Novembre 2020

In questa pagina:
Cose da fare: È tempo di solidarietà, non di vittimismo (Maddalena Gissi)
Ragionando di comunità: Cambiamo strada (Edgar Morin)
Profili di una scuola che cambia: #NEXTGENERATIONITALIA
Ecologica: La Magna Carta dei Doveri dell’uomo
Hombre vertical: Senza parole, non rimangono che dolori (e gioie) inesprimibili (Emidio Pichelan)
Aforismi: Che la piasa, la tasa e la staga in casa (Leonarda Tola)
Voci di scuola: Quel che rimane della scuola... (Massimo Iiritano)
Sul filo del tempo: La grande notte di tutti i Santi (Sylvie Germain)
Un anno con Pinocchio: Correre (Gianni Gasparini)
Ricorrenze: Alla ricerca di undici soldati senza nome (Renzo Carlo Avanzo)
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COSE DA FARE

È tempo di solidarietà, non di vittimismo

di Maddalena Gissi

Ci sono momenti nei quali l’intreccio fra comportamenti personali e destini di una comunità emerge con particolare evidenza, e quello che stiamo vivendo è certamente uno di questi. I fatti ci stanno dimostrando come ogni regola, ogni provvedimento, ogni norma, anche la meglio pensata e scritta (e non è sempre lo può dire, purtroppo, per quelle fin qui prodotte), si riveli inefficace se non è assunta e fatta propria, responsabilmente, nel concreto vivere quotidiano, da quanti sono chiamati a metterla in pratica.
Quando nel 1967 i ragazzi di Barbiana scrissero quella che da allora tutti ricordiamo come una magistrale e potente rivendicazione di radicale cambiamento per un sistema scolastico discriminante e classista non indirizzarono la loro lettera al Ministro dell’Istruzione o al Parlamento, ma si rivolsero a una professoressa. Non lo fecero certamente per caso, né per difetto di consapevolezza della portata politica di una denuncia del genere: lo fecero a ragion veduta.
Persona e individuo non sono sinonimi. L’individualismo ha ben poco da spartire con l’esigenza di affermare come primario il valore della persona. L’individuo si fa persona nel contesto di relazioni che non sono vissute come un limite, ma come un arricchimento. Credo che gli appelli alla solidarietà, alla coesione siano destinati a cadere del vuoto se manca questa consapevolezza, questa disponibilità a sentirsi ciascuno partecipe di un destino comune.
Ciò che vale per le persone, vale anche per le diverse forme strutturate di rappresentanza sociale e politica. Per le istituzioni, soprattutto, che mai dovrebbero dimenticare di essere articolazioni di uno stesso Paese; rinsaldarne l’unità e la coesione dovrebbe essere percepito e vissuto come altrettanto importante della necessità di riconoscere e valorizzare le istanze specifiche di ogni territorio. Nella situazione presente, la coesione cui ci richiama autorevolmente il Capo dello Stato per contrastare e sconfiggere un nemico comune esige che Governo centrale, Regioni, Amministrazioni locali manifestino la capacità, la volontà e la disponibilità ad agire in sinergia.
Enorme la responsabilità che in questo momento sono chiamate ad assumersi le forze sociali, estremamente complesso e difficile il loro compito. Perché se è vero che l’impatto della pandemia sul tessuto economico e produttivo ha risvolti drammatici sul versante del lavoro, si pone il problema di tenere assieme la difesa di un sistema di tutele messo pesantemente in discussione senza che venga meno l’orizzonte di un interesse generale cui orientare l’azione sindacale. Se questo manca o non viene adeguatamente considerato, si va incontro a effetti di disgregazione nei quali le tutele vengono lette come privilegi da chi non ha le condizioni o la forza di conservare le proprie. Guai se passa anche solo l’idea che sia tollerabile una situazione nella quale il costo della pesante crisi indotta dalla pandemia sia scaricato sulle fasce più deboli del mondo del lavoro e della società.
A chi fa sindacato si impone, in frangenti come quelli che stiamo vivendo, una grande responsabilità che investe non solo il modo di agire, ma anche toni e stili della comunicazione. Ne abbiamo tenuto conto nel nostro modo di stare in campo nei mesi difficili del lockdown, quando pure non abbiamo esitato a proclamare uno sciopero: ma in nessun momento abbiamo cavalcato strumentalmente difficoltà e disagi, assecondando invece con tutte le nostre forze il grande impegno di cui la categoria si faceva carico, per reggere un imprevedibile e radicale cambiamento del proprio modo di lavorare, oltre tutto in una condizione di vuoto contrattuale foriera di incertezze, disorientamento, comportamenti difformi.
Col contratto integrativo di qualche giorno fa abbiamo colmato quel vuoto normativo, portando a casa un risultato che non risolve certo tutte le criticità del fare scuola a distanza (che investono soprattutto il versante dell’utenza e chiedono interventi a livello politico e legislativo), ma che perlomeno stabilisce punti chiari e fermi cui ogni insegnante potrà fare riferimento nella gestione del proprio lavoro. Spiace, e in qualche caso sorprende, che chi ha criticato quel contratto lo abbia fatto talvolta usando espressioni per le quali viene da augurarsi che la penna abbia tradito il pensiero, tanto sono sembrate lontane dalla realtà. Ricorrere alla DDI, come purtroppo in molti casi è necessario fare, può essere una situazione non gradita, ma descriverla con toni di esasperata drammaticità, a fronte di quanto sta avvenendo per altri settori lavorativi, appare quanto meno fuori luogo.
Ciascuno di noi, oggi, è chiamato a farsi carico di una generale condizione di difficoltà il cui impatto sconvolgente chiede una disponibilità a rimodulare diversi aspetti della propria vita, ivi compresa quella lavorativa, sollecitando a più riprese la capacità e la disponibilità ad adattamenti che indotti dall’emergenza si rivelano ogni volta tanto indispensabili quanto imprevedibili. Irrigidimenti e arroccamenti, in una situazione come questa, sono destinati a non reggere, ma soprattutto sarebbero incomprensibili, ingiustificabili, in certi casi intollerabili.
Uno sguardo ad ampio raggio su ciò che sta avvenendo oggi e potrebbe avvenire nei prossimi mesi esclude egocentrismi individuali o di gruppo, destinati a rivelarsi una difesa effimera e illusoria. Ciascuno vincerà questa battaglia se la vinceremo tutti insieme. Per questo non è il momento, specie per chi fa sindacato, di alimentare o assecondare vittimismi laddove non ve ne siano plausibili ragioni, mentre si rende necessario sollecitare tutti ad agire con senso civico, responsabilità, solidarietà.

RAGIONANDO DI COMUNITÀ

Comunità educante: bella e profonda questa definizione della scuola, un impegno da costruire giorno per giorno andando alla radice del suo significato, esplorandolo ed espandendolo con l’aiuto di riflessioni e di testi importanti. Nel numero precedente abbiamo utilizzato la presentazione di Edgar Morin al testo di Mauro Ceruti che commentando la Laudato si’ di Papa Francesco proponeva il tema di un umanesimo planetario.
Ora ci affidiamo ad alcune pagine dello stesso Edgar Morin, una delle figure più prestigiose della cultura contemporanea, prese dalla sua ultima opera che anche solo dal titolo spinge a voler/dover leggere tutte le 121 pagine di un testo prezioso: Cambiare strada. Le 15 lezioni del coronavirus.

