Settembre 2020

In questa pagina:
Cose da fare: Più sicurezza, più serenità per tutti (Maddalena Gissi)
Ragionando di comunità: Tra welfare e convivialità (Gianni Gasparini)
Profili di una scuola che cambia: Educazione civica, la carta fondamentale (Carlo Marconi)
Hombre vertical: Principio e azione (Emidio Pichelan)
Aforismi: Ozio e negozio. Darsi da fare non è sempre un affare (Leonarda Tola)
Sul filo del tempo: La lezione del passero (Sylvie Germain)
Un anno con Pinocchio: Invito a una rilettura (Gianni Gasparini)
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COSE DA FARE

Più sicurezza, più serenità per tutti

di Maddalena Gissi

Preparare l’avvio di un nuovo anno scolastico è sempre impegnativo, quest’anno per le ragioni a tutti note lo è molto di più del solito. I mesi scorsi sono stati di intenso lavoro per tutti e anche per il sindacato, che oltre alla necessità di seguire come sempre fra agosto e settembre i consueti adempimenti legati alla mobilità annuale, alle nomine in ruolo, al conferimento delle supplenze, si è concentrato in modo particolare sulle questioni connesse al ritorno alle attività scolastiche in presenza, per far sì che un appuntamento così atteso potesse avvenire in condizioni di massima sicurezza.
Non sto a ricordare la fatica che ci è costato inseguire e pungolare un’Amministrazione spesso incerta e in ritardo, con la quale solo il 6 agosto, a meno di un mese dall’inizio del nuovo anno scolastico, si è potuto sottoscrivere il Protocollo d’intesa per garantire l’avvio dell’anno scolastico nel rispetto delle regole di sicurezza per il contenimento della diffusione di covid 19. Mi preme invece ribadire, perché forse non ce n’è ancora sufficiente consapevolezza nella pubblica opinione, che l’impegno messo in campo (fatto di confronto e sollecitazioni, ma anche di molte proposte concrete e puntuali) non è stato rivolto, com’è comunque nostro preciso dovere, solo alla tutela delle lavoratrici e dei lavoratori che rappresentiamo, esposti ad elevati livelli di rischio per i quali hanno diritto alla massima protezione.
La ripresa delle attività scolastiche, per l’enorme numero di persone che coinvolge, è un evento le cui implicazioni riguardano l’intera collettività. Non a caso la si è definita un banco di prova fondamentale su cui il Paese gioca in gran parte le sue prospettive di uscita dall’emergenza che sta vivendo. Una sfida che chiama in causa le capacità e le responsabilità del Governo e della politica, troppo spesso incline a utilizzare anche i temi dell’emergenza Covid come argomento di polemiche strumentali e di interminabili diatribe. Che la condivisione di una condizione straordinaria di rischio generalizzato potesse far prevalere le ragioni della coesione e della solidarietà in nome del bene comune sembra purtroppo essersi rivelata un’illusione. Il profilo del dibattito politico si rivela molto spesso non all’altezza dell’emergenza che siamo chiamati insieme ad affrontare. E così arriviamo alla ripresa delle attività scolastica senza la certezza di vedere soddisfatte tutte le condizioni necessarie per non temere, una volta riaperte le porte delle scuole, di doverle nuovamente richiudere.
Tra le cose da fare in questi giorni è un’assoluta priorità quella di verificare la scrupolosa applicazione, in ogni istituto e in ogni plesso, delle misure previste dal Protocollo nazionale sulla sicurezza. Sarà questo l’impegno principale cui si dedicheranno le nostre strutture territoriali, e un ruolo fondamentale sarà svolto dalle rappresentanze sindacali attive in ogni scuola, protagoniste il prossimo 7 settembre della nostra 5° giornata nazionale RSU e Delegati CISL Scuola.
Garantire più sicurezza significa porre le basi per un ritorno in serenità, per tutti. Vogliamo vivere l’incontro tanto atteso con i nostri alunni come una festa, non come un incubo. Abbiamo lavorato e continuiamo a lavorare intensamente per questo.

