Gennaio 2021

In questa pagina:
Cose da fare: Perché sia un buon anno (Maddalena Gissi)
Ecologica: Ecologia integrale (Giancarlo Cappello)
Hombre vertical: Storia e speranza, una rima irrinunciabile (Emidio Pichelan)
La poesia dei luoghi: Nevica! (Gianni Gasparini)
Aforismi: Omnia vincit amor (Leonarda Tola)
Sul filo del tempo: Pronostico pantagruelico (Mario Bertin)
Un anno con Pinocchio: Il legno di Pinocchio (Gianni Gasparini)

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COSE DA FARE

Perché sia un buon anno

di Maddalena Gissi

Per quanto vi sia la consapevolezza che non basterà il cambio d’anno a risolvere i problemi che ci affliggono, lasciamo volentieri alle nostre spalle un 2020 che più “bisesto e funesto” di così non si sarebbe potuto immaginare. E tuttavia cerchiamo di coglierne ciò che ci consegna comunque come insegnamento, sapendo che nella vita è bene cercare di far tesoro anche delle esperienze più negative.
C’è stato un momento, nella prima fase di esplosione della pandemia, in cui si è avuta l’impressione che l’irrompere sulla scena di un terribile e potente nemico comune potesse indurre, oltre a una complessiva riconsiderazione delle priorità e delle urgenze, anche una generale disponibilità ad agire in termini di responsabilità, unità e coesione, accantonando polemiche di corto respiro e mettendo in secondo piano ogni immediata convenienza in vista di un prevalente interesse generale. Almeno nell’ambito del sistema Paese, anche se la dimensione dell’emergenza si estendeva a livello planetario. In effetti, a marzo e nei mesi immediatamente successivi, ai provvedimenti drastici assunti dal Governo, di così forte impatto sulle nostre attività e sui nostri stili di vita, hanno fatto riscontro sia l’alto senso civico di cui ha dato prova l’intera comunità nazionale, sia un diffuso atteggiamento di responsabilità (e di sobrietà nei toni, salvo rare eccezioni) nel dibattito politico e parlamentare. Si è respirato, insomma, un clima di coesione del tutto rispondente agli appelli del Capo dello Stato, offrendo agli occhi del mondo l’immagine di un Paese unito nell’affrontare la sfida impegnativa con cui si stava misurando.
L’estate ci ha portato, oltre al sollievo per il calo evidente del numero dei contagi, anche l’illusione che la sfida potesse considerarsi sostanzialmente vinta. Da qui un allentamento della tensione (comprensibile) e dell’attenzione (gravissimo errore), indotto da qualche eccesso di ottimismo anche in campo medico – scientifico, oltre che dal livello non proprio eccelso che nella dialettica politica tornava rapidamente a riproporsi. La tentazione di cavalcare una comprensibile “voglia di normalità” si è così fatta sempre più largo, mentre veniva relegato al fastidioso e antipatico ruolo di Cassandra chiunque richiamasse il perdurare della necessità di comportamenti improntati a prudente attenzione. Insieme al riaccendersi degli scontri fra Governo e opposizione, abbiamo assistito al progressivo riacutizzarsi delle tensioni fra Stato e Regioni, spesso impegnati in una sorta di “gioco del cerino” sconcertante e disorientante. Esattamente l’opposto di quanto sarebbe stato necessario per fronteggiare efficacemente la seconda ondata della pandemia, una volta fallito – purtroppo – il tentativo di prevenirla. Per la scuola, i mesi dell’estate avrebbero dovuto essere per tutti, nessuno escluso e ciascuno per la parte di propria competenza, il tempo del lavoro assiduo per preparare una ripresa delle lezioni in presenza sin dall’inizio del nuovo anno scolastico. In ogni istituto dirigenti, personale docente e ATA lo hanno fatto, spesso caricandosi di incombenze e mansioni ben oltre quelle di loro stretta pertinenza. Non altrettanto è avvenuto per tutti i servizi di necessario supporto, dai trasporti all’assistenza igienico-sanitaria. Grande enfasi su questioni di alto impatto mediatico (come i banchi a rotelle che hanno riempito più i notiziari che le aule), enormi lacune sul resto, tanto da rendere inevitabile, nel giro di poche settimane, il ritorno alla didattica integrata per l’intera secondaria di II grado. Tutto ciò mentre veniva clamorosamente mancato un obiettivo assolutamente prioritario, quello di avere tutto il personale necessario in servizio fin dal primo giorno di scuola. Al flop delle assunzioni in ruolo si è infatti accompagnato quello delle supplenze, in gran parte ancora da conferire a oltre due mesi dall’inizio delle attività. A dimostrazione di quanto può accadere quando ci si nutre più di immagine che di sostanza, arroccandosi dietro a schemi ideologici anziché confrontarsi con la realtà e con chi ne ha diretta e significativa esperienza.
Sul finire dell’anno, mentre la seconda fiammata della pandemia fatica a spegnersi, convivono segnali di speranza e di preoccupazione. Tra i primi, l’avvio di una campagna vaccinale in tempi che si sono rivelati più rapidi del previsto. Un buon auspicio, al quale deve seguire una grande prova di efficienza organizzativa, sostenuta possibilmente da un impegno corale della politica. E qui veniamo alle preoccupazioni, perché sono di questi giorni le fibrillazioni che mettono a prova la sopravvivenza della stessa maggioranza di governo, in uno scenario che ha tratti inquietanti: il rischio di una terza ondata di contagi, le difficoltà del sistema produttivo e le possibili pesanti ricadute sul piano sociale, una condizione di debolezza del nostro Paese mentre si decidono strategie di rilancio a livello europeo. Volendoci limitare a quanto più direttamente ci riguarda, una ripresa dell’attività scolastica il 7 gennaio che avvia un graduale ritorno alle lezioni in presenza anche per le classi del secondo ciclo. Più che sull’individuazione di una data, avremmo voluto che la discussione si concentrasse sulle cose da fare perché il ritorno alle attività in presenza non sia l’ennesima breve parentesi. Questo per noi il terreno di immediato impegno.
Non mancano certamente le cose da fare, e fin da subito, in questo 2021. Per noi sarà anche l’anno di un congresso che, a causa dell’emergenza in atto, vedrà scivolare i suoi tempi di svolgimento per una inconsueta conclusione in autunno, anziché in tarda primavera come sempre è avvenuto. I tempi che viviamo fanno sì che il dibattito congressuale si intrecci con le riflessioni e le indicazioni offerte dalla nostra organizzazione come contributo a una stagione di auspicabile ripresa che vogliamo sia anche di forte rilancio del sistema di istruzione e formazione, della sua importanza e del suo valore.
Che sia un buon anno non resti soltanto un augurio: perché lo sia, serve più che mai l’impegno di tutti.