Cambiamo strada

Edgar Morin

Introduzione
Un minuscolo virus comparso all'improvviso in un lontanissimo villaggio della Cina ha creato un cataclisma mondiale. Ha paralizzato la vita economica e sociale in 177 paesi e ha prodotto una catastrofe sanitaria il cui bilancio nazionale e mondiale è tanto funesto quanto allarmante: più di quattro miliardi di persone confinate, cioè quasi la metà della popolazione mondiale, cinque milioni di malati a fine maggio, e quasi 350.000 decessi.
Certo, di pandemie nella storia ce ne sono state molte. E, certo, l'unificazione batterica del globo si è realizzata con la conquista delle Americhe, ma la radicale novità del Covid-19 sta nel fatto che è all'origine di una megacrisi, composta dall'insieme di crisi politiche, economiche, sociali, ecologiche, nazionali, planetarie che si sovrappongono le une alle altre, e hanno componenti, interazioni e indeterminazioni molteplici e interconnesse, in una parola complesse, nel senso originale del termine complexus, cioè "tessuto insieme".
La prima rivelazione fulminante di questa crisi è che tutto ciò che sembrava separato in realtà è inseparabile.
La crisi generale di proporzioni gigantesche causata dal Coronavirus va vista anche come un sintomo virulento di una crisi più profonda del grande paradigma dell'Occidente diventato mondiale, quello della modernità, nato nel XVI secolo europeo la nozione di paradigma indica infatti un principio di organizzazione del pensiero, dell'azione, della società, in breve di tutti gli ambiti dell'umano. Io sono tra quelli che ritengono che il Maggio '68, il degrado della nostra biosfera, la crisi di civiltà, le antinomie della globalizzazione siano crisi del paradigma principale; penso anche che la gestazione di un nuovo paradigma avvenga nel dolore e nel caos, senza neanche la certezza che esso possa emergere e imporsi.
Un cambiamento di paradigma è un processo lungo, difficile, che si scontra con le enormi resistenze delle strutture e delle mentalità vigenti. Si realizza in un lungo lavoro storico che è al tempo stesso inconscio, subconscio e cosciente. La coscienza può contribuire al progredire del lavoro subconscio e inconscio. È ciò in cui crediamo e di cui vogliamo far parte.
Mai siamo stati reclusi fisicamente come nel confinamento, e tuttavia mai siamo stati così aperti al destino terrestre. Siamo condannati a riflettere sulle nostre vite, sulla nostra relazione con il mondo e sul mondo stesso.
Il post-Coronavirus è inquietante tanto quanto la crisi stessa. Potrebbe essere sia apocalittico sia portatore di speranza. Molti condividono la sensazione che il mondo di domani non sarà più quello di ieri. Ma quale sarà? La crisi sanitaria, economica, politica e sociale porterà a una disgregazione delle nostre società? Sapremo trarre una lezione da questa pandemia che ha rivelato a tutti gli umani una comunità di destino strettamente connessa con il destino bioecologico del pianeta? Eccoci entrati nell'era delle incertezze.
L'avvenire imprevedibile è oggi in gestazione. Auspichiamo che sia per una rigenerazione della politica, per una protezione del pianeta e per un'umanizzazione della società: è tempo di cambiare strada.

Conclusione
Essere umanista non significa soltanto pensare che facciamo parte di questa comunità di destino, che siamo tutti umani essendo tutti differenti, né voler sfuggire alla catastrofe e aspirare a un mondo migliore; significa anche sentire nel più profondo di se stessi che ciascuno di noi è un momento effimero, una parte minuscola di un'avventura incredibile che, perseguendo l'avventura della vita, realizza l'avventura umanizzante iniziata sette milioni di anni fa, con un'infinità di specie che si sono succedute fino all'arrivo di Homo sapiens. All'epoca di Cro-Magnon e delle sue magnifiche pitture rupestri, questi ha già il cervello di un Leonardo da Vinci, di un Pascal, di un Einstein, di un Hitler, di tutti i grandi artisti, filosofi e criminali, un cervello in anticipo sulla sua mente; tuttora il nostro cervello possiede sicuramente capacità che non siamo ancora in grado di utilizzare.
Una prima globalizzazione è stata quella di una dispersione e di una diversificazione delle culture, nella diaspora di miriadi di piccole società di cacciatori-raccoglitori sparse sul globo. A partire da quelle microsocietà sono sorte in diversi punti del pianeta alcune società storiche, gli imperi dell'Antichità – sumerico, indiano, cinese, inca, azteco. Questa storia, con le sue grandezze, i suoi crimini, le sue schiavitù, i suoi imperi che regnano e decadono, è essa stessa un'avventura formidabile fatta di creazioni e distruzioni, di miserie e di fortune. L'Impero romano che sembrava immutabile e invulnerabile è crollato; un evento diventato oggetto di studio nei secoli successivi. Poi, dopo un lungo periodo di riflusso di civiltà, da un piccolo angolo d'Europa sono partiti alcuni conquistatori, e alcune piccole nazioni (la Spagna, il Portogallo, la Francia e poi soprattutto l'Inghilterra) si lanciano alla conquista del mondo. Abbiamo in seguito assistito agli eventi sconvolgenti della fine dell'ultimo secolo, alla decolonizzazione, all'implosione dell'Unione Sovietica e, all'inizio di questo secolo, all'ascesa inarrestabile della Cina. Viviamo questa avventura incredibile, con le sue possibilità scientifiche al tempo stesso meravigliose e terrificanti. Penso che l'umanesimo, quindi, non sia soltanto il sentimento di una comunione umana, di una solidarietà umana; è anche il sentimento di essere all'interno di questa avventura sconosciuta e incredibile, e di sperare che continui verso una metamorfosi, da cui nascerà un nuovo divenire.
Ciascuno è un individuo, un soggetto, cioè quasi tutto per sé e quasi nulla per l'universo, un frammento infimo e malato dell'antroposfera; ma qualcosa di simile a un istinto inserisce ciò che di più intimo c'è nella mia soggettività all'interno di questa antroposfera, mi lega cioè al destino dell'umanità. All'interno di questa avventura sconosciuta ciascuno fa parte di un grande essere, insieme ai sette miliardi di altri esseri umani, come una cellula fa parte di un corpo fra centinaia di miliardi di cellule. Ci sono mille volte più cellule in un essere umano che esseri umani sulla Terra.
Ciascuno fa parte di questa avventura inaudita, all'interno della stessa avventura inaudita dell'universo. Essa ha in sé ignoranza, ignoto, mistero, follia nella sua ragione, ragione nella sua follia, inconscio nella sua coscienza, e ciascuno ha in sé l'ignoranza, l'ignoto, il mistero, la follia, la ragione dell'avventura. Noi partecipiamo a questo insondabile, a questo incompiuto così fortemente intessuto di sogni, di dolore, di gioia e d'incertezza, che è in noi come noi siamo in esso...
So che, nell'avventura del cosmo, l'umanità è in modo nuovo soggetto e oggetto della relazione inestricabile tra ciò che unisce (Eros), da un lato, e ciò che divide (Polemos) e distrugge (Thanatos), dall'altro. La parte di Eros è essa stessa incerta, perché può accecarsi, e richiede intelligenza, sempre più intelligenza, ma anche amore, sempre più amore.

PROFILI DI UNA SCUOLA CHE CAMBIA

#NEXTGENERATIONITALIA

Linee guida per la definizione del piano nazionale di ripresa e resilienza
Una nota sintetica sui punti riguardanti la scuola

Il Recovery Fund intitolato Next Generation EU (NGE) è stato approvato dal Consiglio Europeo il 21 luglio 2020, è attualmente al vaglio del Parlamento Europeo e dovrà poi essere ratificato dai diversi Parlamenti nazionali. I regolamenti attuativi entreranno in vigore non prima dell’inizio del 2021. Solo allora gli Stati potranno presentare i loro Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (PNRR). Intanto il Governo italiano ha elaborato delle linee guida per la successiva predisposizione del Piano da sottoporre all’esame del Parlamento nazionale. Il documento con le linee guida è stato pubblicato il 15 settembre 2020.

Il contesto economico e sociale italiano
In una prima veloce analisi di contesto il documento individua alcuni punti sia di forza che di debolezza dell’economia e della società italiane. Fra le criticità segala: le disuguaglianze sociali, territoriali e di genere; il basso numero di giovani altamente qualificati; una crescita del PIL nettamente inferiore alla media dei paesi avanzati collegata anche a un basso incremento della produttività, dovuta, almeno in parte – suggerisce il documento – a gap tecnologici ed educativi.

