Febbraio 2021

In questa pagina:
Cose da fare: In balìa dell'incertezza? (Maddalena Gissi)
Ricorrenze: Auschwitz è davanti a noi (Eraldo Affinati)
Ecologica: Per una politica della fraternità e dell’amicizia (Giannino Piana)
Hombre vertical: Non è troppo per me il sole, l’aurora? (Emidio Pichelan)
La poesia dei luoghi: La montagna, d’inverno (Gianni Gasparini)
Letture: Campi e di-versi amori (Leonarda Tola)
Sul filo del tempo: Il germinare silenzioso dell’aurora (Mario Bertin)
Un anno con Pinocchio: La Fata (Gianni Gasparini)
Uomini coraggiosi: Dare un senso alla vita (Cesare Maestri, intervista)

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COSE DA FARE

In balìa dell'incertezza?

di Maddalena Gissi

Se il 2020 è stato l’anno che è stato, non è che le cose si mettano bene, almeno sul piano della situazione politica, con quello appena cominciato, che tutti vorremmo fosse l’anno della ripresa. Quella ripresa per la quale il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha invitato tutti a farsi "costruttori", parte attiva in uno sforzo straordinario di responsabilità e coesione, essendo davvero fuori dall’ordinario la sfida che il Paese è chiamato ad affrontare.
Ricorrendo a un’abusata metafora bellica, è una guerra quella che stiamo combattendo contro il virus, e non è facile vincerla, come non sarà facile, a guerra finita, un’opera di ricostruzione di cui peraltro già adesso andrebbero poste le fondamenta. Ecco perché il vuoto determinato dalle dimissioni del governo Conte 2, con una crisi sul cui esito, mentre scrivo queste note, regna una totale incertezza (siamo in attesa che si compia il mandato esplorativo affidato al Presidente della Camera, Roberto Fico), è forse l’ultima cosa di cui avremmo avuto bisogno in questo momento.
La necessità, chissà ancora per quanto, di imporre sacrifici adottando misure più o meno stringenti per limitare la diffusione del contagio; quella, conseguente, di dare adeguato sostegno a settori produttivi e fasce lavorative costretti a una forzata inattività; le difficoltà intervenute per l’approvvigionamento dei vaccini, che rischiano di rendere più lunghi di quanto previsto e auspicato i tempi della campagna di vaccinazione; l’urgenza di definire, rispetto alle ingenti risorse rese disponibili in ambito comunitario, un credibile piano di investimento che è anche la condizione richiesta per potervi effettivamente accedere: questo il quadro di una situazione che è impensabile reggere senza un governo nel pieno delle sue funzioni, in grado di guidare il Paese con la necessaria autorevolezza.
Sono ampiamente note le ragioni che spiegano come mai, dopo le ultime elezioni, solo a fatica e sovvertendo ampiamente schemi di ragionamento e consuetudini da tempo consolidate si sono prodotte in Parlamento maggioranze del tutto imprevedibili e addirittura inconcepibili prima del voto. Già nel mensile dell’Agenda di settembre del 2019, (essendosi da poco insediato il secondo governo Conte), riflettevo sulla disinvoltura con cui vedevamo formarsi e sciogliersi i rapporti tra diversi soggetti politici, rendendo ormai privo di reale significato il termine “incompatibilità”.
Tutti possono stare assieme a tutti”, scrivevo allora; una (non) regola alla quale continuano a informarsi anche in questi giorni le dinamiche politico – parlamentari. Né un ritorno alle urne, per come sono attualmente congegnate le regole elettorali, potrebbe essere risolutivo rispetto alle attuali condizioni di instabilità.
Sull’eventualità di uno scioglimento delle Camere per andare a nuove elezioni pesano due preoccupazioni: la prima è legata al possibile incremento dei rischi di contagio connesso allo svolgimento della campagna elettorale e delle operazioni di voto; la seconda, forse la maggiore, è che per l’emergenza in atto non possa ritenersi sufficiente un’azione di governo limitata - per tempi non brevi - alla sola ordinaria amministrazione.
Non posso e non voglio, qui, dilungarmi oltre su considerazioni e valutazioni che richiederebbero ben altro spazio; credo che rendano bene l’idea, rispetto alle vicende parlamentari cui stiamo assistendo da qualche settimana, le parole di Annamaria Furlan quando parla di una crisi che segna una “distanza siderale tra il mondo reale e il dibattito della politica”.
Non sappiamo, al momento, quali effetti avrà la crisi sui vertici del Ministero dell’Istruzione, dove negli ultimi due anni si sono avvicendati tre ministri, sempre guidati dal medesimo presidente del Consiglio, alla testa di due diverse maggioranze. Lo ricordo solo per dire che non ci condiziona più di tanto, né ci turba, la variabilità dei nostri interlocutori, rispetto ai quali è sempre rimasta immutata la nostra disponibilità a rapportarci in modo leale e costruttivo, insieme alla richiesta di vedere riconosciuto e rispettato il nostro ruolo, in un contesto che valorizzi le relazioni sindacali come fattore importante di supporto ad azioni di buon governo.
L’auspicio è che non si trascini oltre il dovuto una situazione di instabilità e incertezza, viste le tante cose da fare su cui bisognerebbe mettere mano da subito; non solo per le tante criticità ancora in atto nell’immediato, ma in vista di un nuovo anno scolastico per il buon andamento del quale si devono porre da subito alcuni fondamentali premesse. Guai se si ripetessero gli errori e le omissioni che hanno pesato tantissimo sulla ripartenza dello scorso settembre dopo i lunghi mesi del lockdown.
In un suo corposo documento il nostro Consiglio Generale ha indicato qualche giorno fa gli obiettivi cui dare la massima priorità per non giungere impreparati all’appuntamento del prossimo settembre, al quale dobbiamo guardare con la speranza che la morsa pandemica si sia nel frattempo attenuata, ma con l’obbligo di fare quanto necessario perché studentesse e studenti possano tornare a frequentare pienamente e in sicurezza la loro scuola, la nostra scuola.

RICORRENZE

Il 27 gennaio scorso, come ogni anno, è stato celebrato il Giorno della Memoria per le vittime della Shoah. Nella cerimonia svoltasi al Quirinale e conclusa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, vi è stato, fra gli altri, l'intervento di Eraldo Affinati, insegnante e scrittore, che ha sottolineato l'estrema attualità di una ricorrenza da vivere non in chiave di commemorazione, ma di ammonimento e di impegno, personale e collettivo, a vigilare perché non abbiano mai più a ripetersi le tragedie del totalitarismo.