ECOLOGICA

Ecologia integrale

di Giancarlo Cappello

Fin dal primo numero dell’Agenda Mese dell’anno scolastico 2019-2020 avevamo avvertito l’esigenza di avviare una riflessione sul significato, l’esigenza e la portata educativa del concetto di Ecologia Integrale. L’abbiamo fatto prendendo spunto e avvio dal Cantico delle Creature di San Francesco e, a commento, con i preziosi contributi di dodici amici autori. Si veda e si riprenda, in particolare, il breve saggio del professor Giannino Piana.
A ridosso del Natale appena passato e in avvio di un nuovo anno solare da porre all’insegna della speranza, ripartiamo in questa rubrica, raccogliendo il messaggio di Papa Francesco condensato e trasposto in otto parole scelte nella fitta trama della sua ultima Enciclica” Fratelli tutti”.

AMICIZIA

C’è un riconoscimento essenziale da compiere per camminare verso l’amicizia sociale: rendersi conto di quanto vale una persona, sempre e in qualunque circostanza.

CURA

Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune.

COMUNITÀ

Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale ci lascerà in preda alla nausea e al vuoto.

DIGNITÀ

Se ciascuno vale tanto, il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che vivano con minore dignità.

FRATERNITÀ

Oggi possiamo riconoscere che ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza, ma che ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità.

GENTILEZZA

La gentilezza genera gentilezza. Una persona gentile aiuta gli altri a rendere più sopportabile la propria esistenza.

PROSSIMITÀ

Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano.

SPERANZA

La speranza ci parla di una realtà radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui si vive.