Un piano di rilancio
Nove le direttrici di intervento che il Piano di rilancio propone, finalizzate alla modernizzazione, alla transizione ecologica, all’inclusione sociale e territoriale, alla parità di genere. Le riportiamo evidenziando quella che riguarda direttamente la scuola.

  1. Un Paese completamente digitale
  2. Un Paese con infrastrutture sicure ed efficienti
  3. Un Paese più verde e sostenibile
  4. Un tessuto economico più competitivo e resiliente
  5. Un piano integrato di sostegno alle filiere produttive
  6. Una Pubblica Amministrazione al servizio dei cittadini e delle imprese
  7. Maggiori investimenti in istruzione, formazione e ricerca
  8. Un’Italia più equa e inclusiva, a livello sociale, territoriale e di genere
  9. Un ordinamento giuridico più moderno ed efficiente

Il documento definisce poi la strategia e gli obiettivi di lungo termine, tredici punti che vanno dal tasso di crescita e di occupazione, agli sprechi alimentari; in tanta varia e variopinta compagnia questi i due che riguardano la scuola:

  • Abbattere l’incidenza dell’abbandono scolastico e dell’inattività dei giovani
  • Migliorare la preparazione degli studenti e la quota di diplomati e laureati

Si prefigura un forte incremento di investimenti pubblici e anche per “Ricerca e Sviluppo (R&S) e per l’istruzione, in special modo terziaria, in misura tale da chiudere il gap di spesa in rapporto al PIL nei confronti della media UE-27 e collocarci al di sopra di quel livello nell’arco temporale del programma (5 anni), con un rilevante effetto sull’incremento della produttività nel medio periodo. Un ruolo rilevante per accrescere la produttività è legato a politiche che consentano l’acquisizione e l’aggiornamento delle competenze e che rafforzino le sinergie tra mondo del lavoro, imprese e istruzione, riducendo il marcato disallineamento fra le qualifiche richieste e quelle disponibili (skills mismatch)”.

Le sei Missioni fondamentali indicate dalle linee guida

  1. Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo
  2. Rivoluzione verde e transizione ecologica
  3. Infrastrutture per la mobilità
  4. Istruzione, formazione, ricerca e cultura
  5. Equità sociale, di genere e territoriale
  6. Salute

Riportiamo per esteso il testo che riguarda il nostro settore.

Istruzione, formazione, ricerca e cultura
Per la missione relativa all’istruzione, formazione, ricerca e cultura, il PNRR punterà a migliorare la qualità dei sistemi di istruzione e formazione in termini di ampliamento dei servizi per innalzare i risultati educativi (i risultati dei test internazionali sull’acquisizione delle competenze, la diminuzione del tasso di abbandono scolastico e del fenomeno dei NEET, l’aumento della quota di diplomati e laureati, l’aumento della partecipazione all’attività formativa degli adulti).
Al miglioramento della qualità dei sistemi contribuiscono: 

  • gli interventi per allineare ai parametri comunitari il rapporto numerico docenti/discenti per classe, nelle scuole e nelle università
  • gli interventi di supporto al diritto allo studio, nonché gli interventi infrastrutturali per innalzare la qualità degli ambienti di apprendimento (riqualificazione energetica e antisismica, cablaggio con fibra ottica, infrastrutture per e-learning)

Con riferimento alla didattica ed ai relativi strumenti, il Governo punterà al miglioramento della qualità della formazione scolastica attraverso la digitalizzazione dei processi e degli strumenti di apprendimento e l’adeguamento delle competenze alle esigenze dell’economia ed agli standard internazionali.
In questo quadro, saranno anche adottate iniziative per la riqualificazione, formazione e selezione del personale. In tal modo, l’Italia potrà conseguire progressi nell’ambito delle conoscenze digitali, economiche e istituzionali e potrà contrastare più efficacemente l’abbandono scolastico.

Si interverrà, inoltre, con politiche specifiche per rafforzare le competenze dei laureati e dei dottori di ricerca, in particolare con riferimento agli ambiti delle discipline STEM “Science, Technology, Engineering and Mathematics” (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) del digitale e dell’ambiente. Si potenzieranno quindi percorsi di formazione superiore e di laurea professionalizzanti e percorsi di dottorato finalizzati al lavoro nelle imprese e nella pubblica amministrazione.
Infine, un’attenzione particolare sarà rivolta alla popolazione in età lavorativa con politiche di lifelong-learning e formazione dei lavoratori e dei cittadini disoccupati e inattivi, anche al fine di favorire la mobilità del lavoro tra imprese e settori produttivi a seguito della digitalizzazione.
Sarà, inoltre, potenziata la rete degli Istituti tecnici superiori (ITS) da connettere in maniera più forte alle esigenze e alla vocazione economica dei singoli territori.
Con riferimento alle infrastrutture scolastiche e universitarie, la digitalizzazione e la transizione green ne richiederanno la riqualificazione o ricostruzione in chiave di efficienza energetica e antisismica ed il cablaggio con fibra ottica. È altresì necessario potenziare le infrastrutture per l’e-learning, che si è dimostrato uno strumento determinante per garantire la continuità dei percorsi formativi ed educativi nel periodo in cui erano in vigore le misure più restrittive per il contenimento del contagio da Covid-19.
Con riferimento al diritto alle competenze, si rafforzeranno gli strumenti volti ad agevolare l’accesso alla formazione avanzata di studenti meritevoli ma provenienti da famiglie con disagio economico e sociale. Ciò consentirà anche di rafforzare la coesione economica e culturale del Paese, presupposto imprescindibile per migliorare il contesto operativo e rilanciare anche per questa via la crescita della produttività.
Per quanto riguarda la ricerca, si interverrà inoltre con azioni volte a supportare i giovani ricercatori, a potenziare la ricerca di filiera e le infrastrutture di ricerca, al fine di cogliere le sfide strategiche per lo sviluppo del Paese. Saranno creati, inoltre, gli innovation ecosystems, luoghi di contaminazione di didattica avanzata, ricerca, laboratori pubblico-privati e terzo settore per rafforzare le ricadute sociali ed economiche delle attività di ricerca.
Il miglioramento dei percorsi formativi e delle condizioni di accesso alla formazione avanzata rappresenta una condizione essenziale per favorire una più stretta interazione tra mondo universitario, ricerca, imprese ed istituzioni. A tale scopo, con riferimento al potenziamento della ricerca, si promuoverà l’integrazione tra ricerca pubblica, mondo produttivo e istituzioni, si potenzieranno le iniziative finalizzate a creare forti sinergie tra i diversi operatori, puntando a stimolarne la propensione a innovare, attraverso attività di ricerca di filiera, soprattutto con riferimento alle imprese di minore dimensione.

Equità
Un preciso collegamento con il sistema Istruzione è presente anche nel punto (Missione) successivo che riguarda l’equità e l’inclusione sociale e territoriale e che si articola in questi 5 paragrafi:

  • Attuazione del Piano per la famiglia
  • Politiche attive per il lavoro e l’occupazione giovanile
  • Empowerment femminile (formazione, occupabilità, autoimprenditorialità)
  • Attuazione del Piano Sud 2030 e della Strategia Nazionale delle Aree interne
  • Rigenerazione e riqualificazione dei contesti urbani, borghi e Aree Interne.

Selezione dei progetti
Lungo e articolato l’elenco per la valutazione e selezione dei progetti. Si afferma tra l’altro che i legami e la coerenza con le riforme e le politiche di supporto devono essere chiaramente esplicitati e dovrà darsi evidenza della tempistica e delle modalità di attuazione, con target intermedi e finali. Un valore aggiunto viene assegnato a “Progetti che riguardano principalmente la creazione di beni pubblici (infrastrutture, educazione e formazione, ricerca e innovazione, salute, ambiente, coesione sociale e territoriale)”.