Auschwitz è davanti a noi

di Eraldo Affinati

Signor Presidente della Repubblica, autorità politiche, il Giorno della Memoria in ricordo della Shoah è stato istituito in Italia nel 2001, grazie a una legge dell’anno precedente, quindi prima della risoluzione presa dall’Assemblea delle Nazioni Unite, che è del 2005, e questo ho sempre pensato facesse onore al nostro Paese che, come tutti sappiamo, non può chiamarsi fuori rispetto allo “sterminio industriale e amministrativo” (è un’espressione del filosofo Theodor Adorno) di milioni di persone avvenuto alla metà del Novecento nel cuore dell’Europa civilizzata, visto il nostro diretto coinvolgimento nella sciagurata alleanza con il regime nazista che determinò l’emanazione delle leggi razziali nel 1938, quando, per fare un solo esempio, tanti bambini furono costretti ad abbandonare le loro aule da un giorno all’altro solo perché erano ebrei.
Ricorderò sempre l’emozione che Piero Terracina, uno degli ultimi testimoni, di cui sono stato amico, scomparso poco più di un anno fa, suscitò nei miei studenti alla Città dei Ragazzi di Roma, quando lo accompagnai di fronte a loro a raccontare la sua storia, dal momento della forzata interruzione scolastica, alla vera e propria deportazione, fino alla terribile esperienza del lager.
In questi venti anni dalla prima edizione del Giorno della Memoria dobbiamo ammettere che la consapevolezza dei giovani al riguardo è indubbiamente cresciuta, anche grazie all’opera di tanti insegnanti impegnati a far conoscere ai loro studenti le atrocità degli eventi accaduti. Eppure il ritorno della lebbra antisemita e negazionista è sotto ai nostri occhi con la dolorosa recrudescenza del razzismo neofascista e neonazista spesso amplificato dalla dimensione digitale dove l’offesa e l’insulto, anche per un deficit legislativo che dovremmo superare, sembrano affrancati dall’obbligo del risarcimento.
È vero: ogni generazione ricomincia da capo e noi adulti, qui parlo come educatore, non dovremmo mai dare niente per scontato. Soprattutto adesso che i protagonisti diretti sono sempre di meno e noi, venuti dopo, siamo chiamati a raccoglierne il testimone. Ma loro avevano la legittimità per parlare. Noi dovremo conquistarcela. Come possiamo fare? Ci sono due modi: studiare le fonti e guidare i nostri ragazzi alla perlustrazione dei luoghi dove avvennero i massacri: Auschwitz, Birkenau, Mathausen, Bergen Belsen, Sobibor, Treblinka, questi sono “terreni sacri”, come li definì Günther Anders, avvicinabili solo attraverso categorie demoniache, certo, ma anche Fossoli, la risiera di San Sabba, il campo di transito di Bolzano, il carcere di Via Tasso, le Fosse Ardeatine. Soprattutto dovremmo capire che la Shoah si può ripresentare in forme nuove, diverse dal passato, ma non meno efferate.
Per la prima volta, nella storia dell’umanità, si è ucciso a catena, come si costruiscono le automobili, è un’immagine evocata da Zygmunt Bauman in un libro intitolato Modernità ed Olocausto. Milioni di persone, ebrei, oppositori politici, cosiddetti asociali, omosessuali, senza dimenticare il popolo rom, vennero gassate e bruciate nei forni crematori all’interno dei campi di concentramento sparsi in tutta Europa. Ma lo sterminio era cominciato già molto prima in Germania con l’eliminazione dei malati mentali mediante iniezioni letali: la famosa operazione T4. La ferocia nazista si mostrò poi con le «eliminazioni caotiche», come le chiama Léon Poliakov, oppure le «operazioni mobili di massacro», secondo l’espressione di Raul Hilberg. I reggimenti speciali si spostavano in piccoli drappelli sulla linea del fronte russo, entrando nelle città conquistate dai nazisti insieme alle avanguardie della Wehrmacht. Mitragliarono a sangue freddo migliaia di ebrei davanti a enormi buche. Del resto, i rastrellamenti dei ghetti polacchi implicavano la fucilazione sul posto di vecchi, donne e bambini.
Naturalmente sapevamo che gli individui della nostra specie possono commettere i delitti più atroci, ma la Shoah ha rivelato la parte terrificante dell’essere umano. Le selezioni avvenivano sin dal primo arrivo dei deportati sulle banchine ferroviarie e potevano causare la loro morte immediata: il medico nazista si metteva al centro e con un cenno della mano divideva la fila, fra donne e uomini, bambini e adulti, sani e malati. Da una parte si andava al campo, dall’altra al gas. Nel lager tutto era orribilmente organizzato. C’erano le SS, demoni inaccessibili e solenni agli occhi dei reclusi, c’erano i capiblocco, prigionieri eletti a dittatori assoluti, c’erano i Sonderkommando, ai quali veniva affidata la gestione dei crematori. Il capobaracca, famigerato Kapò, aveva un potere illimitato sui prigionieri. Controllava i pasti, verificava l’appello, eseguiva le punizioni corporali.
I grandi scrittori dell’universo concentrazionario sono diventati punti di riferimento assoluto, non soltanto per chi, come me, è nipote di un partigiano fucilato dai nazisti e figlio di una donna riuscita a fuggire dal convoglio maledetto, anche per ogni essere umano: da Primo Levi a Robert Antelme, da Jean Améry a Tadeusz Borowski, da Margaret Buber-Neumann a Etty Hillesum, da David Rousset a Jorge Semprun, da Eli Wiesel a Ruth Kluger. Grazie a loro abbiamo decifrato i numeri tatuati sulla pelle, le schedature, la fame, le mutilazioni permanenti, la tortura sistematica, gli appelli, le impiccagioni.
Sono stati questi straordinari salvati, per usare l’immagine coniata da Primo Levi nel suo libro testamento, a farci comprendere il gorgo dove sprofondarono i sommersi. Senza di loro non avremmo memoria dei pezzi di pane nero, le brodaglie, i calci, le bastonate, le fustigazioni, gli assiderati, i lavori forzati, i cani addestrati ad azzannare i prigionieri, i famigerati esperimenti genetici sui gemelli del dottor Mengele…
«Il cupo mistero di quanto accadde in Europa non è per me separabile dalla mia stessa identità», scrisse George Steiner. Oggi, 76 anni dopo, noi siamo come i giovani soldati russi a cavallo che, alla fine del gennaio 1945, per primi avanzarono fra i reticolati. Continuiamo a procedere guardinghi, oppressi da quello che Primo Levi in La tregua definì «un confuso ritegno».
I carnefici non erano soltanto sadici, altrimenti sarebbe più facile liquidarli oggi. Si trattava, come ci ha spiegato Christopher Browning, di persone ordinarie che aprirono e chiusero una parentesi nella loro vita. Questo ci obbliga a riconsiderare le nostre esistenze. Ricordiamo sempre l’espressione, “banalità del male”, divenuta proverbiale, usata da Hannah Arendt per definire l’azione dell’oscuro burocrate Adolf Eichmann.
Dietrich Bonhoeffer, teologo antinazista fatto impiccare da Adolf Hitler nel lager di Flossenburg poco prima della fine della Seconda guerra mondiale, aveva sperato che le generazioni future potessero imparare dalla tragedia del totalitarismo. Così purtroppo non è avvenuto. Alcune sue parole preziose dovrebbero essere al centro di ogni patto educativo: «Per noi il pensiero era molte volte il lusso dello spettatore», disse, «per voi sarà completamente al servizio del fare». Si tratta, ancora oggi, di un compito ineludibile. Dovremmo intervenire appena vediamo l’oltraggio dei principi democratici in cui crediamo. Non basta eseguire il mansionario. Bisogna assumere la responsabilità dei contesti in cui operiamo. Adesso, qui ed ora. Nella vita privata e pubblica. Non chissà quando e dove. In tale prospettiva Auschwitz non è solo alle nostre spalle. È anche, sempre più, davanti a noi.

