averla bella? E cosa vuol dire un clima ottimista? Cerchiamo di capire cosa significa una scuola bella o, meglio ancora, una bella scuola.

Incominciamo a dire che una bella scuola è il risultato di un bel clima. E il clima è il modo in cui le persone sentono l’ambiente in cui vivono. Chi lo sente brutto e chi cattivo, chi lo sente buono e chi bello. Ma il bel clima spesso non c’è, le situazioni cambiano velocemente e ad ogni cambiamento aumenta l’ansia e spesso la paura e la relazione tra i protagonisti di una scuola si incattivisce e da edu-cativa diventa edu-cattiva. Il problema della bella scuola nasce nel passaggio dalla millenaria cultura bellica alla nuova cultura delle connessioni, delle relazioni. Il problema della scuola bella consiste quindi, innanzitutto, nel passaggio dalla guerra alla pace e nella presenza contemporanea dei suoi protagonisti: la trasmissione della cultura passata e l’invenzione della cultura emergente. E siccome nessun potere rinuncia al controllo dell’asse ereditario della scuola e al delirio di immortalità, noi continuiamo a mentire a noi stessi e a costruire affrettatamente una cultura del benessere basata soprattutto sui bisogni del presente e non sui desideri del futuro. Tutto per poter dire e fare qualcosa, non importa cosa.

Oggi i protagonisti del dramma della scuola italiana, che vede i suoi asili e le sue scuole materne con la fama di essere tra le migliori del mondo e le università certo non con ugual fama, sono essenzialmente quattro: gli studenti, i docenti, il personale non docente e gli utenti. Ciascuno di questi protagonisti riduce la scuola a uno strumento per i propri interessi, ed è anche logico che sia così. Però il risultato di questa lotta di tutti contro tutti è deludente. Perché è difficile fare gruppo e analisi plurali dei problemi. Di conseguenza docenti e studenti sono in conflitto. Il personale non docente è in conflitto con gli utenti, i quali lamentano l’inadeguatezza della scuola senza fare molto per sostenerla, migliorarla e comunque aiutarla. Così il sindacato si occupa dei docenti e del personale non docente, gli industriali non si occupano dell’esigenze della scuola se non nei convegni, i docenti si preoccupano della loro sistemazione economica, di certo non tra le migliori, e gli studenti sono ormai abituati ad un titolificio in cui il capire e il sapere sono meno importanti di un titolo, di un credito o di un attestato. Nella realtà dell’apprendimento conta solo il certificato. Un rovesciamento, e così, sovente, trionfa l’assoggettamento. Meno apprendimento e più assoggettamento.

Però non bisogna mollare. Perché, nonostante ciò una bella scuola è possibile. Ci sono tre concetti da cui dobbiamo ripartire per costruire una scuola bella, cioè una scuola basata sulla speranza di una bontà futura. Sapendo che la speranza di benessere è già benessere. E che la bellezza fa da traghetto alla bontà. Inoltre ogni apprendimento è sempre apprendimento di benessere. Sono tre i concetti basilari per una bella scuola e sono fortemente legati fra di loro, si chiamano: gruppo, futuro e bellezza. La presenza di questi tre concetti porta all’appartenenza, alla durata e alla speranza. Invece l’assenza di gruppo porta alla solitudine e la possiamo chiamare u-topìa. La mancanza di futuro porta a vivere alla giornata e la possiamo chiamare u-cronìa. La mancanza di bellezza porta alla bruttezza e la possiamo chiamare u-calìa. Una bella scuola deve impegnarsi ad evitare utopìa, ucronìa e ucalìa. Questo è possibile, ma bisogna prima chiarirsi le idee sugli scopi ed i mezzi da progettare e realizzare.