Politiche e riforme
Un capitolo delle linee guida è dedicato alle politiche e riforme di supporto al Piano. Val la pena riprendere qualche punto del paragrafo che tratta il tema Ricerca e Sviluppo dove, ritornando sulla necessità di sostenere l’accesso degli studenti diplomati a corsi di laurea in scienza tecnologia, ingegneria, matematica si sottolinea la l’esigenza di migliorare la didattica di queste discipline già nelle scuole medie e superiori (ma è solo lì che si pone questo problema?).
Di un qualche interesse anche le indicazioni per il Sostegno alle famiglie e alla genitorialità in cui si affermare “il valore sociale di attività educative e di apprendimento, anche non formale, dei figli, attraverso il riconoscimento di agevolazioni fiscali, esenzioni, deduzioni dall’imponibile o detrazioni dall’imposta sul reddito delle spese sostenute dalle famiglie o attraverso la messa a disposizione di un credito o di una somma di denaro vincolata allo scopo”.

Le risorse disponibili per l'Italia

Le risorse complessive disponibili per l’Italia ammonterebbero a quasi 209 miliardi
Il principale Fondo per finanziare tutto il programma è costituito dalla Agevolazione per la Ripresa e la Resilienza “Recovery and Resilience Facility” (RRF) e prevede 63,8 miliardi come sovvenzione e 127,6 come prestito.
Questo il quadro complessivo

 

La RRF verrà divisa in due fasi. La prima, pari al 70% dell’importo totale a disposizione, dovrà consistere in progetti da presentare al più tardi nel 2022 e le relative risorse dovranno essere impegnate entro quell’anno. I fondi relativi alla seconda fase dovranno essere impegnati entro il 2023. Tutti i programmi di spesa finanziati dalla RRF dovranno essere completati entro il 2026.

ECOLOGICA

La Magna Carta dei Doveri dell’uomo

Il 17 maggio 1991 l’università di Trieste conferì la laurea Honoris Causa a Rita Levi Montalcini. In quella occasione la studiosa non lesse, come tutti si aspettavano, una lezione magistrale riferendosi alla scoperta per cui aveva meritato il Nobel ma, indicando Trieste come città di Frontiera e ponte verso un mondo più aperto e responsabile, parlò a braccio di diritti e di doveri. Nel suo discorso la scienziata insistette molto sulla grande responsabilità umana nel controllo e nell’utilizzo sapiente delle tecnologie nel rispetto del bene di tutti gli uomini e dell’ambiente.
Fu la spinta perché quella Università organizzasse un gruppo di lavoro che elaborò la Dichiarazione di Trieste sui Doveri Umani e, nel 1998, sette anni dopo prese forma la Magna Carta dei Doveri dell’uomo. Il 5 dicembre di quell’anno si riunirono a Trieste scienziati ed economisti di tutto il mondo e con quel documento si definì l’ambizioso progetto che indicava gli obiettivi per il nuovo millennio.
A distanza di 50 anni dalla promulgazione della Carta dei Diritti dell’uomo si pareggiò il rapporto diritti doveri basato sul concetto della sacralità della vita. Vale la pena ricordare i dodici punti della Carta dei Doveri Umani.

È dovere di ogni persona:

  1. Rispettare la dignità umana e riconoscere ed accettare diversità etniche, culturali e religiose.
  2. Combattere ogni forma di discriminazione razziale, non accettare la discriminazione delle donne né l’oppressione e lo sfruttamento dei minori.
  3. Operare a favore degli anziani e dei disabili al fine di migliorare la loro qualità di vita.
  4. Rispettare la vita umana e condannare ogni forma di mercato degli esseri umani viventi e di loro parti.
  5. Appoggiare tutti coloro che si sforzano di aiutare chi soffre per fame, miseria, malattie e per mancanza di lavoro.
  6. Promuovere la consapevolezza della necessità di una efficace pianificazione familiare volontaria nell’ambito del problema della regolazione della crescita della popolazione mondiale.
  7. Appoggiare ogni tentativo inteso a distribuire secondo giustizia le risorse del pianeta.
  8. Evitare ogni spreco di energia e agire affinché si riduca l’impiego di combustibili di natura fossile; favorire l’impiego di sorgenti non esauribili di energia, allo scopo di ridurre al minimo danni all’ambiente ed alla salute.
  9. Proteggere l’ambiente naturale da ogni forma di inquinamento e di sfruttamento eccessivo. Favorire la tutela delle risorse naturali ed il ripristino degli ambienti degradati.
  10. Rispettare e proteggere la diversità genetica degli organismi viventi e favorire il costante controllo delle applicazioni tecnologiche dei risultati della ricerca genetica.
  11. Appoggiare ogni sforzo inteso a migliorare la qualità della vita nelle città e nelle zone rurali, in una lotta costante contro l’inquinamento dell’ambiente ed il suo impoverimento. Si eviteranno così massicce migrazioni di popoli ed il sovraffollamento delle città.
  12. Operare per il mantenimento della pace, condannando ogni forma di guerra, terrorismo ed ogni altra forma di aggressione e sopruso; invocare la riduzione delle spese militari in tutti i paesi della terra, condannare la proliferazione degli armamenti e la vendita di armi, in particolare di quelle di distruzione di massa.

HOMBRE VERTICAL

Senza parole, non rimangono che dolori (e gioie) inesprimibili

di Emidio Pichelan

In quel preciso momento si trattava del bivio dei bivi. O la vita o la morte. Per gettarsi in quell’avventura cieca e sorda e muta, un giovanissimo Abraham Sutzeker, futuro grandissimo poeta yiddish, non poteva che affidarsi a qualcosa di molto speciale, di “fiabesco, capace di sprigionare la potenza della melodia di Hamlin. Citazione quanto mai appropriata perché di quello si trattava: di un topo in trappola.
Gettare il cuore tremebondo oltre l’ostacolo voleva dire concretamente mettere un piede dietro l’altro, nel posto giusto del terreno minato del ghetto di Vilnius. Nessuno sapeva dov’erano piazzate le mine, chi aveva tentato prima di lui era finito in pezzi come bambola senza molle. Persino un uccello improvvido aveva perso la vita. Allora, raccontava il giovane sopravissuto, il giovane Abraham si attaccava alle parole, alla melodia di una poesia: prima sottovoce e con voce tremolante, poi sempre più con voce alta e ferma e squillante, per un chilometro e mezzo. Fino alla salvezza.
Quelle parole, commentava lo scrittore israeliano D. Grossman che citava l’episodio nella cerimonia inaugurale della recente Mostra del libro di Francoforte, non le ricordava più. Perché la poesia la si dimentica in attesa di reinventarla con le parole nostre: per non soccombere alla paura, non sentirsi impotenti, sconfitti, in un campo minato come in una pandemia come nella quotidiana fragilità dell’umana esistenza. Per non perdere la speranza. Sulla capacità taumaturgica delle parole e della poesia non hanno dubbi gli uomini lettori e scrittori come Flaubert, uno dei più grandi (“leggi per vivere” il suo motto), J. L. Borges che pure aveva bisogno degli occhi degli altri (incluso di A. Manguel, sua la citazione del titolo della rubrica; in questi giorni ha potuto donare e collocare la sua favolosa biblioteca della storia della lettura a Lisbona). E anche i “saggi” di Stoccolma che hanno assegnato il Nobel della letteratura a Louise Glück, poetessa statunitense delle cose umili.
Ciò non toglie che non risultino positivamente sorprendenti i risultati di un’indagine on line, condotta da un gruppo robusto di ricercatori dell’Università di Durham (Regno Unito), durata due anni e che ha visto il coinvolgimento attivo di 18mila unità. Quali le attività più riposanti?, era la domanda: in cima alla top ten delle dieci attività più riposanti (meditazione buddista; guardare la TV; un bagno caldo; una passeggiata nella natura; non fare nulla; sognare ad occhi aperti; ascoltare musica; stare da soli; un tempo nella foresta) si colloca la lettura. Con il 58 per cento delle preferenze.
E il sesso? e il denaro? Non pervenuti tra le top ten, evidentemente attività più impegnative e meno riposanti. Non che la lettura non sia impegnativa: è più umana, gratificante, generativa di senso. Come ha scritto autorevolmente il già citato A. Manguel, maestro universalmente riconosciuto di parole e lettura: “In generale, la nostra conoscenza del mondo deriva dalle storie che raccontiamo (…). Viviamo nella paura e nell’attesa, ma abbiamo bisogno di storie per dare parole a ciò che giudichiamo essere la nostra esperienza. Senza parole non rimangono che dolori (e gioie) inesprimibili”.
Ma, come sanno i frequentatori delle Sacre Scritture e dei libri buoni, se la parola non si fa persona e azione, rimane balsamo individuale.
E il mondo rimane irredento.