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ECOLOGICA

Continua la nostra riflessione sul concetto di Ecologia Integrale attraversando l’Enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco e fermandoci, con contributi diversi, sulle otto parole chiave presenti ed estratte da quel documento che abbiamo segnalato nell’Agenda Mese di Gennaio.
Prima però iniziamo il percorso con una ampia nota introduttiva generale all’Enciclica. L’abbiamo chiesta al Professor Giannino Piana che, definendo i tratti e i caratteri fondamentali di quel documento, osserva non esso non si accontenta “
di fornire degli orientamenti teorici, ma misurandosi concretamente con le questioni oggi sul tappeto offre indicazioni operative di grande interesse”. Preziose - conclude l’autore - anche perché redatte “con un linguaggio evocativo e immaginifico, che non disdegna il ricorso alla narrazione poetica e alla metafora del sogno”.

Per una politica della fraternità e dell’amicizia

A proposito dell’enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco

di Giannino Piana

L’enciclica “Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amore sociale”, che papa Francesco offre all’attenzione non solo di “tutti i fratelli e le sorelle” ma anche di “tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose”, si sviluppa attraverso un percorso non lineare ma circolare o, più propriamente, “a spirale” – non è questo del resto il significato etimologico di “enciclica”? – in quanto le tematiche trattate vengono di continuo riprese – il che comporta necessariamente qualche inevitabile ripetizione – dando vita a progressivi approfondimenti che mettono in evidenza sempre nuovi sviluppi e aprono nuove prospettive.
Il documento papale ruota attorno a due categorie, la fraternità universale e l’amicizia sociale, due modalità diverse e complementari di vivere la carità. La prima – la fraternità universale – riguarda il vincolo che ci unisce come fratelli all’intera famiglia umana e ci rende responsabili del destino di tutti gli uomini; la seconda – l’amicizia sociale – ha come oggetto le persone con cui entriamo direttamente in contatto e con le quali intratteniamo relazioni immediate nei vari ambiti della vita associata.

1. Gli ostacoli odierni ai valori in gioco
Papa Francesco introduce la riflessione con una serie di spunti di analisi sulla situazione attuale, denunciando gli ostacoli che si oppongono al riconoscimento di tali categorie. Si tratta di una lunga rassegna di fenomeni che – come l’enciclica sostiene – costituiscono veri segni di un “ritorno all’indietro” (n. 11): dai nazionalismi chiusi ed esasperati ai populismi demagogici e di pura propaganda; dalle nuove forme di xenofobia e di razzismo al mancato riconoscimento dei diritti umani; dalle crescenti diseguaglianze sociali tra i popoli e le classi sociali alle derive della comunicazione digitale che provocano dipendenza e isolamento: e, infine, dalla presenza di conflitti anacronistici – lo scenario delle guerre tende ogni giorno a dilatarsi – alla colonizzazione culturale delle aree geografiche più povere (nn. 11-14).
Ma, al di là dei gravi fenomeni denunciati, papa Francesco pone soprattutto l’accento sulle radici culturali e socio-politiche, che sono alla base dell’affermarsi dei nuovi egoismi di massa e della perdita del senso sociale. Particolare attenzione è qui riservata alla perdita della coscienza storica (n. 13) da cui scaturisce una forma di decostruzionismo caratterizzato dall’assenza di riferimenti stabili ereditati dal passato e dallo svuotamento dei valori, nonché dall’impossibilità di elaborare progetti per il futuro (n. 15). E questo in un momento nel quale la stessa percezione del presente risulta illusoria, in quanto, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, siamo spinti a sostituire il “reale” con il “virtuale”, perdendo il gusto e il sapore della realtà (nn. 42-43).
Ma la critica dell’enciclica si appunta soprattutto sull’incapacità del sistema economico capitalista di far fronte ai bisogni delle persone, soprattutto delle classi più povere, e sulla debolezza della politica asservita in larga misura ai poteri oggi egemoni, quelli dell’economia e dell’informazione. Il che concorre, da un lato, ad incrementare gravi situazioni di ingiustizia – si pensi alla crescita delle diseguaglianze sociali (n. 22) – e riduce, dall’altro, l’azione politica a semplice scambio tra interessi corporativi con l’attenzione privilegiata a quelli delle corporazioni forti e la penalizzazione di quelli delle corporazioni deboli, e con l’inevitabile caduta in pericolose forme di populismo e di sovranismo autoritario.
Papa Francesco non manca tuttavia di segnalare anche alcuni indici positivi. Egli ricorda come la pandemia che stiamo tuttora attraversando non ha smascherato soltanto le nostre false sicurezze denunciando la nostra vulnerabilità, ma ha messo anche in luce la nostra comune appartenenza, la consapevolezza che tutto è nel nostro mondo connesso e che nessuno si salva da solo (n. 32). E sottolinea di conseguenza con forza il dovere dell’esercizio di una forma di corresponsabilità nei confronti dell’intera famiglia umana, facendo “risuonare l’appello a ripensare i nostri stati di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza” (n. 33).