HOMBRE VERTICAL

Storia e speranza, una rima irrinunciabile

di Emidio Pichelan

I was from everywhere and nowhere at once, a platypus”, provenivo da ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo, un ornitorinco. La madre in Indonesia, il padre svanito in Kenya, i nonni paterni “emigrati” nelle Hawaii in cerca di orizzonti ancor più vitali della natia terra statunitense, il sedicenne Obama era da sempre assediato da domande impegnative: chi sono?, quale la mia eredità?, che fare della mia vita? Dall’altra parte della strada, di fronte al suo appartamento, la Central Union Church organizzava un’asta di beneficenza, in bella mostra una cesta di libri usati: spontaneo affondare le mani nella pesca miracolosa (“Va’ a leggere un libro, e poi vieni a riferirmi che cos’hai imparato!”, l’ordine della madre nei tanti momenti di solitaria noia) ed estrarre, tra gli altri, Delitto e Castigo di Dostoevskij. “Ho trovato davvero rifugio nei libri” – il sapere con cui costruire il fuoribordo della sua missione. (B. Obama, A Promised Land, Penguin Random House, 2020, pag. 7).
La storia dice, Non sperare / da questo lato della fossa. / Ma poi una volta nella vita / può salire l’orgogliosa marea della giustizia, / e la speranza far rima con la storia” (Seamus Heaney, poeta irlandese, Nobel per la Letteratura 1995).
Oh no, non una volta nella vita; la speranza – luce e vita, energia personale e collettiva – è una stella cadente che non cade mai (Goethe). Da quando, all’alba dei tempi dei tempi, le tenebre furono separate dalla luce, la notte dal giorno, il cielo dal firmamento, e fu sera e fu mattino e l’essere umano, fatto a Sua immagine e somiglianza, ha preso l’abitudine vitale di chiudere e aprire gli occhi per non smettere di vedere, curiosare, esplorare, avventurarsi. Di cambiare sé stesso e il mondo.
Anche “in quest’ora miserabile / in cui ci fanno compagnia / persino le macchie del nostro vestito” (Gil de Biedma, 1959, Spagna) i cambiamenti radicali – in breve, rivoluzionari – sono possibili. In Finlandia, Paese – come il nostro, come il mondo – alle prese con il coronavirus, il sovranismo muscolare, il riarmo russo, il governo guidato dalla prima ministra Sanna Marin (34 anni, socialdemocratica) ha pensato bene di riformare il proprio sistema scolastico (considerato il migliore del mondo): tutti a scuola fino a 18 anni (e gratuitamente, inclusi i libri di testo costosissimi).
Dalle nostre parti, è indispensabile che la primula di Stefano Boeri sbocci vigorosa e resiliente nel nostro sistema scolastico. Non solo per il bene degli aventi diritto, ma anche (soprattutto?) per quello della democrazia. “In un Paese con uno dei più bassi livelli di istruzione d’Europa con conoscenze logiche, linguistiche e matematiche (i test Pisa) al di sotto della media dei Paesi industrializzati, circola un fastidio di fondo per visioni razionali, mentre si abbracciano entusiasticamente quelle emotive e persino lunatiche” (P. Ignazi).
La rima storia speranza non è frutto del caso, ma del lavoro, della volontà e di un coraggio – degli attori politici, dei soggetti sociali, di tutte le donne e di tutti gli uomini di buona volontà – all’altezza della sfida all’arma bianca che ha devastato l’anno che se ne va e che condizionerà i nostri domani e dopodomani.

LA POESIA DEI LUOGHI

Nevica!

di Gianni Gasparini

Nevica! Nevica a Milano da stanotte. È mattino prestissimo e si vede la neve distesa nel giardino, sulle chiome maestose dei cedri e sugli scheletri magri dei faggi con le ultime foglie resistenti, sul prato e sulla ghiaia, sulle strade deserte, sui tetti delle case, sul davanzale del balcone, sugli ellebori e sui gerani nei loro vasi che osservo attraverso la grande finestra della sala.
Nevica, sta nevicando e continua a nevicare – sigue nevando come si dice sinteticamente in spagnolo -, sembra davvero la neve di una volta che si deponeva e a volte restava per terra giorni interi. Ricordo una nevicata storica di quasi trentacinque anni fa: Milano bloccata, i mezzi dell’Atm sorpresi dallo spessore del manto nevoso e lasciati persino ai crocicchi delle strade. Montai le catene sulla macchina e con difficoltà attraversai la città per andare a trovare e portare qualche soccorso alimentare a mio nonno ultranovantenne.
La neve scatena, “dissigilla” una energia particolare, unica, anche in città. Energia nello scrivere, nell’andare fuori a camminare e a sentire i fiocchi sul volto, a imprimere tracce di scarponi o stivali sui marciapiedi e sulle vie incontaminate. Quest’anno a motivo della pandemia non abbiamo potuto andare in montagna nelle feste natalizie; e la montagna è venuta da noi, ci ha fatto il dono di una neve abbondante e generosa.
La neve suscita i ricordi, ne fa quasi palpare la vividezza che essi riacquistano riemergendo dalla memoria. La neve è come una musica che cade sulla città e sul mondo; o, anche, la musica è una neve che viene dall’alto e si comunica a chi apra le orecchie per ascoltarla. Ci vorrebbe forse una Musica sulla neve, accanto alla mirabile Musica sull’acqua di Handel. Riaffiora un ricordo incancellabile, quasi incredibile: molti anni fa, verso la fine dell’inverno, con forte innevamento sui monti delle Prealpi lombarde, decidiamo di salire in invernale il Grignone, oltre duemilaquattrocento metri, quello che proprio a lato della sua ampia cima ospita un rifugio. Si sale con fatica nella neve alta, non c’erano ancora le ciaspole e la piccozza non serviva: eccoci finalmente in vista del rifugio a poche decine di metri dalla vetta, quando inspiegabilmente ci raggiungono le note di una musica che aveva tutta l’aria di essere un brano di musica classica. Un miraggio auditivo? Una sensazione acustica aberrante? No: era la Musica sull’acqua di Handel che qualcuno aveva messo sul giradischi e che diffondeva le sue note inconfondibili dalla finestra aperta del rifugio, di primo mattino. Fu qualcosa di magico, che accompagnò gli ultimi passi verso la cima della Grigna con i piedi fradici e le gambe intirizzite.