RAGIONANDO DI COMUNITÀ

Tra welfare e convivialità

di Gianni Gasparini

Sul virus e sulla pandemia si è scritto enormemente in questi mesi e si continuerà a farlo: credo che nessun altro argomento negli ultimi decenni abbia esercitato un’attrazione così forte anche dal punto di vista della scrittura, dei libri e degli articoli che sono usciti su carta e online.
In questa valanga di parole e di riflessioni che le sorreggono vorrei riuscire a selezionare personalmente qualcosa di sintetico, almeno un pensiero che valga la pena di conservare e su cui concentrare l’attenzione e le forze.
Mi lascio guidare dal criterio che alla fine resta ciò che vale, e contemporaneamente vale ciò che resta. Che cosa resta dunque attualmente di questa esperienza tragica e sconvolgente, che si è attenuata negli ultimi mesi in Italia ma continua ad avere effetti dirompenti nel mondo e in particolare in certi paesi, e che comunque potrà conoscere anche da noi nuove ondate di contagi?
Ciò che resta è anzitutto una ferita, un vulnus profondo: la consapevolezza della fragilità di una società mondiale che si pensava – e che noi pensavamo – forte, strutturata nella sua superiorità tecnologica capace di dominare la natura e ogni altro fenomeno, programmata fin nei dettagli nei tempi e nelle performances, dal livello individuale a quello collettivo locale, nazionale e mondiale. Una società dove la globalizzazione e il digitale erano l’espressione più corrente e diffusa della modernità di un secolo iniziato sotto segni tutt’altro che pacifici (l’Undici settembre del 2001). Le conseguenze di questa fragilità e vulnerabilità sono già ora visibili, ma si manifesteranno più chiaramente nei prossimi mesi e anni. Non è questa la sede per trattarne, ovviamente.
Qui interessa capire soprattutto, nell’ambito della ferita arrecata dalla pandemia, che cosa sia possibile salvare, serbare, mantenere, pur nei limiti che saranno consentiti dai vincoli esistenti. In estrema sintesi, vorrei indicare due “cose”, due elementi portatori di valori: il Welfare state e la convivialità.

Il Welfare state o Stato sociale – che i francesi chiamano État-providence – è stata una realizzazione che ha preso piede in Europa e nei paesi occidentali industrializzati a partire dall’inizio del Novecento, con le prime leggi a favore dei lavoratori, e con l’istituzione delle pensioni e delle assicurazioni sociali. Si è trattato di una delle più grandi ideazioni e invenzioni socio-economiche della storia umana, nella quale non vi era mai stata protezione sociale per le evenienze della vecchiaia e delle malattie, oltre che per la disoccupazione. La crisi della pandemia attuale ha rimesso all’ordine del giorno nel nostro continente il tema del Welfare, specie per le difficoltà occupazionali, e lo ha allargato – almeno come inizio e tentativo – all’area non più solo di ciascun singolo paese ma dell’Unione Europea. Si tratta di una importante prospettiva, che conferma i limiti di un’economia basata solo sul mercato, già emersi nella grave crisi economico-finanziaria del 2007-2008, e che indica l’urgenza di un cambiamento di paradigma, come segnalato a più riprese anche da Papa Francesco nelle sue Encicliche.

Il secondo elemento è la convivialità, che emerge “in negativo” per così dire, nel senso che le misure e le restrizioni adottate e in corso per combattere e contenere il contagio sono all’esatto opposto dell’espressione della convivialità tra persone: mascherina, distanziamento interpersonale all’aperto e/o nei mezzi di trasporto, nei negozi, nei luoghi chiusi dai musei alle chiese; e poi, a scuola, i banchi singoli o monoposto.
Come dicono gli psicologi, il distanziamento fisico che stiamo esercitando da mesi è patogeno per gli umani. Gli esseri umani, dalla nascita all’ultimo respiro, hanno bisogno di contatto fisico: mani che si incontrano e si stringono, vicinanza e contatto dei corpi, espressioni affettive come gli abbracci, le carezze, i baci.
Per quanto riguarda in particolare le aule e l’ambito scolastico, c’è da chiedersi come possa convivere una scuola che educhi ai grandi valori dell’incontro e della stessa convivialità, perseguita finora in mille forme, con una scuola che dovrebbe di fatto socializzare al distanziamento tra le persone, al saper “tenere le distanze”, con o senza l’uso della mascherina.
Credo che la via d’uscita sia il carattere provvisorio di tutte le misure che sono anti-conviviali: misure che vanno accettate e praticate oggi nella prospettiva e nella speranza che si tratti di qualcosa destinato a risolversi entro un tempo ragionevole, quasi certamente con la scoperta di un vaccine adeguato. C’è soltanto da augurarsi che questa speranza non sia un wishful thinking, un pio desiderio.