2. Le categorie antropologiche e l’orizzonte teologico
Al centro della proposta dell’enciclica vi è la persona umana, in quanto essere relazionale, il quale “non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri” (n. 87) e la cui dignità affonda le radici nel valore del proprio essere. “Il mondo esiste per tutti – osserva papa Francesco – perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti” (n. 118).
Fraternità universale e amicizia sociale hanno pertanto le loro basi in questo dato costitutivo, che conferisce alla dimensione sociale una valenza universalistica, che non va tuttavia interpretata come una forma di omogeneizzazione che distrugge le peculiarità di ogni persona e di ogni popolo; va invece concepita come unità nella e della differenza. “La vera qualità dei diversi Paesi del mondo – si legge nell’enciclica – si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi di crisi” (n. 141).
Il nodo critico che in proposito si propone come una vera sfida è oggi la questione dell’accoglienza dei migranti che il papa affronta suggerendo l’adozione di alcuni atteggiamenti riconducibili a quattro verbi: “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” (n. 129). Condizione per la messa in atto di questi orientamenti non è la rinuncia alla propria identità culturale e religiosa, ma il riconoscimento dell’importanza delle diversità etniche e culturali che vanno valorizzate come espressione della ricchezza dello spirito umano, dando vita a una “cittadinanza” basata sull’uguaglianza dei diritti e promuovendo politiche solidali con progetti capaci di favorire l’integrazione (nn. 130-131).
A complemento di queste motivazioni di ordine antropologico e come risposta alla domanda di senso ultimo papa Francesco rinvia – facendo riferimento al carattere trascendente dell’esperienza umana nel mondo – alla parabola del buon samaritano, la quale conferisce ai concetti di fraternità e amicizia una effettiva concretezza. A venire contrapposti sono qui due comportamenti che riflettono due stili di vita: da un lato, l’indifferenza – quella del levita e del sacerdote – dall’altro, la prossimità – quella del samaritano.
L’etica del samaritano è l’etica della fraternità il cui contenuto fondamentale è la carità, la quale coincide con la ricerca senza condizioni del bene dell’altro, superando pregiudizi, interessi, barriere storiche e culturali. Essa va oltre la vicinanza; comporta che ci facciamo vicini a coloro che sono in stato di difficoltà senza domandarci se fanno parte della nostra cerchia di appartenenza (capitolo secondo).

3. La politica come via privilegiata
Il terreno privilegiato per dare attuazione alla fraternità universale e all’amicizia sociale è per l’enciclica la politica. Il ricupero della centralità che va ad essa riconosciuta è legato al superamento di alcuni ostacoli, in particolare l’economia neoliberista, il populismo e la tecnocrazia. Il neoliberismo – lo si è già rilevato – è fatto oggetto da papa Francesco di critiche severe. “Il mercato da solo – scrive – non risolve tutto, benché a volte vogliono farci credere questo dogma di fede neoliberale” (n. 168). A sua volta il populismo costituisce una vera degenerazione della politica, poiché trasforma la capacità di interpretare il sentire di un popolo nella ricerca dell’interesse immediato scadendo inevitabilmente in una forma di clientelismo che fa passare la politica da ambito di promozione del bene comune in luogo della tutela di interessi particolaristici.
Ma l’ostacolo più serio è per l’enciclica l’assunzione del paradigma efficientista della tecnocrazia. Il papa ritorna con frequenza anche in altri documenti (si veda in particolare la Laudato si’) sulla rilevanza assunta da questa ideologia che permea di sé le coscienze e che trova terreno fertile nei vari campi in cu si svolge la vita sociale. L’enorme successo acquisito oggi dalla tecnica mentre alimenta una sorta di prometeismo che si traduce nell’esercizio di un dominio incondizionato sulla realtà, conferisce alla politica un carattere del tutto pragmatico e contingente, impedendole di proiettarsi con una visione nel futuro (n. 177).
Il superamento delle tre tentazioni segnalate esige – sottolinea il documento papale – l’acquisizione dei valori della carità e della verità nelle loro reciproche implicazioni. La carità, di cui la politica è l’espressione più alta, si esercita con l’assunzione di un atteggiamento di piena disponibilità verso i bisogni delle persone, soprattutto di quelle – individui e categorie sociali – che vivono in situazioni di grave ingiustizia. Ma esige anche che ci si lasci guidare dalla verità evitando di cadere nella tentazione di opinioni contingenti o di stati emozionali: “Senza la verità – si legge nell’enciclica – l’emotività si svuota di contenuti relazionali e sociali. Perciò l’apertura alla verità protegge la carità da una falsa fede che resta ‘priva di respiro umano universale’” (n. 184). L’insistenza su questo tema – il termine “verità” ricorre ben 69 volte nel testo – è dovuta in particolare al fatto che la verità costituisce l’antidoto a una forma di relativismo imperante che, negando l’esistenza di principi universali riduce le leggi a mere “imposizioni arbitrarie e ad ostacoli da evitare” (n. 206). L’attuale crisi della politica – l’enciclica lo ribadisce con frequenza – non può trovare soluzione mediante il semplice ricorso a procedure formali; ha bisogno come presupposto imprescindibile di un ethos culturale condiviso.

4. La promozione della pace
In questo contesto papa Francesco inserisce la questione della pace cui sono dedicate pagine tra le più belle dell’enciclica. La sua promozione è un compito laborioso, frutto di un patto sociale teso a bandire ogni forma di ostilità preconcetta e di violenza. “Ogni violenza commessa contro un essere umano – si legge nel documento papale – è una ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci ‘diminuisce’ come persone […]. La violenza genera violenza, l’odio genera altro odio, e la morte, altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile” (n. 227).
Condizione fondamentale, perché la pace si realizzi sia nell’ambito delle relazioni interpersonali che in quelle sociali, è lo sviluppo di una “cultura del dialogo” (o del “confronto”). Una cultura che concorra a sviluppare il senso della tolleranza e della collaborazione reciproca, favorendo forme di convivenza ispirate alla solidarietà. Una cultura – quella del dialogo – che comporta per crescere l’esercizio della pazienza e la pratica della gentilezza (n. 222); habitus personali che consentono di legare tra loro istanze diverse, cercando punti di contatto, gettando ponti e progettando soluzioni in comune. Ma comporta soprattutto la coltivazione di due importanti virtù: la riconciliazione e il perdono. Se la prima – la riconciliazione – è frutto di un intenso lavoro di mediazione con il ricorso al negoziato e all’arbitrato; il secondo – il perdono – implica che si faccia spazio all’irruzione della gratuità, la quale infrange la spirale della vendetta. Non si tratta di assentire a una forma di “riconciliazione generale” o di pseudoperdonismo che pretendono di chiudere le ferite per decreto o di coprire le ingiustizie con un manto di oblio, ma di cercare la giustizia e il diritto, evitando la ritorsione che alimenta odio e violenza. “Quando i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel passato – scrive papa Francesco – ci sono silenzi che possono significare il rendersi complici di gravi errori e peccati. Invece la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente” (n. 144).
La semplice proclamazione dei valori tuttavia non basta. Occorre dare vita a scelte concrete, volte ad affrontare alcune grandi emergenze odierne – dalla fame alla mancanza di una terra propria, dalle situazioni di guerra al riconoscimento dei diritti di tutti a partire da quelli delle categorie più povere – e aprirsi a forme sempre più ampie di collaborazione internazionale (n. 172). La constatazione che a produrre la violenza è spesso la presenza di strutture ingiuste rende evidente la necessità di un impegno costante a dare vita a una società che superi le inequità esistenti e che bandisca decisamente la guerra e la pena di morte come misure immorali e del tutto anacronistiche.