Guardo fuori dalla finestra che dà sul giardino. I cedri qui davanti, che superano i venti metri, sembrano pecci che tengano la neve nelle loro manone prima di lasciarla andare fra qualche ora, quando la temperatura sarà salita. Gli alberi di latifoglie, ormai spogli, giocano con la neve che cade: le loro esili silhouettes richiamano la pittura degli impressionisti, che molte volte si sono fatti ispirare da paesaggi invernali. Ci fu una splendida mostra a Torino anni fa, sugli impressionisti e la neve, dove erano accostati quadri di parecchi autori accomunati dalla passione per l’elemento bianco, dall’ispirazione che la neve gli aveva suggerito in modi diversi.

La creatività che la neve stimola non può essere imbrigliata, inquadrata o programmata. Da migliaia di anni la neve continua ad ispirare, come nel Salmo di penitenza (il numero 51), il quale recita “Lavami, e sarò più bianco della neve”. Il bianco: il salmista, che vive in un paese mediterraneo, raramente ha occasione di vedere nella natura questo colore, che forse gli appare soltanto di lontano dalle pendici dell’Hermon, il monte abitato dai cedri e richiamato in altri salmi. Il salmista è colpito dalla neve, soprattutto da quel bianco abbagliante che poi si trasformerà nel colore incolore dell’acqua: un’acqua che lava, raschia via dal corpo ciò che è sordido e deterge lo scuro che si annida nell’anima.
La neve non ispira solo pensieri invernali, di freddo e di calore gustato accanto alla stufa e al camino. Pensieri poetici profondi come quelli di Pasternak, che parla della tormenta di neve che dura un mese intero e dove soltanto la fiamma della candela sembra resistere alla furia dell’inverno bianco sulle pianure della Russia: “La tormenta infuriava per tutta la terra, / in ogni contrada. / Una candela bruciava sul tavolo,/ una candela bruciava”. O immagini come quelle di chi vive l’isolamento invernale dei monti, pur riuscendo a cantarne l’intima bellezza. Il monaco-poeta Ryokan, che due secoli fa visse lunghi anni nel suo eremo di Kugami in Giappone, ha saputo ridare nei brevi versi delle sue composizioni il senso del raccoglimento che la neve infonde sulle montagne solitarie: “Le montagne intorno sono coperte di neve; / chiusa è la porta di casa, che dà sulla valle rocciosa./ Nel focolare ardono tronchi di legna; / mi accarezzo la barba, e ripenso alla mia giovinezza.”