PROFILI DI UNA SCUOLA CHE CAMBIA

Educazione civica: la carta fondamentale

di Carlo Marconi

La Legge n. 92 del 20 agosto 2019 sancisce, come ben sappiamo, l’introduzione dell’insegnamento scolastico dell’Educazione Civica; le Linee guida del giugno scorso ne precisano i confini entro cui muoversi.

Da qualche tempo è in corso il dibattito sull’opportunità e sulla validità di un’operazione di questo tipo, che ha aperto la strada a considerazioni anche di carattere politico. Ci si chiede se era davvero necessario reintrodurre nella scuola una disciplina che, quanto meno nella dicitura, apparentemente ci riporta indietro di anni, ma che nella pratica didattica non era mai scomparsa.
Se andiamo a ritroso nel tempo, infatti, scopriamo che l’educazione civica era stata introdotta nella scuola italiana più di 60 anni fa. Erano i tempi in cui ministro della Pubblica Istruzione era Aldo Moro, Padre Costituente, che auspicava come fondamento della nuova disciplina il raggiungimento, da parte degli allievi, della consapevolezza che “la dignità, la libertà, la sicurezza non sono beni gratuiti come l'aria, ma conquistati”.
In tempi più recenti era stata adottata la formula di “Cittadinanza e Costituzione” e adesso si torna all’antica denominazione attraverso una legge che non prevede costi per lo Stato e che affida ad un docente coordinatore la responsabilità di raccordare un insegnamento affidato ai vari componenti del Team docente o del Consiglio di classe.
C’è davvero bisogno di contingentare questa materia in pacchetti orari di insegnamento con tanto di impalcatura valutativa?
Il docente attento e scrupoloso potrà obiettare che l’educazione civica viene praticata quotidianamente, in ogni ordine di scuola, in ogni singolo momento della giornata scolastica. Laddove si collabora al buon funzionamento della classe, si strutturano insieme regole per convivere democraticamente, si condividono riflessioni, si fa Educazione Civica; nei contesti in cui ci si educa all’ascolto reciproco, a saper intervenire nel rispetto dei turni e delle opinioni di ciascuno senza prevaricare gli altri, si fa Educazione Civica.
E si fa Educazione Civica anche quando si ha cura dei materiali a noi affidati, dei luoghi e degli ambienti in cui si svolgono le attività.
Sono, tutte queste, azioni quotidiane che rientrano nella normale routine scolastica e che non giustificano l’adozione di un provvedimento legislativo che sembra quasi spingere la scuola a diventare luogo di formalismi, dove regnano i nobili sentimenti e le buone maniere.
In realtà che cosa porta di nuovo questa legge?
Abbandono la tentazione di addentrarmi in considerazioni di carattere tecnico e specialistico e provo a lasciarmi “contaminare” dalle suggestioni del lessico.
Leggo la parola “Costituzione” e, mentre la assaporo, penso che sarebbe un’occasione straordinaria e importante se dietro la spinta di questo dettato normativo riuscissimo a proporre ai nostri scolari, già dalla scuola primaria, lo studio dei Principi Fondamentali della nostra Carta a partire dalla storia che ha portato alla stesura e alla nascita di questo testo meraviglioso. Prendiamo coraggio e raccontiamo ai nostri alunni quella storia nel cui tessuto affondano le radici della nostra democrazia. In tempi in cui i testimoni diretti stanno ormai scomparendo, tocca a noi insegnanti parlare, ai nostri bambini e ai nostri ragazzi, di dittatura, di fascismo, parola che a nominarla sembra creare sempre più imbarazzo; spetta a noi aprire dibattiti e riflessioni sul valore dei diritti umani e sulle tragedie che hanno portato a vedere calpestati tali diritti; è compito nostro raccontare la guerra, la Resistenza, la liberazione e l’affermazione di valori come la pace e la libertà.
Dinanzi all’espressione Sviluppo Sostenibile e alle tematiche dell’educazione ambientale e della tutela del patrimonio e del territorio, sento risuonare i “Versicoli quasi ecologici” di Giorgio Caproni e il suo monito a non soffocare “il lamento del lamantino”, piccolo mammifero a rischio di estinzione, perché la Terra e i suoi abitanti tutti sono un dono da custodire.
“Cedi la strada agli alberi”, suggerisce Franco Arminio, poeta dei luoghi e dei paesaggi, invitandoci alla lentezza, alla cura e a sguardi attenti.
Ma lo Sviluppo Sostenibile, oltre alle problematiche di natura ambientale, invita ad affrontare temi cruciali che riguardano i diritti fondamentali delle persone.
Come possiamo, allora, non cogliere l’opportunità per affrontare con i nostri alunni, in modo serio e onesto, nell’ottica di un principio di uguaglianza, la questione dei flussi migratori? Come non sfruttare la possibilità di aprire spazi di studio e di approfondimento su questo fenomeno epocale, intersecandolo con i temi dei cambiamenti climatici, dell’iniquo sfruttamento delle risorse, del degrado ambientale?
E la Cittadinanza Digitale come può non richiamare alla mente i duri mesi del lockdown?
Fino allo scorso inverno l’utilizzo dei computer a scuola, e penso in modo particolare alla scuola primaria, veniva avvertito da molti come un vezzo di modernità, una moda, un voler stare al passo coi tempi di un pianeta che corre a velocità esponenziale. Oggi abbiamo toccato con mano quanto sia diventato ormai irrinunciabile educarci ad un uso consapevole degli strumenti tecnologici.
Nell’Enciclica Laudato si’, Papa Francesco scrive che: “i grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell’informazione”.
L’urgenza di maturare una competenza digitale risponde senza dubbio all’esigenza di acquisire la capacità di padroneggiare e organizzare conoscenze e informazioni; ma essere “cittadini digitali” significa, soprattutto, riuscire a comunicare in modo responsabile attraverso la rete, prevenendo i rischi ad essa connessi. L’esperienza della Didattica a Distanza l’ha affermato con forza e i nostri allievi sono stati, per noi docenti, guide sapienti in questo avvio di percorso.
Se le sfide educative che pone oggi il nostro tempo verranno raccolte, se non dilapideremo questa occasione di crescita, l’introduzione di questo “nuovo” insegnamento avrà avuto un senso.