5. Il contributo delle religioni
L’enciclica assegna infine, nella crescita dei valori ricordati, un importante ruolo alle religioni. Lo stimolo alla stesura del testo dell’enciclica è venuto del resto a papa Francesco dall’incontro nel febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il grande imam Ahamad Al-Tayyeb per ricordare che Dio “ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità e li ha chiamati a convivere come fratelli tra loro” (n. 5). La consapevolezza che la fraternità si fonda sulla coscienza di essere figli dello stesso Padre, conferisce ad essa un carattere trascendente che ne avvalora la portata e fa delle religioni un bene per la intera società.
Per questo l’enciclica insiste nel sottolineare la necessità che esse vengano riconosciute come una componente essenziale della realtà sociale e, pur affermando il rispetto che devono avere per l’autonomia della politica, non manca di rivendicare il diritto a una loro presenza nel dibattito pubblico, difendendo la loro libertà di espressione (nn. 272-275). L’esercizio di questa funzione implica tuttavia il dialogo e la collaborazione tra di esse. Un dialogo che non esclude certo la preservazione delle proprie diversità. Ma comporta, perché si possa giungere a un reciproco arricchimento, una solida acquisizione della propria identità e insieme la convinzione di essere posseduti da una parte limitata di verità e di poterne, conseguentemente, ricevere preziosi segmenti dal confronto con gli altri (nn. 277-280).

6. Conclusione
Il tracciato percorso dall’enciclica ci riporta a considerare, in una prospettiva più completa, il significato dei due termini ricorrenti ed intrecciati – qualche volta sovrapposti – che costituiscono il tessuto connettivo delle diverse proposte offerte dal documento papale. Fraternità universale e amicizia sociale rappresentano – come si è detto fin dall’inizio – due poli, dialetticamente compresenti, che rinviano alle due dimensioni dell’amore, il quale implica nello stesso tempo profondità (intensità) ed estensione (dilatazione). La carità va infatti esercitata nei confronti di ciascuno e nei confronti di tutti.
Questo significa che la “prossimità” non esaurisce la “fraternità”, la quale ha un orizzonte molto più ampio, in quanto si estende all’intera umanità; e che occorre allora trovare il giusto equilibrio tra i due livelli. L’enciclica si muove in questa direzione, non accontentandosi di fornire degli orientamenti teorici, ma misurandosi concretamente con le questioni oggi sul tappeto e offrendo indicazioni operative di grande interesse. Redatta con un linguaggio evocativo e immaginifico, che non disdegna il ricorso alla narrazione poetica e alla metafora del sogno, essa costituisce, in un momento difficile come l’attuale, un importante messaggio di speranza.

HOMBRE VERTICAL

Non è troppo per me il sole, l’aurora?

di Emidio Pichelan

Felix qui potuit rerum conoscere causas, fortunato chi arriva a conoscere la cause delle cose, scriveva secoli fa Virgilio. Gli uomini volevano esseri razionali, sudavano le mitiche sette camicie alla ricerca di trovare le risposte razionali (oggettive) agli avvenimenti altrimenti “non spiegati” con i canoni della superstizione, della religione, del fato.
C’erano le cose e c’era la memoria e c’era la storia e c’era la narrazione e c’era la spiegazione. L’uomo si accettava per quello che era.
Il Grande Fratello di 1984 (Orwell, apparso nel 1948), il signore del nuovo mondo e del nuovo uomo che verranno, ha bisogno di eliminare la memoria per distruggere le cose che riguardano il passato, diventato ingombrante e fonte di cattivi pensieri e di peggiori sentimenti. Una ventina d’anni dopo, nelle celebri pagine distopiche di R. Bradbury (del 1960) e nelle immagini di F. Truffaut (“Farenheit 451”, del 1966; il titolo del libro e del film indica la temperatura della combustione della carta nella scala Farenheit) è assolutamente proibito leggere libri: perché i fatti narrati abbelliscono la realtà, costringono alla riflessione e impediscono alla gente di essere felice. Era ieri, l’uomo interrogava sé stesso, e rifletteva sul cosmo, sul potere, sul bene e sul male. Sulla sua felicità e sul mondo reale, quello vero che esiste indipendentemente da noi.
Non è troppo per me il sole, l’aurora? / Che cosa può farne l’umana creatura? / Sono qui un istante, un solo minuto: / non saprò del dopo, / non l’avrò vissuto. / Come distinguere / il tutto dal vuoto?” (W. Szymborska).
Mentre la delicata poetessa polacca (Nobel per la Letteratura) si interroga sulle epifanie quotidiane del sole e dell’aurora e della luce e dell’alternarsi del giorno e della notte, la variante contemporanea dei negazionisti e sovranisti e complottisti – sono tanti e sono vocianti e sono agguerriti e sono fanatici - non sente nessun bisogno e ancor meno nessuna voglia di porsi le domande e di cercare le risposte. Ha deciso, con un semplice tratto di volontà, di rifiutare la storia, la memoria, l’avvicinamento alla verità. Non stanno bene né di testa né nella loro pelle, non gli piace il mondo reale; nell’impatto con i limiti e le contraddizioni dell’uomo (un albero storto, nelle parole di un filosofo autorevole), preferiscono negare la realtà e rifugiarsi in un mondo parallelo, con particolare predilezione per (un falso) Medio Evo nordico (la razza pura ariana). Nel loro mondo parallelo esiste una sola verità (la loro), un solo mondo (il loro), un solo diritto (il loro), un solo dovere (il loro), un solo leader (il loro).
È problematico parlare di storia, memoria, Shoah, leggi razziali con chi rinuncia alla memoria, alla storia e alla sua narrazione e interpretazione e, ancor più, con chi disdegna fare i conti con il proprio passato. È praticamente proibitivo parlare con chi si è costruito un mondo parallelo. A noi, comuni mortali, alle prese con le domande di sempre (chi siamo?, dove andiamo?, cos’è il bene?, cos’è il male? come approssimarsi alla verità?) non rimane che dire e ripetere che l’uomo è un meraviglioso, sorprendente essere meraviglioso, ma contraddittorio, limitato, mortale e che dal principio di realtà bisogna partire, senza del quale non riusciamo ad accettarci per quello che siamo.