La poesia, la letteratura permette di passare istantaneamente da una stagione e da un luogo all’altro, dalla meraviglia di un paesaggio innevato al nucleo di bellezza racchiuso in un ambiente naturale arido, un deserto, o magari una distesa marina costellata da minuscole isole rocciose.
Ecco. Il manto nevoso può persino ispirare – per contrasto? per un comune afflato di bellezza? – il ricordo e quasi la presenza di luoghi caldi che non conoscono il bianco variegato della neve. Un verso di Lorca, “Arena del Sur caliente que pide camelias blancas” (Arena del caldo meridione che chiede bianche camelie) richiama questa ricerca del bianco e implicitamente del nord attraverso il sud.
A me la neve che cade copiosa sulla città fa venire in mente oggi – non so perché - il Supramonte di Baunei e di Urzulei, luoghi tra i più stupefacenti della Sardegna percorsi nella calura bruciante dell’estate mediterranea. Rivedo nella mente il canyon di Gorropu che incombe in altezza per centinaia di metri sopra chi si arrampichi sui roventi, enormi sassi che al fondo accolgono in autunno e inverno improvvisi scrosci d’acqua. Qui, in pochissimi punti a lungo ricercati appaiono le foglioline strapiombanti (procumbentes si direbbe in latino) di una rarissima aquilegia endemica del Supramonte che sboccia per pochi giorni nella stagione estiva. E chi riesce a vedere dal basso questa pianta strisciante, pur senza poter ammirare il fiore non ancora visibile, non può trattenersi dall’avvertire un senso profondo di commozione e gratitudine.
Penso a un luogo misterioso come Pischina Urtaddala, una vasca d’acqua o piscina naturale sormontata da una enorme grotta, simbolo di una bellezza arcana da raggiungere e contemplare in rigoroso silenzio e quasi con timore, come di fronte ad una manifestazione del trascendente. Pischina sta a monte del canyon di Gorropu e si raggiunge a fatica, con dubbi e incertezze sul percorso da seguire. Prima di scendere a questo luogo d’acqua segreto si è avvolti dall’ambiente immenso e totalmente solitario del falsopiano, talmente “altro” da sembrare non-umano: lecci e altre essenze arboree, rocce che affiorano sul paesaggio giallastro, e da lontano le pieghe regolari scavate nella roccia nei millenni dal corso d’acqua che precipiterà nel canyon di Gorropu. Qui avrà origine il rio, il Flumineddu che scorre pacificante e quasi ammiccante verso il mare, in un corteggio di alti oleandri bianchi e rosa.

La neve sa creare o meglio ricreare in un modo che non riesce a nessun altro elemento. La neve non muta il paesaggio con la violenza del fuoco: essa ricopre, trasforma, trasfigura gli ambienti, le case e i giardini, i monumenti (un po’ come faceva Christo con i suoi grandissimi teli che fasciavano gli artefatti o creavano nuove sintesi tra natura e cultura), le distese in piano e i pendii aspri dei monti. La neve è come una nuova creazione, di solito lieve e delicata: qualcosa che suggerisce prospettive inedite e la possibilità di vedere i luoghi senza alterarli né violentarli.
I luoghi, la neve li lascia lì intatti. Ed è pronta ad andarsene discreta allorché si trasforma in un elemento liquido di cui non si conserverà traccia sulla terra.

(Milano, 28 dicembre 2020, durante la grande nevicata)

AFORISMI

Omnia vincit amor

di Leonarda Tola

“L’amore vince tutto" et nos cedamus amori ("e anche noi cediamo all’amore"), Bucoliche 10,69. È il verso virgiliano divenuto sentenza che statuisce la forza incoercibile dell’amore a cui è vano opporre resistenza e contro il quale niente si può se non piegarsi alla sua tirannia. Nel famoso detto, il termine omnia compendia tutte le sfumature di cui si accende e si infuria la passione d’amore. A cominciare dall’amore-innamoramento equiparato alla pazzia che fa dell’amante un folle, qualcuno che perde la mente dunque il senno e la misura: amens amans (Plauto). Uomo o donna che sia: “presa nell’incanto e stregata, folle se innamorata”.
Furioso, Eros ha conficcato in me il suo dente avvelenato e ha straziato il mio animo con la sua smania” scrive il bizantino Paolo Silenziario (Antologia Palatina V, 72), dignitario alla corte di Giustiniano, ultimo degli epigrammisti erotici che segue una tradizione secolare attribuendo all’eros una condizione simile all’ossessione di “un uomo colpito dal veleno di un cane rabbioso che vede nell’acqua l’immagine della bestia feroce”.
Amore come passione erotica è altro dall’amore sentimento di benevolenza e affetto. “Amare di più e voler bene di meno” (Amare magis sed bene velle minus) è la contrapposizione che fa Catullo deluso dalla sua Lesbia, distinguendo tra il desiderio che fa bruciare più intensamente (etsi impensius uror)) dal sentimento saldo e quieto di chi ama come un padre ama i suoi figli; amore che la ragazza ai suoi occhi non merita più.
Declinandosi in altri versi e sensi, l’amore, inteso come applicazione alle cose (studium) e dedizione altruistica verso le persone, mantiene, anzi esalta, la forza che rende possibile ogni conquista risultando vincitore imbattibile contro tutte le avversità e i pericoli, della spada, del ferro e perfino della morte. A questa specie di amore gratuito in ambito cristiano si dà il nome di caritas nell’inno paolino (Corinzi 1) fino all’identificazione con la stessa divinità “Deus Caritas est” (Benedetto XVI).
Come i Salmi… gli Aforismi (intesi come nostra rubrica) finiscono in gloria.