AFORISMI

Che la piasa, la tasa e la staga in casa

di Leonarda Tola

Molti sono i detti che stigmatizzano, ben oltre le imperfezioni dell’umano, i difetti peculiari delle donne; tra i tanti, due ritornano con particolare insistenza e veemenza a rappresentare quello che sembra essere l’abito più consono alla schietta essenza femminile: la donna è ciarliera per natura e dunque incapace di custodire un segreto. La prima mancanza è all’origine della seconda grave colpa. “Noi tutte infatti siamo giudicate molto loquaci e si crede che una donna che sappia stare zitta non sia mai esistita né oggi né in nessun altro secolo” (Plauto, Aulularia) mette la constatazione in bocca a una donna: “Nam multum loquaces merito omnes habemur,/ nec mutam profecto reperta ullam esse/(aut) hodie dicunt mulierem (aut) ullo in seclo”.
Nelle varianti di tutti i nostri dialetti (si veda quello veneto del titolo “che piaccia, taccia e stia in casa”) abbondano le espressioni che marchiano a fuoco il gregge femminile (grex muliebris) che infesta di grida i luoghi che se frequentati da più di due donne vocianti diventano mercato, starnazzare di oche o papere; qualcuno oggi abusa dell’insulto “capra… capra…”, dove non conta la specie quanto il genere.
Le donne sono garrule e ciarliere e bene facevano i Greci (sottoscrive Schopenhauer) ad impedirne l’accesso agli spettacoli non volendo essere disturbati a teatro che non tollera lo schiamazzo e la distrazione delle ciance. Del grande filosofo è nota la disistima del sesso gentile, definito “sexus sequior”, collocato nello spazio fisico e nell’ordine logico in seconda fila, dietro all’uomo superiore. All’incontinenza verbale delle donne segue la vituperata consuetudine di divulgare ciò che è affidato loro nel segreto: “Detto a una è detto a tutte" (Quod uni dixeris omnibus dixeris, Tertulliano): un segreto rivelato a una donna diventa di pubblico dominio; per questo essa è radicalmente inadatta a serbare in seno ogni specie di confessione. Piuttosto severo San Giovanni Crisostomo (IV secolo) con le critiche pungenti alle assidue frequentatrici delle chiese: “Sono così tante a parlare che tutte insieme «non le vedresti né in piazza e neppure nei bagni pubblici». Sembra che esse si rechino in chiesa per potersi permettere di parlare liberamente, discutendo di questioni inutili e facendo sì che la confusione regni sovrana dovunque”.
L’opposto della chiacchiera sfrontata è il silenzio predicato nell’antichità greco-romana: “Chè tacere, e far senno, e rimanere/ tranquilla in casa, sono per una donna/ le primissime doti” (Euripide, Eraclidi); in ambito cristiano si fa precetto e il tacere da silenzio vivamente consigliato passa a silenzio comandato: “Mulier taceat in ecclesia” (1, Corinzi) in linea con la norma ebraica che vietava alle donne di prendere la parola (o cantare) nell’assemblea riunita per i sacri riti. Silenzio perdurato per secoli. Prescrittivo il divieto per le donne di insegnare. Ancora Crisostomo (Bocca d’Oro) sulla scia paolina: “Un’altra raccomandazione è quella che la donna non deve insegnare in chiesa: una sola volta, la donna ha voluto fare da maestra all’uomo, e ha sovvertito tutto l’ordine prestabilito”. La sottomissione agli uomini è la condizione preventiva per ridurre i danni causati dalle donne che sono frivole e deboli; come è “contro il buon senso e le consuetudini che prendano la parola in pubblico”. Si dirà che sono idee superate. Chissà.

VOCI DI SCUOLA

Quel che rimane della scuola…

di Massimo Iiritano

Venerdì 9 ottobre è il giorno del primo Friday for future. La scuola è iniziata solo da due settimane, dopo infinti rinvii. Mercoledì il sindaco non aveva voluto tentare alternative intelligenti ad un’altra evitabile chiusura forzata, per il passaggio del Giro d’Italia. Pare che nonostante il gran parlare, spesso eccessivo e a sproposito, pochi ancora abbiano imparato a considerare con la giusta misura quella che è l’emergenza scuola, in tempo di pandemia. Loro però, i ragazzi, quelli più consapevoli e sensibili, lo sanno. Hanno vissuto con ansia e timore il rientro a scuola, dopo i mesi di chiusura e di DAD. L’hanno immaginata, desiderata, sognata. Ora, come mi dice Sara in macchina, quella mattina del venerdì 9 ottobre, “vogliamo goderci tutto ciò che ci rimane della scuola”. Peccato perdersi un’esperienza così bella e significativa come il Friday for future, in cui in tempi diversi avevano creduto, in cui credono ancora. Eppure, ora, è il tempo di andare a scuola. Ora che finalmente, anche a loro, qualcosa della scuola è ancora concesso. Quel che rimane, appunto.

È ancora scuola quella in cui si è costretti a stare distanziati per tutte le ore, intervallo compreso? Riusciremmo noi tutti a pensare e a ricordare una scuola senza il compagno di banco, la ricreazione, l’allegra euforia del ritrovarsi insieme a scherzare e a giocare all’ingresso e all’uscita?
Ebbene, è purtroppo questa tutta la scuola che a loro oggi è concesso di vivere. Nella continua attenzione alle distanze, alla mascherina da indossare, alle mani da igienizzare. La scuola dei percorsi tracciati, la scuola senza respiro. Ma a questa scuola, nonostante tutto, non vogliono rinunciare! Troppo ne hanno sofferto la mancanza, troppo ancora ne temono l’assenza.
“Prof, ma la scuola così è straziante!” “Noi siamo tornati, ma la normalità no…”.
Così mi scrive Giusy, che nei mesi del lockdown aveva scritto pagine così struggenti e piene di speranza, da meritare il primo premio speciale Mario Lodi 2020.