LA POESIA DEI LUOGHI

La montagna, d’inverno

di Gianni Gasparini

La montagna è un amore speciale. Chi ama la montagna sa di amarne ovunque gli spunti, gli accenni, gli inizi. Quelli che hanno la passione della montagna la riconoscono anche al mare, nei luoghi scoscesi, talvolta persino in città.
Ma poi c’è un luogo, una valle, un monte che ciascuno lungo il filo degli anni ha eletto come la propria montagna, anzi come la montagna. Così è anche per me. Il mio luogo si chiama Ayas, nella valle d’Aosta, ed è disteso davanti al monte Rosa che si apre come un ampio ventaglio fino al Cervino appena visibile oltre i colli più alti.
La montagna in questo inverno nevoso in cui la frequentazione umana è quasi impedita dalla pandemia appare molto particolare. Uguale ma diversa.
Uguale perché qui le stagioni si vedono e si sentono, perché i boschi ricoprono sempre i fianchi dei monti, perché le cime dei Quattromila sono lassù ghiacciate e intervallate dal bruno scuro di rocce marezzate di bianco.
Diversa perché noi ci confrontiamo oggi con le montagne che abbiamo costruito progressivamente nel pensiero. La montagna infatti è anche una costruzione sociale, oltre che una realtà fisica evidente. Essa corrisponde, in fondo, alla percezione che ne abbiamo. In questo inverno dell’anno Duemilaventuno l’alta montagna delle Alpi occidentali appare, a chi la percorra nella sua gelida ambientazione, come avvolta da un’atmosfera di silenzio profondo e speciale.
Conosco nel mio luogo ambienti e sentieri frequentati decine di volte, in tutti i mesi dell’anno. Credo di non avervi mai trovato un senso così intenso di solitudine come in questi giorni di fine gennaio: quasi nessuna presenza umana, nessun uccello, nessun animale. Solo abeti e larici innevati. E però, sullo strato bianco, tracce del passaggio di caprioli, lepri, camosci.
Mi metto ad ascoltare il bosco: lui vive bene così, nel suo perfetto equilibrio. La terra, la vegetazione e gli animali in letargo o che passano furtivi sul manto nevoso non hanno bisogno della presenza umana, tanto meno d’inverno. I giorni e le stagioni si susseguono seguendo un ferreo e dolce ritmo che è completamente indipendente dall’azione degli umani. Lo sapevo bene, e questo inverno me lo insegna ancora una volta. Tra pochi mesi il sottobosco si rivestirà di miriadi di crochi bianchi e viola, gli esili stecchini dei prati appena disinnevati. E poi appariranno le tussilaggini, le primule, gli anemoni, le genziane e le genzianelle, e via via tutti gli altri fiori che preludono e poi daranno sostanza ad una nuova stagione. Fiore: mi soffermo un momento sul nome e mi chiedo perché in italiano non sia un sostantivo femminile, come in francese o in spagnolo: une fleur, la flor. Come sarebbe diverso pensare a un fiore come ad una creatura femminile, come un essere a cui anela un amante in cerca di bellezza.
Continuo a camminare nel bosco. Scorgo ora un piccolo volatile che si arrampica su un albero: è una cincia che cerca di trarre un minimo nutrimento da un larice, approfittando del fatto che la neve si sfalda e cade quasi subito dai suoi rami. Eccomi al ponte: il corso del torrente si intuisce appena, ma in due o tre punti la neve si è aperta e lascia intravedere l’acqua. Scorre, l’acqua, e fa comprendere nel suo linguaggio che tra non molto la neve si scioglierà e alimenterà il corso del torrente. Scendendo a valle il rio si unirà ad altri torrenti per dar vita ad un tripudio d’acque copiose preludio della primavera.
Esco dal bosco, il sole è tramontato, il freddo è aumentato improvvisamente e prelude alla notte che ricoprirà tutto il monte come una invisibile coltre.
Rientro nella baita circondata da pecci colmi di neve e da larici che ospitano sottili frange bianche sui rami. Ogni albero ha il suo carattere, il suo “spirito”, e qui in alta montagna lo comunica anche in inverno: il peccio, o abete rosso, accoglie sui suoi rami frondosi grandi quantità di neve, fino quasi a non poterla più sopportare, e dopo un po’ di giorni la scarica, la scuote via come farebbe un uccello con le ali. Il larice invece, che perde ad ogni autunno gli aghi caduchi, ha una struttura che non consente alla neve di accumularsi: perciò la accoglie in misura limitata, qualche centimetro alla volta, e la lascia libera di cadere poco dopo.
Durante e subito dopo le nevicate i larici mostrano esili dita affusolate protese verso il cielo: forse per dirigere un canto silenzioso che si propaga nel bosco e che i nostri sensi non possono intendere.