SUL FILO DEL TEMPO

Pronostico pantagruelico

a cura di Mario Bertin

François Rabelais è conosciuto soprattutto per il suo capolavoro Gargantua e Pantagruel la cui narrazione, famosa per l'ilare eccessività che la caratterizza, grave e leggera insieme, procede, con arte esorbitante, da una osservazione acutissima e spregiudicata della realtà, spaziando su tutti i campi dell'umana follia, che l'autore irride, sottolineandone i comportamenti che, peraltro, il tempo dal Rinascimento ad oggi non sembra aver cancellato. L'opera, così, che non pretende mai di offrire ai suoi lettori una filosofia coerente, quanto invece una semplice e disincantata visione della vita, si può apprezzare ancora oggi per la sua attualità.
Allo stesso spirito sono improntate anche le opere minori dello scrittore.
I testi che qui presentiamo si riferiscono alla consuetudine, molto popolare e molto in voga, allora come oggi, di indagare sull'anno che stava per iniziare attraverso il ricorso all'astrologia. Un costume che Rabelais mette acutamente alla berlina, con un linguaggio improntato al sarcasmo e alla fantasia.

PRONOSTICO PANTAGRUELICO
CERTO, VERO, INFALLIBILE
NUOVAMENTE COMPOSTO A PROFITTO E AVVEDIMENTO
DELLA GENTE SVENTATA E OZIOSA DI NATURA

dal maestro François Rabelais

Del numero d'Oro non dicitur*,
quest'anno non ne trovo punto, per quanti calcoli
ne abbia fatto. Passiamo oltre.
Verte folium

*Gli antichi computi ecclesiastici fissavano il numero d'oro, periodo di dieci anni solari al termine dei quali il Sole e la Luna si trovavano nello stesso punto del cielo rispetto alla Terra. 

AL LETTORE BENEVOLO

Salute e pace in Gesù Cristo

   Considerando esser perpetrati infiniti abusi a causa d'un mucchio di Pronosticazioni di Lovanio, fatte all'ombra d'un bicchier di vino, ve ne ho presentemente calcolata una, la più sicura e veritiera che finora si sia veduta, come l'esperienza vi dimostrerà. Giacché senza dubbio, visto ciò che dice il Profeta­Re, Salmo V, a Dio: "Distruggerai tutti quelli che dicon menzogne", non è peccato leggero il mentire consapevolmente e ingannare il povero mondo curioso di sapere cose nuove. E curiosi in ogni tempo sono stati i Francesi in modo singolare, come scrive Cesare nei suoi Commentari, e Jean de Gravot ne le "Mitologie Galliche". Ciò che vediamo ancora giornalmente in Francia, dove le prime domande che si fanno a gente appena arrivata sono: "Quali nuove? Sapete niente di nuovo? Che si dice? Cosa si sussurra per il mondo?" E tanto se ne preoccupano da andare sovente in collera contro coloro che vengono da paesi stranieri senza portare tasche piene di novità, chiamandoli ottusi e idioti.
   Se dunque, visto che essendo pronti a domandar notizie altrettanto o più son facili a credere quanto è loro annunciato, non dovrebbero forse mettersi persone degne di fede a stipendio all'entrata del Regno, e non d'altro incaricate se non di esaminare le nuove che si recano, e sapere se sono vere? Sì certo. E così ha fatto il mio buon maestro Pantagruel per tutto il paese di Utopia e Dipsodia. Perciò gli è andata così bene ogni cosa, e tanto prospero è stato il territorio che i suoi abitatori non riescono presentemente a bere tutto il loro vino, e dovranno spargerlo per terra se non vien loro rinforzo di bevitori e buontemponi.
   Volendo dunque soddisfare la curiosità di ogni buon compagnone, ho rivoltato gli archi dei cieli, calcolato i quadrati della luna, scassinato quanto possono aver pensato tutti gli Astrofili, lpernefelisti, Anemofilaci, Uranopeti ed Ombrofori, e conferito su tutto con Empedocle, il quale si raccomanda alla vostra buona grazia.
   E l'intero Tu autem ho qui in pochi capitoli redatto, assicurandovi di non averne detto se non quello che ne penso, e ne penso solamente quel che è, e non è altra cosa, in tutta verità, se non quello che ne state leggendo. Quanto verrà detto in più sarà passato al grosso setaccio a casaccio, e a volte potrà verificarsi, a volte non si verificherà affatto.
   D'un caso v'avverto: che se non credete a tutto mi giocate un brutto tiro, per il quale qui o altrove sarete gravemente pu­niti. Le piccole sferzate alla salsa di nerbo di bue non saranno risparmiate sulle vostre spalle, e fiutate pure come ostriche quant' aria volete, perché di certo ve ne saranno di molto calde, se il fornaio non s'addormenta.
   Ora soffiatevi il naso bambini, e voialtri, vecchi sognatori, sistemate i vostri occhiali e tenete queste parole in conto di sacri responsi. 