HOMBRE VERTICAL

Principio e azione

ovvero: quando si può uccidere un uomo?

di Emidio Pichelan

Per eliminarli, era necessario dichiarare che i kulaki non erano esseri umani. Era quello che i tedeschi avevano detto degli ebrei. E questo era quello che Lenin e Stalin dicevano dei kulaki: non sono esseri umani. Ma era una bugia”.

Vasily Grossman (1905-1964), ebreo e scrittore, saggista e giornalista sovietico, è un testimone straordinario della rivoluzione russa, del lavaggio del cervello di un intero popolo, dell’instaurazione di un regime poliziesco, dell’assedio di Stalingrado, dei campi di sterminio tedeschi (è stato il primo a scrivere di Treblinka). Nel libro pubblicato postumo all’estero Everything flows (Vintage Books, London, 2011), una trentina di pagine sono dedicate all’Holomodor, la carestia “imposta” sull’altare della collettivizzazione del granaio orientale che causò dai 3 ai 5 milioni di morti (1932-1933).
La strada maestra per negare la vita a un essere umano, senza che il senso di colpa paralizzi i cuori e le mani dei carnefici diretti o indiretti dei propri simili, è il racconto ossessivo della “non umanità” delle vittime designate: così si è fatto per gli aborigeni del Nuovo Mondo, per gli ebrei, per gli africani ridotti in schiavitù, per le oppressioni delle minoranze …
Chi è un essere umano, invece, attorno alla cui dignità la Costituzione italiana ha costruito una corazza di acciaio e di cristallo, lo sa bene l’ex magistrato Gherardo Colombo. Dimessosi dalla magistratura con l’aureola fulgida di inchieste esplosive – delitto Ambrosoli, Loggia P2, Mani pulite – per un quindicennio si dedica all’insegnamento sul campo: va nelle scuole a spiegare ai giovani la Costituzione, il valore della legalità, il senso vitale di una vera, strutturata educazione civica. Alla fine di luglio ha dato vita – con altri nomi di sicuro prestigio – ad una onlus dal titolo che dice tutto: ResQ People Saving People, il cui obiettivo è attrezzare una nave (ci vogliono un paio di milioni di euro) salva immigranti.
Una onlus, una nave salva immigranti di questi tempi?
Ai giornalisti curiosi e incuriositi che glielo domandavano, Colombo ha dato una risposta delle sue: “Se fossi in mare, mi sono detto, e mi sentissi in pericolo, vorrei che qualcuno mi venisse a salvare? Sì, lo vorrei. È ora di passare all’azione. Punto”.
I principi fondamentali dell’umanità, d’acciaio (per la sostanza adamantina del postulato) e di cristallo (per la luminosa trasparenza dell’enunciato), sono naturaliter semplici e comprensibili. Richiedono coerenza; e Colombo lo è: si comporta e agisce come s’aspetta gli altri facciano. Di più, sosteneva la straordinaria filosofa mistica (e professoressa di liceo) Simone Weil: poiché l’essere umano è essenzialmente vulnerabile, aiutare è un obbligo verso chi condivide la stessa sorte: “Un uomo che fosse solo nell’universo, non avrebbe dei diritti, ma avrebbe degli obblighi”.
La politica si muove in un campo diverso, ha a che fare con altri parametri (il contesto, la situazione, i rapporti di forza). Ma i principi sono d’acciaio e di cristallo; non possono essere completamente ignorati, allegramente dimenticati, serenamente stracciati.
Non è un caso che sia così “modesto”, per usare un aggettivo soft, il dibattito, meglio la polemica, sui migranti. Dal punto di vista intellettuale come, ancor più, da quello etico. Con quali risultati, poi!