LETTURE

Campi e di-versi amori

di Leonarda Tola

L’ultimo libro di Umberto Piersanti (1941), “Campi d’ostinato amore”, è stato pubblicato nel novembre 2020 (La nave di Teseo): meritoria ogni pubblicazione, e soprattutto di un’opera di poesia, in quell’ anno di paure e dei morti che hanno seppellito altri morti, in solitudine. Piersanti è chiamato “il poeta di Urbino”: non una mera notazione biografica ma il marchio di qualità e di valore perché la grande arte e la ‘ventosa’ città dei Montefeltro costituiscono un binomio naturale. È Urbino a coniugarsi con la poesia e a dare lustro ai poeti: allo stesso modo, Raffaello Sanzio è il “pittor d’Urbino” nei versi deamicisiani della nostra antica infanzia, dedicati alla madre: “Non sempre il tempo la beltà cancella...”.
Che poesia è quella di Piersanti, da dove nasce e lungo quali ramificazioni gemma, fiorisce e si espande? “Ognuno ha un setaccio attraverso il quale passano certi grani” dice il poeta in un’intervista lasciando intendere che la parola poetica è il distillato di una faticosa opera di vaglio, è tutto quel che resta dopo la millimetrica selezione con cui le parole arrivano al verso: chicchi di grano che rifulgono quando siano svestiti dalla pula “che alla battitura/ si dissolve infinita / dentro nell’aria”.
Il libro raccoglie 150 poesie scritte dal 2015 al 2020 suddivise in 4 sezioni: a parte, 3 poesie pensate e scritte nei mesi del Covid, in quella primavera a cui il poeta fa risentiti rimproveri : “Primavera bugiarda”, un tempo fuori stagione che inquieta e “che gli umani serra/ dietro sbarrate porte/e di veleni insozza/persone, erbe e oggetti”; “Primavera triste” sotto un cielo beffardamente azzurro, con il sole che splende su “campi deserti” e “piazze vuote”, “e t’entra dentro il sangue/e lo raggela”; “Una strana primavera”: “primavera crudele che s’inoltra/ col suo riso sinistro/di cieli e campi,/di fiori,/d’acque azzurre/ e venti lievi,/da dietro le finestre/ e stretti ai muri,/del sortilegio/ s’attende la fine, guardare un’erba/ o un fiore/ senza il male nascosto/dentro i colori“.
La poesia di Piersanti fiorisce nel desiderio di salvare dalla “nebbia degli anni” il passato, rivelando angoli segreti e luminosi del ricordo; il passato è “una terra remota” che riemerge cosparsa di cocci aguzzi o smussati e levigati, di memorie; l’ispirazione si nutre delle diverse stagioni del tempo e della vita da risvegliare con profondo sentimento delle cose e intima consonanza con le persone. Sono così evocate le “vicende” e le storie di una guerra e della sua fine, come in “Settembre 1943” attraverso gli occhi del bambino che si perde e “s’acqueta” nello sguardo del padre che ha smesso la divisa: “...tu fuori della Storia /nell’abbraccio del padre / solo e felice”.
Quello che per il poeta è sentimento delle cose trova nell’esperienza e conoscenza della natura una fonte sorgiva di costruzione e invenzione dell’armonioso verso. Siamo immersi e messi al confronto con una sontuosa nomenclatura di piante, fiori e uccelli di “questa bella famiglia/d’erbe e animali”. Veniamo trasportati per radure e greppi ,crochi e muschi, tra pruni e rovi, il trifoglio e l’erba medica (spagna in urbinate) a sostare e calpestare la madre terra chiamata con i giusti nomi ,tutti da imparare, dei suoi cangianti volti e colori in un attraversamento ora faticoso ora sciolto: un incessante trascolorare dei luoghi del cuore, i Campi fuori e dentro di sé, spinto da ostinato amore del creato, in ascolto del dolore delle creature. Soprattutto Jacopo, il figlio colpito da una grave forma di autismo a cui il libro è dedicato: “… ma il tuo male/figlio delicato,/quel pianto che non sai/se riso, stridulo/che la gola t’afferra/più d’ogni artiglio,…”.
Piersanti sa come attingere ai versi impressi nella memoria italica della lingua: Foscolo e Leopardi, Carducci Pascoli e D’Annunzio, fino a Montale, Luzi e Caproni... I maestri. Ne deriva un ordinato e lucido pentagramma dove vibrano Idilli, Canti e Odi, poesia nostra, introiettata in profondità, del sentimento consapevole della vita. Maestria del comporre appresa a una grande scuola: “lo bello stilo (stile) che m’ha fatto onore”.

SUL FILO DEL TEMPO

Il germinare silenzioso dell’aurora

di Mario Bertin

Se il mese di gennaio è l’alba del nuovo anno, nel mese di febbraio ne potrebbe essere individuata l’aurora. L’aurora non è ancora il giorno, anche se è essa a indurre la luce dell’alba. E’ una promessa. E’ una speranza. Che racchiude ancora aggrovigliati contrari. “E’ la vita prima del tempo”, scrive Maria Zambrano. L’aurora è un auspicio. Un presente sospeso, al modo in cui sono i nostri giorni difficili. L’aurora è una percezione che non reca ancora il senso, ma ne fa intravvedere la possibilità. E’ una luce oscillante tra la ragione e il suo opposto. Che non è però il nulla. E’ come l’amore, dice sempre la filosofa spagnola, che “quando si nega deve essere pegno e promessa di altri mondi, altri sogni, altri esseri d’amore”.
Anche la lingua di Maria Zambrano è una lingua aurorale. Non esprime mai compiutamente il concetto. Non lo enuncia. Esprime la complessità del vivere compresa attraverso l’attività del cuore. E’ una lingua del cuore. Dice quello che il cuore intende. La sua è una parola geroglifica. Quindi una parola “misteriosa”, nel senso che non rivela il suo segreto ultimo. Lo lascia alla scoperta del lettore. E’ una parola da conquistare. E’ una parola piena di silenzio.

 

   Più che dallo spessore delle tenebre, l’alba viene annunciata da un silenzio speciale; un silenzio rivelatore, che l'inquietudine di colui che attende o che spera, avverte come imminenza: «arriva già, sta arrivando». E il condannato, non a morte ma a morire, lo percepirà in una forma impossibile da trascrivere, anche qualora gli venisse concesso di restare in vita.
   Ma se non si attende e non si teme nulla, allora apparirà la rivelazione di questo silenzio così com'è, senza promesse. La promessa nasconde soventemente la presenza reale, la rivelazione vivente. Il «nec spe nec metu» stoico mostra allora il suo senso pieno. Libero, l’animo abbandona l’anima al suo vagare, alla sua originaria recettività. E nell'istante del silenzioso germinare dell'Aurora, se si è liberi dalle sue affezioni, solo apparentemente contrarie, del timore e della speranza, sì può ascoltare il silenzio ineffabile, indicibile, il silenzio al di là di ogni definizione e di ogni concetto. È il silenzio della concezione della luce, anche se grazie alla indiscrezione della scienza sappiamo che così non succede, che quella luce è già lì, e che basta che la terra, e non il sole, sua fonte, giri leggermente perché essa appaia.
   Ma quando non si spera e non si teme, la scienza rassicurante e pianificatrice perde il suo potere, sfuma. E allora il silenzio della concezione della luce, quello che fa di essa luce vivente e non solamente offerta alla percezione, si fa sentire; si espande senza limiti, mansueto, come olio della vita, come se in esso nascesse la vita, la vita indefinibile della luce. La vita inafferrabile che è luce essa stessa, una cosa sola con essa.
   Per prima giunge l'alba: appena un chiarore silenzioso che cancella le tenebre più che disfarle. L’ora della libertà, l'interregno dove tutto è possibile, dove tutto è amore che obbedisce senza fatica, il regno interposto tra i due regni della luce e della oscurità. Il regno che non è regno, perché non ha altro imperativo che quello dell'amore inconsapevole, l'amore beato, ancor privo d’ombra.
   Fa giorno.