DELLE QUATTRO STAGIONI DELL'ANNO
A COMINCIARE DALLA PRIMA VERA

In tutto l'attuale anno vi sarà solo una luna, e nemmeno nuova; ne siete ben afflitti, voialtri che non credete punto in Dio, perseguitando la sua santa, divina parola e coloro che l'osservano. Ma andate ad impiccarvi! Non saravvi altra luna se non quella che Dio creò all'inizio del mondo, la quale per effetto della suddetta sacra parola è stata posta nel firmamento per splendere e guidare gli umani di notte. Mio Dio, non intendo con ciò inferire ch'essa non mostri alla terra e alle genti terrene diminuzione o accrescimento del proprio chiarore, secondo s'avvicini o s'allontani dal sole. Giacché, perché? Per la ragione che, eccetera ... E più non pregate Dio che la preservi dai lupi: essi, v'assicuro, non la toccheranno nella presente annata. A proposito! Vedrete a mezzo di questa stagione, più fiori che nelle altre tre. E non verrà reputato pazzo chi in tal tempo farà provvista di denaro, più che di ragni tutto l'anno. I grifoni e i marroni dei monti della Savoia, del Delfinato e delle regioni iperboree che han nevi sempiterne, saranno privati di codesta stagione, secondo il parere di Avicenna, il quale afferma esser primavera quando le nevi lasciano i monti. Credetegli. Ai miei tempi si contava Ver allorché il sole entrava nel primo grado dell'Ariete. Se oggi lo si conta altrimenti ammetto d'aver torto. E questo è quanto.

DELL'ESTATE

In estate non so qual vento tirerà; ma so bene che deve far caldo e regnare vento marino. Se tuttavia le cose andassero altrimenti non bisognerà rinnegare Dio. Egli è più saggio di noi e conosce assai meglio di noi quanto ci occorre, ve ne assicuro sul mio onore, per quanto possano aver detto Haly e suoi seguaci. Sarà bene stare allegri e bere fresco, cosa questa, a detta di alcuni, assolutamente contraria alla sete. Lo credo. Così, contraria contrariis curantur.

DELL'AUTUNNO

In autunno si vendemmierà, o prima o dopo, cosa che m'è indifferente purché s'abbia vino a sufficienza. I creduloni saranno di stagione, perché ci sarà chi se la farà addosso credendo di loffiare. Quelli e quelle che han fatto voto di digiuno sino a che le stelle siano in cielo, all'ora presente possono pascersi, per mia autorizzazione e dispensa. Però hanno molto tardato, poiché le stelle vi sono da sedicimila anni e non so quanti giorni, e bene infisse, dico. E non pensate d'ora innanzi di prendere le allodole alla caduta del cielo, perché questo non cadrà nel vostro tempo, me ne porto garante. Baciapile, ipocriti e portatori di suppliche, perpetuoni e simili pancia-mia-fatti-capanna, usciranno dalle loro tane. Guardatevi tutti dalle lische quando mangiate pesce. E dal veleno Dio vi guardi!

DELL'INVERNO

In inverno, secondo il mio limitato comprendonio, non si dimostreranno saggi coloro che venderanno le proprie pellicce per acquistare legna. Così non agivano gli antichi, come testimonia Avenzoar. Se piove, non vi immelanconite, sarà tanta polvere di meno sul vostro cammino. State al caldo e temete i catarri. Bevete del migliore in attesa che il nuovo si perfezioni, e d'ora in poi non fatela più in letto. Oh, oh pollastrelle, fate il nido tanto in alto?