«Tra me e alcune mie vicine di banco si era creato una specie di cerchio
Ci si sedeva alle 8 di mattina e ognuna di noi metteva a tavolino un proprio problema, col fidanzato, con la mamma e via dicendo
Passavamo il tempo così, confortandoci e dandoci consigli l’una con l’altra
Senza badare al professore che ci urlava contro o che ci guardava male
Noi continuavamo a parlare, a scherzare e a far divertire gli altri compagni creando un po’ di scompiglio
Immagino ancora quel pomeriggio prima dei colloqui
a giocare a nascondino sul nostro piano alla sesta ora
Immagino di litigare con le mie compagne,
per poi ritrovare i nostri sguardi incrociarsi implorandoci di mettere da parte l’orgoglio
Per dopo abbracciarci e chiedendoci scusa a vicenda
Continuamente immagino il nuovo anno di scuola
Come sarà, o meglio come saremo noi
Se saremo cambiati
Sinceramente non lo so, ma di una cosa ne sono più che certa
Ci riprenderemo il tempo che ci è stato tolto a causa di questa maledetta pandemia
Ritorneremo di nuovo su quei banchi continuando il nostro cerchio
Ritorneremo ad uscire fuori dalla classe senza permesso
Ritorneremo a scovare tutte le cose proibite che si possano fare in una scuola e non esiteremo a farle
Ritorneremo a scherzare fino a litigare
Ritorneremo a guardare ogni ragazzo carino che passa cercando di scoprire come si chiama su Instagram
Adesso sì, mi do una risposta
Si, cambieremo, torneremo più forti e più elettrizzati che mai con la voglia di recuperare tutti i momenti persi
Per adesso mi basta questo, immaginare un nuovo anno scolastico
»

E siamo ad oggi, cosa è rimasto di tutto ciò? Nella scuola degli abbracci proibiti, dei contatti vigilati. Delle classi spezzate, in parte in presenza, in parte a distanza: volti tristi e annoiati che ci guardano alle spalle, dalla LIM, che ci osservano con nostalgia, in una sorta di inevitabile esilio.
E noi, i prof, sempre più bombardati e confusi da indicazioni circolari e protocolli, a tentare di far respirare un po' di normalità, di far finta che tutto sia com’era prima e come si spera tornerà ad essere presto. Noi facciamo lezione, ascoltiamo, dialoghiamo con loro. Con una strana ansia di voler tracciar bene sentieri, che non possiamo purtroppo essere certi che non saranno prima o poi interrotti.
Questa è tutta la scuola che resta, anche per noi. Ma è proprio in questa scuola che dobbiamo imparare a “restare” e a resistere. Non è facile per nessuno ed è inevitabile fare i conti con le nostre stesse ansie e paure, con le nostre incertezze e rigidità. Eppure, nonostante tutto e ancor di più, dobbiamo esserci, dare valore ad ogni momento e ad ogni situazione. Provare ad essere compagni di viaggio e in qualche modo guida per una generazione che rischia di rimanere travolta dal tempo della pandemia. Di cui dobbiamo saper comprendere anche gli eccessi, il desiderio di liberarsi di tanto in tanto da vincoli e restrizioni che tutti noi sappiamo inevitabili e necessari, ma che non per questo possono essere vissuti con serenità e senza sofferenza. E noi non possiamo ignorarlo: dobbiamo esserne consapevoli.
Li ho visti piangere di gioia, questi ragazzi che noi consideriamo spesso solo come minaccia e pericolo, al loro primo ritrovarsi a scuola e nelle innocenti passeggiate estive: quelle che ognuno di noi a suo tempo ha vissuto con desiderio e gioia, alle quali forse pochi di noi avrebbero saputo rinunciare con la triste rassegnazione che leggiamo nei loro volti, affacciati allo schermo di un pc.
Ma se questa è tutta la scuola che ci resta, è davvero triste, ma fa anche rabbia, sentire le profetiche ricette proposte da illustri governatori, evidentemente ignari di come la scuola sta già funzionando. Di tutte le restrizioni e le condizioni che ci siamo già dati, che rispettiamo e facciamo rispettare con scrupolo e responsabilità. Classi spezzate, didattica digitale integrata che sta sostituendo in tutto e per tutto quello che è stata la DAD. Ingressi e orari scaglionati. Tutto ciò è già realtà dal primo giorno. Perché non informarsi? Perché far finta di non vedere?
E, ancora, dove eravate voi, cari Governatori, quando nei mesi estivi si lavorava in tutte le scuole per rendere possibile un rientro in sicurezza? Dove eravate voi quando le scuole chiedevano interventi di edilizia leggera e potenziamento dei trasporti?
“Prof, ma se io esco dopo, rispettando i turni, poi come faccio a prendere l’autobus?”
Dovrebbe essercene un altro, ma tutti sappiamo e sapevamo già, che l’altro autobus purtroppo non c’è.
Perché in fondo si sa, chiudere le scuole è più facile. Senza però considerare che le scuole, così come stanno funzionando sono oggi l’unico presidio vero di sicurezza: sanitaria, sociale e psicologica. Per noi tutti.

SUL FILO DEL TEMPO

La grande notte di tutti i Santi

di Sylvie Germain

È verso l’VIII secolo, in un austero paese celtico, che fu istituita la solennità di tutti i Santi.
Alle porte dell’inverno, del grande freddo in procinto di afferrare la terra, delle livide nebbie e dell’allungamento delle notti, i vivi alzarono la testa al cielo, verso un punto vertiginoso del cielo, quello in cui sorge la Gerusalemme celeste, là dove, nell’assoluto della luce, si muove in processione “la folla di tutte le nazioni, le razze, i popoli e le lingue” evocata nell’Apocalisse. E ognuno, in questa coorte celeste è vestito di candide vesti e in mano porta una palma.
I viventi dalle mani ruvide, appesantiti da pene ed affanni, tormentati dai loro peccati quanto inclini a commetterne altri e altri ancora sul filo tortuoso dei giorni, contemplarono per un istante quel regno invisibile che irradiava gioia e splendore, nel quale cantavano quelle e quelli che “vengono dalla grande tribolazione, che hanno lavato le loro vesti e le hanno purificate nel sangue dell’Agnello”. Ad essi resero gloria e li pregarono di intercedere per loro.

I viventi dell’Occidente continuano a varcare la soglia dell’inverno accompagnati da questa visione di luce e di speranza. E, non appena varcata, si voltano indietro come se qualcuno li interpellasse, come se qualcuno sfiorasse la loro spalla, ma con una voce così tenue, con una mano così leggera, che non riescono a ben comprendere chi sia a rivolgersi loro in quella maniera. È forse uno dei Santi con la fronte segnata dal sigillo degli Eletti disceso dalla Città celeste che si avvicina a loro per benedirli con le dita alate delle loro palme incandescenti?
Ma no! Sono soltanto i loro morti, i loro poveri morti che vagano attorno alla loro memoria. Morti ordinari che non hanno “lavato le loro vesti” e che, lungi dall’ essersi purificati nella tribolazione e nella grazia del tempo del loro soggiorno terreno, si sono caricati di piccole o grandi colpe, si sono sporcate le mani, strapazzato il cuore, macchiata la coscienza, lasciando incolta la loro anima.
Morti molto ordinari, e tuttavia fuori del comune, perché morti intimi e amati, ma amati di un amore spalancato, impotente, in sofferenza.

I nostri morti, di cui ignoriamo tutto, eccetto che sono morti. Morti per sempre.
Di fatto, anche questo è un problema. Noi non sappiamo dove se ne sono andati quelle e quelli il cui volto ridotto in cenere o in polvere ci appare ancora in sogno, in visioni diurne o notturne ora fugaci e ora tenaci; quelle e quelli la cui voce muta risuona ancora, leggera leggera, nel rumore del nostro sangue, nel silenzio delle nostre lacrime; i cui passi, pur da tempo cancellati, calpestano la nostra ombra senza fare rumore.
Noi non sappiamo quello che è successo di loro, né da dove né come capita loro di farci pervenire di tanto in tanto qualche segno.

Allora perché il giorno dopo la solennità di tutti i Santi, nel cuore inquieto dei vivi si materializza improvvisamente il ricordo confuso, plurale, degli umili morti di famiglia, reclamando canti, preghiere, o semplicemente pensieri più dolorosi del solito, fiori e lumi? Forse è che la visione splendente dei Santi, alle porte dell’inverno, getta una luce nelle tenebre in cui i nostri morti sono scomparsi e le illumina un poco.
Per la breve durata di un giorno, i defunti, cinti d’un fine pulviscolo di luce, quale pioggerella caduta dal corpo di gloria delle Sante e dei Santi, splendono nella nostra irrequieta memoria, come una luna illuminata dal sole sfavilla attraverso un oscuro scompiglio di nuvole. E per la durata di una notte le tombe in cui giacciono i defunti riverberano lo splendore del giorno, della memoria vivificata, adornandosi di fiori e fiammelle.
Poi le fiamme si spengono e i fiori appassiscono. E il pensiero dolente dei vivi in lungo lutto oscilla tra la ricordanza e l’oblio, l’afflizione e la collera, la speranza e il dubbio.