(Maria Zambrano, Dell’aurora, a cura di Elena Laurenzi, Marietti, Genova 2000)

UN ANNO CON PINOCCHIO

La Fata

di Gianni Gasparini

Contrariamente alle apparenze che la farebbero identificare con una buona mamma, la Fata è probabilmente il personaggio più complesso, sfaccettato e sfuggente delle Avventure di Pinocchio.
Essa ha una relazione singolare con il tempo, un rapporto che non è quello degli umani. Abita da più di mille anni nei pressi di quel bosco che ospita un grande albero, quell’inquietante quercia a cui Pinocchio viene impiccato dalla Volpe e dal Gatto per farlo morire. E proprio la morte è lo sfondo esplicito della sua prima apparizione come Bambina dai capelli turchini nella casina bianca a cui il burattino bussa inutilmente nel tentativo disperato di salvarsi dai suoi inseguitori, i quali vogliono impadronirsi delle monete d’oro donategli dal burattinaio Mangiafuoco: essa dice infatti di essere morta e di attendere di essere portata via. La morte verrà poi esplicitamente evocata, stavolta per Pinocchio, quando questi, salvato dall’impiccagione per l’intervento del Falco mandato dalla Fata ma a letto ammalato e febbricitante, rifiuterà in un primo tempo di prendere la medicina perché amara. La Fata è la regina delle metamorfosi, anzitutto di quelle che reggono le sue apparizioni nel corso del racconto: bambina morta nella casa del bosco, fata potente e dominatrice degli animali nella casa-palazzo dove accoglie Pinocchio salvato dall’impiccagione, e poi ancora donnina che si fa aiutare dal burattino a portare una pesante brocca nell’isola delle Api industriose, spettatrice dell’esibizione a teatro di Pinocchio trasformato in un ciuchino ammaestrato, capretta che incita su uno scoglio Pinocchio a non farsi inghiottire dal Pesce-cane, per terminare con la Fata-quasimamma che premia il burattino facendolo risvegliare tramutato in un bambino o ragazzino in carne ed ossa. Anche quest’ultima è una metamorfosi: si tratta anzi della trasformazione a cui tutto il racconto tende e che, operata per diretto intervento della Fata, si verifica in Pinocchio ma di riflesso anche in Geppetto e nel loro appartamento. Nella scena finale dell’ultimo capitolo, infatti, il ragazzino ben vestito in cui si è trasformato Pinocchio è accompagnato da un dignitoso “intagliatore in legno” che corrisponde alla trasformazione subita di riflesso anche dall’ex-falegname povero che era Geppetto.
La Fata è poi la signora degli animali, i quali obbediscono ai suoi voleri: dal falco al can-barbone e ai topini, dai picchi ai pesci, per non citare quel personaggio sicuramente a lei devoto – e forse un suo vero e proprio avatar – che è il grillo-parlante. È proprio lui, come risulta nel capitolo finale (XXXVI), ad accogliere in una capanna Pinocchio e Geppetto arrivati sulla spiaggia dopo essere scampati dal terribile pesce-cane. Soltanto quest’ultimo, il mostro con cui Pinocchio deve confrontarsi da solo, sembra non prevalere sulla signoria che la Fata esercita sugli animali.
Credo che, soprattutto, vada messa in luce l’ambivalenza della Fata nei riguardi di Pinocchio. Una lettura superficiale, o per lo meno parziale, ci mostra infatti la benevolenza e protezione femminile di questa quasi-mamma nei confronti del burattino, la sua assistenza che si protrae lungo il racconto e si conclude con il premio agognato da Pinocchio, la trasformazione finale che essa opererà in lui. Ma un lettore attento e disincantato, specie nel contesto attuale dove l’educazione di un tempo viene ovviamente messa in discussione, è colpito da episodi che indicano lati meno positivi ed edificanti della Fata. Non può sfuggire infatti che essa più volte mente, anche se formalmente “a fin di bene”: mente quando si presenta come la Bambina dai capelli turchini che afferma di esser morta; quando a Pinocchio che bussa al portone fa dire dalla Lumaca, la sua cameriera, che sta dormendo; e soprattutto quando, nell’ultimo capitolo, si finge ammalata e in miseria “in un letto di spedale” per suscitare e valutare la reazione del burattino.
Ci sono poi aspetti di ricatto e perfino di sadismo che emergono se si compie una lettura spassionata dell’opera della Fata: il primo è quello che aleggia nella macabra scenografia di Pinocchio a letto che non vuole prendere la medicina, quando la Fata fa entrare nella stanza “quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto”, pronta per il burattino che a questo punto si ricrede e beve la medicina detestata. La Fata non lesina poi messaggi falsi, volti a suscitare in modo acuto il senso di colpa del burattino: come quando, in un episodio seguente, Pinocchio incontrerà una lapide che attesta falsamente la morte della medesima e che susciterà un pianto e una costernazione inconsolabili nel burattino pentito. Pinocchio giunge qui sull’orlo della disperazione e si dice desideroso di morire anche lui (cap. XXIII).

Che vuoi che io faccia qui, solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove andrò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! Sarebbe meglio, cento volte meglio che morissi anch’io! Sì, voglio morire!…

Un vero e proprio gesto sadico si può considerare poi il fatto di lasciare il burattino tutta la notte con la gamba conficcata nella porta e soprattutto il fargli servire dalla Lumaca, al mattino, un vassoio con delle pietanze di cartone e di gesso. In questo episodio (cap. XXIX) la punizione si accompagna ad un comportamento derisorio e francamente inescusabile della Fata, che provoca lo svenimento del burattino.
In definitiva, mi sembra che emerga nella Fata un aspetto che ritroviamo in diversa misura in altri personaggi collodiani e in Pinocchio stesso: l’ambivalenza, il giocare su più registri. È anche questo, con ogni probabilità, uno dei motivi dell’enorme successo che le Avventure di Pinocchio hanno incontrato dalla fine dell’Ottocento ad oggi in tutto il mondo.

UOMINI CORAGGIOSI

Dare un senso alla vita

intervista a Cesare Maestri

Se n'è andato il 19 gennaio scorso, all'età di 91 anni, uno dei più grandi alpinisti italiani (per Reinhold Messner "il miglior arrampicatore della sua epoca"), Cesare Maestri. Combattente partigiano, è stato autore di innumerevoli imprese alpinistiche, prevalentemente in solitaria e sulle Dolomiti, anche se quella che ebbe più risonanza fu per lui la scalata del Cerro Torre, sulle Ande, tentata una prima volta ma conclusasi tragicamente con la morte di un compagno di cordata e ripetuta undici anni dopo, nel 1970.
Qualche anno fa Cesare Maestri ci rilasciò un'intervista che pubblicammo sulla nostra rivista Scuola e Formazione (n. 5/8 di maggio-agosto 2015), in uno dei focus sulle virtù essenziali dedicato in quell'occasione al "coraggio".
La riproponiamo come atto di affettuoso ricordo e omaggio a una persona coraggiosa.

INTERVISTA A CESARE MAESTRI