 

(I testi sono ripresi da François Rabelais, Pronostici di Pantagruel. Almanacchi. La Sciomachia, Il Melangolo, Genova 1989)

UN ANNO CON PINOCCHIO

Il legno di Pinocchio

di Gianni Gasparini

Pinocchio è un essere fatto di legno, che viene dunque dal mondo vegetale.
Il burattino a cui Geppetto dà forma e vita con passione e competenza è frutto del lavoro di intaglio svolto su un pezzo “di legno da catasta” che viene donato al nostro falegname da mastro Ciliegia, sconcertato e impaurito dalla vocina che si sprigiona misteriosamente dal ceppo di legno. Chissà da che pianta proveniva, certo non si trattava di un albero di pregio: forse era un pino o un pioppo, o magari una pianta di robinia che già allora doveva essere onnipresente nel paesaggio vegetale delle nostre regioni.
Sta di fatto che il legno – e di rimando l’albero – è una componente che gioca direttamente o indirettamente nel sottofondo del racconto e ne illustra o spiega diversi passaggi. Il fatto che Pinocchio consista interamente di legno fa sì ch’egli galleggi nell’acqua e sviluppi quando è in mare notevoli qualità di nuotatore – analoghe a quelle di campione della corsa, di cui si è detto in precedenza –, tali da permettergli di cavarsela in parecchie occasioni pericolose. L’unico episodio in cui la velocità nel nuoto non consente al burattino di salvarsi è quello in cui viene inghiottito dall’enorme e terribile Pesce-cane (in realtà una balena: v. cap. XXXIV), ma è proprio dal ventre del mostro marino che Pinocchio inizierà insieme a Geppetto il suo percorso di salvezza.
Il legno poi ha il vantaggio di essere duro e atto alla difesa nelle colluttazioni: ne sanno qualcosa la Volpe e il Gatto mascherati da Assassini che, volendo derubare Pinocchio dopo averlo acciuffato, rompono i loro coltelli nel tentativo di scalfire il legno di cui è fatto il burattino. D’altra parte, l’inconveniente principale del legno è quello di essere facilmente preda del fuoco: nel lungo, estenuante inseguimento che si verifica tra gli Assassini e il burattino, Pinocchio ad un certo punto crede di mettersi in salvo salendo su un “pino altissimo”, ma gli inseguitori vi appiccano il fuoco alla base e Pinocchio è costretto a saltare a terra, dove verrà alla fine acchiappato dai due malviventi, complice il fatto che la misteriosa Bambina dai capelli turchini che appare non gli apre la casina bianca in cui il burattino avrebbe potuto rifugiarsi (cap. XIV-XV).
C’è poi un altro albero che svolge un ruolo importante nel racconto: si tratta della “quercia grande del bosco”, alla quale viene impiccato il burattino dagli Assassini, i quali sperano che Pinocchio, morendo, sputi finalmente le monete d’oro che tiene in bocca. Qui, alla fine del cap. XV, avrebbe dovuto concludersi nelle intenzioni originarie dell’autore il racconto, ma fortunatamente non è stato così. I piccoli lettori del “Giornale per i bambini” protestano e non accettano la fine del loro eroe, così che Collodi, dopo alcuni mesi di interruzione, riesce a saldare opportunamente, grazie all’intervento salvifico della Fata, un secondo racconto con il primo, facendo continuare le Avventure di Pinocchio per altri 21 capitoli, dal XVI al XXXVI.
L’origine vegetale di Pinocchio spiega e in qualche modo giustifica un suo comportamento che appare biasimevole e inescusabile, quando, avviatosi per andare la prima volta a scuola, vende l’abbecedario – per comprare il quale Geppetto si era privato in pieno inverno della propria casacca – allo scopo di acquistare il biglietto di entrata al Teatro dei burattini. In effetti, bisogna considerare qui il bisogno profondo che avverte Pinocchio di ritrovare i propri fratelli di legno, i burattini: e infatti essi lo riconoscono subito – a partire da Arlecchino e Pulcinella – e lo accolgono con un tripudio che mette a soqquadro il teatro, provocando le ire del burattinaio Mangiafoco. Lascio la parola a Collodi:

È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevè in mezzo a tanto arruffio degli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale. (Cap. X)

E alla fine dell’episodio, scampato il pericolo che Pinocchio o qualche altro burattino venga sacrificato da Mangiafoco per la riuscita del suo arrosto di montone, vi sarà una grande festa che i burattini faranno per tutta la sera e la notte saltando e ballando, come in una serata di gala. Questa gioia della festa, che nasce dalla “fratellanza” e dall’amicizia, è autentica e ben più solida di quella, transitoria e vacua, che Pinocchio sperimenterà più avanti nel racconto insieme agli abitanti temporanei del Paese dei balocchi, quei ragazzi che dopo alcuni mesi di divertimenti senza limiti si troveranno trasformati in ciuchini e verranno venduti al mercato.