La bella scuola futura deve avere una missione particolare ed una visione che consenta di affermare che non c’è gruppo senza futuro e non c’è futuro senza gruppo. Che non c’è bellezza senza futuro né futuro senza bellezza, che non c’è gruppo senza bellezza né bellezza senza gruppo. Questa terna di significati consente il passaggio dal malessere della guerra al “bellessere” della pace. Questo porta ad una bella scuola che si basa sui seguenti punti:

  • imparare è un piacere non un dovere
  • ogni formazione è formazione al benessere
  • si impara come soggetto, non come individuo, perciò esistono i soggetti collettivi
  • il benessere dovrebbe essere soggettivo e diffuso
  • il valore delle risorse non deriva dalla loro scarsità, ma sta sempre più nella loro abbondanza
  • la bontà etica si riferisce al passato, mentre la bellezza estetica si riferisce al futuro
  • la scarsità di risorse materiali si può compensare con risorse immateriali, non viceversa
  • non tutto quel che si insegna si impara, né tutto quello che si impara si insegna
  • ci sono cinque livelli di funzionamento sociale: coppia, micro piccolo gruppo, macro grande gruppo, mega comunità, rete virtuale.

Tre sono i valori che fondano la visione e la missione di una bella scuola: la cittadinanza, il bellessere ed il perdono. Cittadinanza come appartenenza ad una comunità, bellessere come speranza di un benessere futuro, perdono come riappropriazione di un futuro strappato alla vendetta.

Una bella scuola è come la democrazia: impossibile, ma insostituibile; una contraddizione che richiede di cambiare lo stesso modo di cambiare. Se una scuola non cambia le premesse con cui è stata progettata non potrà mai migliorare, cioè cambiare le conseguenze del proprio progetto. Da cui l’esigenza di cambiare il modo di cambiare. Se ai ragazzi si insegna solo diritto ed economia, non li si può accusare di essere litigiosi ed egoisti. Per averli collaborativi e altruisti, occorre insegnar loro psicologia e musica.

Per facilitare la realizzazione di una bella scuola occorre ricordarsi che:

  • è meglio inventare cose che ancora non esistono che scoprire cose che esistono già - la bellezza, soggettivamente, viene prima della bontà, come il futuro viene prima del presente
  • il benessere consiste nella possibilità e capacità di esprimere e di esprimersi
  • le cose che piacciono riescono meglio di quelle che non piacciono
  • la differenza qualitativa favorisce lo sviluppo, la disuguaglianza quantitativa lo ostacola
  • il sentimento motivante i protagonisti della scuola bella è l’autostima; quindi studenti, docenti, personale non docente e utenti dovrebbero esser messi in condizioni di potenziare reciprocamente la propria autostima
  • in una bella scuola occorre poter disporre sia di spazi vuoti, con valenza estetica e non a funzionalità specifica, sia di tempi vuoti di contenuti per sentire che non è la quantità che conta ma la qualità.

Il progetto deve consentire a studenti, docenti, personale non docente e utenti di sognare la bellezza di una istituzione che devono sentire di loro proprietà e di loro appartenenza. Il sentimento di sogno relativo a persone, situazioni e attività può essere un forte stimolo alla realizzazione di una bella scuola: sempre tenendo presente la terna: gruppo, futuro e bellezza.
Danilo Dolci scrisse nel 1974 le seguenti parole che esprimono l’idea di una scuola bella.

C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

...

C’è poi chi educa, senza nascondere
l’assurdo che è il mondo, aperto ad ogni
sviluppo, ma cercando
di essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato
.

Commentando queste parole possiamo dire che una bella scuola si fa solo insegnando ed imparando a sognare. Oggi la bella scuola sembra impossibile: senza luogo, senza tempo e senza bellezza; utòpica, ucrònica e ucàlica. La paura della disoccupazione e altre paure dominano. Paure usate dal colonialismo monetari-sta per assoggettare le giovani generazioni e per bloccare l’innovazione. Dobbiamo ricostruire il senso della bellezza dell’imparare e riappropriarci del nostro futuro. La bella scuola è quella dove si soddisfano i desideri e non si combattono i sogni.