Perché, insomma, dove vanno, dove sono i trapassati la cui fronte non è segnata dal sigillo dei Santi, la cui mano è troppo debole per reggere la palma d’oro, porpora e bianca dei Giusti e dei Martiri, la cui voce è troppo bassa e stonata per potersi mischiare al coro degli angeli? I loro corpi si sono dissolti nella terra, dispersi nel vento – ma che ne è delle loro anime?
Se la morte consiste nel mutamento del rapporto tra anima e corpo, quale nuovo legame l’anima instaura con il mondo, e attraverso quale altro “corpo”?

Sono molteplici questi legami, soggetti a infinite metamorfosi, perché l’anima abbandonata dal corpo, abbandonata sulla terra, ancora schiava delle sue antiche passioni e annebbiata dai suoi peccati, rinnova e manifesta diversamente il suo rapporto con il mondo, stabilendo talvolta insolite alleanze con gli elementi, con le cose e con la materia. Con corpi che non sono più di carne – ma sempre di bellezza, per quanto discreta e modesta essa sia.
La storia delle anime in rottura con i loro corpi, diventate vagabonde sulla terra, è senza limite e senza un ordine apparente. È una storia vecchia quanto l’umanità, e che finirà soltanto con questa. È una favola in continuo movimento, ampia e scura quanto il mare, una favola che sfoglia i suoi racconti a piacere del tempo, attraverso tutta la terra, in forma minerale o vegetale, o ancora acquatica, nuvolosa, ignea.
Una favola in frammenti, i quali, di tanto in tanto, abbandonano briciole di sé nel vento, in un raggio di luce, nel fruscio del fogliame. Una goccia di latte, un sussulto d’ombra. Una favola i cui frammenti scivolano rasenti all’invisibile, a fior d’oblio, e che talvolta attraversano il nostro campo visivo o sensitivo, illuminando per un istante l’area del nostro pensiero, della nostra emozione, della nostra intuizione.
I morti – i nostri morti – sono come la colomba di Noè, la quale, dopo aver a lungo errato sopra le acque del diluvio, ritorna verso l’Arca al crepuscolo, portando nel becco un ramo nuovo d’ulivo. Poi riprende il volo, sparendo definitivamente. Ma il dolore allora si attenua nel cuore del sopravissuto, perché il segno che ha ricevuto, per quanto esiguo e fuggevole, ha deposto in lui un granello di pace e di luce.

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Una nota biografica di Sylvie Germain è presente nel numero di settembre dell’Agenda mese.

UN ANNO CON PINOCCHIO

Correre

di Gianni Gasparini

Pinocchio corre. La corsa, il correre è la sua azione più tipica e frequente, quella più rappresentativa del suo carattere, della sua anima e della sua stessa identità: nel corso del testo, ben più di cento volte l’azione del burattino è descritta con il correre o con verbi e sostantivi analoghi(1). Pinocchio è stato definito dallo psicanalista Giovanni Jervis ipercinetico; in realtà, non saremmo in grado di immaginarci questo straordinario burattino-bambino senza la sua corsa e i suoi salti, che in mare diventano nuoto, attività congeniale ad un essere di legno che galleggia senza sforzo nell’elemento liquido.
Pinocchio corre da quando è nato e continuerà a farlo fino all’ultimo capitolo, appena prima della metamorfosi che lo farà diventare un ragazzino in carne e ossa. E la fuga iniziale da casa, paradigmatica, come si è visto è una corsa improvvisa e rapidissima che solo l’abilità del carabiniere piantato in mezzo alla strada riesce a bloccare.
La corsa di Pinocchio non assomiglia al nostro jogging o a una corsetta leggera. La sua corsa è contrassegnata dalla velocità, un tratto culturale che lo fa sentire vicino alla modernità in cui viviamo, anche se il burattino è figlio di una società ancora ai margini dell’industrializzazione. Per essere più precisi, Pinocchio è nel racconto collodiano il campione della velocità, nonostante la sua bassa statura (un metro di altezza, come ci viene detto): egli viene paragonato di volta in volta nel suo movimento veloce a diversi animali selvatici e persino a una palla di fucile. Soprattutto, di Pinocchio si scrive più volte che corre “come un bàrbero”, e cioè come quei cavalli considerati veloci più di ogni altro animale di cui si organizzavano corse e competizioni, anche nella città di Acchiappa-citrulli nelle cui prigioni Pinocchio viene rinchiuso per alcuni mesi. Per secoli l’espressione “correre come un bàrbero” è rimasta nella lingua italiana ad indicare il massimo della velocità: la usava anche Galileo, come ci fa sapere Italo Calvino nelle sue Lezioni americane (Garzanti 1988).

Perché corre Pinocchio? Vi sono due ordini di ragioni, sia contingenti che sostanziali. Le prime riguardano il fatto che il burattino si trova ripetutamente in situazioni spiacevoli, spesso addirittura in pericolo di vita, dove è primaria e urgente la necessità di sottrarsi ad avversari che vogliono raggiungerlo per nuocergli o eliminarlo: è il caso della lunghissima corsa per sfuggire agli Assassini (la Volpe e il Gatto travestiti) che vogliono impadronirsi dei suoi zecchini d’oro (cap. XIV e XV), oltre che di altri punti del racconto. Ma vi è un altro ordine di ragioni, più profondo, che credo rispecchi la natura stessa del burattino e le sue pulsioni più autentiche: Pinocchio corre perché è fatto per correre, perché la sua anima si esprime nella corsa e nel salto, nella rapidità e nel ritmo travolgente che gli sono stati assegnati da chi l’ha concepito.
Pinocchio corre perché correre è bello, è un modo di vivere che gli è congeniale e che si accorda intimamente, come vedremo, con la sua visione poetica del mondo. Pinocchio poi eccelle nella corsa, dove supera quasi sempre i concorrenti o competitori. Ad un certo punto del racconto si svolge una vera e propria gara di corsa tra Pinocchio e i suoi compagni, che hanno marinato la scuola per andare in riva al mare a veder passare il terribile Pesce-cane: da essa emerge l’indiscussa superiorità del burattino, che vince la gara con distacco e senza fatica, di contro al procedere scomposto e ansante dei compagni.
Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi.
Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore (cap. XXVI).
Si comprende allora la sofferenza di Pinocchio allorché la sua libertà di movimento e la sua mobilità viene bloccata, impossibilitata: come quando, insofferente della lentezza della Lumaca, la cameriera della Fata che sta scendendo le scale per andare ad aprirgli, dà un calcio alla porta e vi rimane con il piede conficcato per molte ore (cap. XXIX), o quando resta preso nella tagliola del contadino nel cui campo stava cogliendo dei grappoli d’uva (cap. XX). In definitiva, la corsa di Pinocchio è espressione di una aspirazione alla libertà di movimento e allo scioglimento dai vincoli che lo fa sentire particolarmente vicino alla nostra sensibilità.

(1) G. Gasparini, La corsa di Pinocchio, Vita e Pensiero, Milano 1997.

RICORRENZE

Fra le giornate che possono essere utilmente prese in considerazione dalla scuola può valer la pena considerare il 4 novembre anche pensando che, non quest'anno ma il quattro novembre 2021, ricorreranno i cento anni esatti da quando nell’Altare della Patria furono poste le spoglie del Milite Ignoto, la salma senza nome e senza storia presa per onorare tutti i seicentomila soldati della Grande Guerra.
Qui ricordiamo quella data attraverso la ricerca - racconto che Renzo Carlo Avanzo ci fa sull’origine dell’idea di un altare della Patria e della pietosa individuazione delle undici salme fra cui fu scelta quella da deporre nel sacrario
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Alla ricerca di undici soldati senza nome

di Renzo Carlo Avanzo (U.n.u.c.i. Vicenza Bassano)

Nella duecentesca chiesa di San Lorenzo a Vicenza, sul braccio destro del transetto e vicino al monumentale altare Pojana, si trova una piccola scultura lavorata a bassorilievo: inserita in una minuscola edicola ogivale e quasi nascosta da una lucerna che ne toglie in parte la visibilità (forse sarebbe opportuno spostarla...), l’opera è dedicata al Milite Ignoto: questi è rappresentato a mezzo busto, con il volto virile e gli occhi chiusi. La mano destra impugna una spada, mentre un angelo alle sue spalle sembra offrirgli conforto e protezione. Immediatamente al di sotto dell’edicola, poco conosciuta dagli stessi vicentini, è collocata una lapide che riporta la motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare, conferita al Milite Ignoto l’1 novembre 1921:

Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria.

L’iscrizione, che reca la data del 4 novembre 1928, è firmata dai Combattenti Vicentini e da “Una madre e ogni donna d’Italia che piange di angoscia e di orgoglio per il figlio disperso”.
Quando alcuni anni fa mi accorsi casualmente di questo modesto monumento, mi chiesi se fosse passata anche per Vicenza una delle undici salme (poi raccolte nella Basilica di Aquilea), fra le quali si scelse quella da tumulare all’Altare della Patria: il Milite Ignoto, appunto, in rappresentanza dei circa 600.000 Caduti italiani della Grande Guerra.
Tuttavia l’apposizione della lapide, come abbiamo visto, è avvenuta nel 1928, VI anno dell’Era Fascista; in un momento cioè alquanto lontano da quando sui monti vicentini erano state pietosamente raccolte le spoglie dei soldati dispersi, fra le quali individuare quella da destinare a Roma.
Inizialmente la mia attenzione era stata originata non tanto da questo piccolo monumento, quanto piuttosto da una targa in bronzo posta sullo stipite destro dell’altare e dedicata al tenente colonnello Luigi Federico Marchetti (nonno di un omonimo ufficiale della Sezione Unuci di Vicenza-Bassano), caduto il 25 agosto 1915 nella battaglia di Col Basson, meritando la Medaglia d’Argento al Valor Militare: una storia che spero possa vedermi impegnato più avanti. Il caso volle poi che mi recassi, per altre ricerche di carattere storico, sui confini orientali d’Italia, avendo l’occasione di visitare ancora una volta l’antica basilica paleocristiana di Aquileia. Dietro l’abside, nel cosiddetto “Cimitero degli Eroi”, si trovano diverse spoglie di decorati della Grande Guerra. Fra essi anche le salme di dieci soldati sconosciuti, rimaste in loco dopo che Maria Bergamas, madre di un Sottotenente irredento disperso, scelse fra undici bare quella da destinare all’Altare della Patria.
Non è molto noto che, al termine della Grande Guerra, proprio in Italia nacque l’idea di ricordare i Caduti. Non solo moralmente, attraverso monumenti alla memoria, ma anche fisicamente, onorando la salma di un Milite Ignoto. Fu il colonnello Giulio Douhet, italianissimo nonostante il cognome nizzardo, a proporre per primo tale progetto, che fu però rapidamente realizzato in Francia, scegliendo come luogo simbolico per accogliere la Tombe du Soldat Inconnu la base dell’Arco di Trionfo di Parigi; mentre in Inghilterra, analogamente, si optò per l’Abbazia di Westminster a Londra. L’inaugurazione ufficiale avvenne in entrambi i casi l’11 novembre 1920 e ogni anno si celebra tale significativa ricorrenza.
Dunque un’idea, quella di Douhet, che varcò velocemente i confini nazionali per essere recepita da altri Paesi, come ricorda Lorenzo Cadeddu nel volume Alla ricerca del Milite Ignoto (Gaspari, 2011). Fatto sta che Francia e Inghilterra ci batterono sul tempo, forse per le solite italiche lentezze burocratiche. Nel nostro Paese si accese un dibattito sulla dislocazione della salma: la prima scelta ricadde sul Pantheon, ma poi si pensò all’Altare della Patria, perché più monumentale e significativo. E soprattutto perché avrebbe contenuto un unico corpo, mentre il Pantheon ospita tuttora le spoglie di diverse personalità, fra le quali artisti e sovrani.
Un luogo, l’Altare della Patria, che sembrava inoltre ben rispecchiare le parole di Douhet, pubblicate cento anni fa (il 20 agosto 1920) su Il Dovere, giornale da lui diretto: “Al Soldato bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei condottieri può aspirare”.
Tornando alle origini di questa vicenda, si ricorda che un’apposita commissione romana indicò undici significativi teatri di guerra, laddove gli scontri erano stati più accaniti e sanguinosi, nei quali individuare il futuro Milite Ignoto. Le pietose operazioni ebbero inizio il 3 ottobre 1921 a Castel Dante in Trentino: la prima salma venne prelevata dal cimitero di guerra di Castel Dante, dove riposavano 7.849 Caduti di entrambe le parti, compresi i roveretani Fabio Filzi a Damiano Chiesa. Oggi quel cimitero è diventato un imponente sacrario monumentale che custodisce i resti di circa 20.000 soldati. Sempre stando alle note di diario di Tognasso, la salma fu trasferita al cimitero civico di Trento, dove rimase la notte dal 3 al 4 ottobre 1921. Il giorno successivo la colonna formata all’uopo sostò sotto il Pasubio, probabilmente nei pressi del Pian delle Fugazze, da dove parte la Strada degli Eroi, carreggiabile che conduce a Porte del Pasubio. Qui, in un piccolo cimitero militare, fu raccolta la seconda salma. Nelle prime ore del pomeriggio la colonna, guidata da Paolini e Tognasso, entrò a Schio. Il sindaco chiese e ottenne che i corpi dei due soldati fossero trasferiti in duomo per essere onorati e benedetti.
Alla sera dello stesso 5 ottobre il convoglio giunse a Bassano, in festa per la tradizionale Fiera del bestiame. All’arrivo della colonna un commovente silenzio scese improvviso su tutta la città. Le salme furono portate in una camera ardente allestita nei locali della Casa del Soldato, all’interno della caserma Cimberle Ferrari (dove ora si trova il cantiere del Polo Museale di Santa Chiara). A Bassano si attese l’arrivo delle spoglie di un terzo soldato, rinvenute sull’Ortigara e vegliate nella notte dal 5 al 6 ad Asiago da un reparto in armi e da ex combattenti.
Il 6 ottobre la colonna riprese le ricerche, questa volta sul Grappa, dove venne recuperato il corpo di un quarto militare senza nome. È significativo che Bassano abbia fornito asilo, seppur per breve tempo, a ben quattro degli undici corpi fra i quali forse quello del Milite Ignoto.
Da Conegliano furono raccolte altre due salme, rispettivamente sul Montello e alle foci del Piave presso Jesolo (che si chiamava ancora Cavazuccherina).
A Jesolo, su indicazione di Paolini, venne recuperato il corpo di un marinaio “dell’invitta marina”, la stessa che nel Primo Conflitto Mondiale s’era rifatta della figura (non onorevole) rimediata durante la Terza Guerra d’Indipendenza.
La commissione si portò quindi a Udine, da dove si recò poi a Cortina. Qui venne recuperata un’altra salma dai luoghi della Guerra di mine.
Ultimo importante punto di raccolta fu Gorizia, dove furono composte le salme prelevate nelle vicinanze delle foci del Timavo, a Castagnevizza, a Colle San Marco e sul Monte Rombon. Dopo otto giorni di camera ardente nella chiesa di Sant’Ignazio, dove furono onorate da migliaia di persone, il 27 ottobre si provvide a trasferire le undici spoglie ad Aquileia: qui venne scelta quella del Milite Ignoto, che il mattino del 2 novembre giunse a Santa Maria degli Angeli in Roma, chiesa dell’Ordinariato Militare d’Italia.

[tratto da Bassano News – nov-dic 2020]