AFORISMI

Ozio e negozio. Darsi da fare non è sempre un affare

di Leonarda Tola

È noto che la parola negotium (affare, impegno) dice con la negazione (nec) il contrario di otium, termine che nell’accezione latina va oltre il significato di tempo libero dal disbrigo degli affari e dalla costrizione del lavoro; otium è il tempo vuoto (vacanza), aperto alle occupazioni gradite che fanno bene allo spirito; per esempio gli amati studi (otia) di cui schola (σχολή) è sinonimo.
Tra le incombenze obbliganti che schiacciano sotto il loro peso è compreso tutto ciò che ha a che fare con l’attività pubblica “Beatus ille qui procul negotiis” (Orazio, Epodo II): Felice colui che è lontano dagli affari; a distanza dall’esercizio dell’autorità e dal governo della città (polis) nella partecipazione attiva alla vita politica. La beatitudine intesa come assenza di affanni coincide con la tranquillità della vita dei campi solcati dagli aratri, ereditati dai padri.
Deus haec otia fecit” (Un dio ci ha dato questo tempo tranquillo) esulta Titiro (Virgilio, I Bucolica) che benedice colui che gli ha concesso un podere nelle campagne mantovane: qui, disteso all’ombra di un ampio faggio, fa risuonare i boschi al suono gentile del flauto.
Era la dimensione privata che si contrapponeva radicalmente alla compromissione pubblica con relativi onori e oneri: la lezione di vita si riassumeva nella massima epicurea: Vivi nascosto (“λάθε βιώσας, lathe biosas”), largamente presente nella tradizione dei proverbi latini e greci. “Bene vixit qui bene latuit” (Ovidio Tristia, 3): Bene ha vissuto chi bene ha saputo stare oscuro, rimanendo dentro i confini della propria buona sorte. Il nascondimento è stata ed è nei Santi una virtù cristiana, stretta parente dell’umiltà.
Superfluo dire che questo modo di stare al mondo evidentemente non è più di questo mondo ma risulta un orizzonte comportamentale e di pensieri lontanissimo dall’attuale sentire comune. La saggezza, quando non anche la felicità, secondo questa massima, consiste nel sottrarsi all’ostentazione, all’esserci e al mostrarsi, allo stare in prima fila e sotto i riflettori; istruisce a non attirare l’attenzione su di sé, a non cercare la visibilità; educa allo stare con sé stessi (Secum vivere, secum habitare) per trovare la giusta misura del vivere. Siamo proprio agli antipodi della mentalità corrente, in un Insanabile dissidio con lo stile di vita da cui oggi si fa derivare il successo (ma anche il tracollo) nelle biografie degli uomini e delle donne.
Insopprimibile appare l’aspirazione (cui può seguire una non improbabile frustrazione) di quasi tutti alla notorietà e al trovarsi almeno una volta nel mirino di una qualsiasi visibilità. Panico è essere accantonati, patimento l’anonimato, ferita narcisistica non comparire in video o in foto. Abbiamo i nostri selfie.
Non sappiamo dove porterà la percezione e l’esperienza di sé come persona disposta ad essere raggiunta da un occhio che tutto vede (panopticon) e rivela, togliendo il velo ad ogni piega e piaga della vita individuale e collettiva. Di sicuro bisognerà coniare nuovi proverbi, inventare nuovi detti e sentenze che aiutino a tracciare un cammino sapienziale nell’enigmatico presente. Per ora il dizionario delle massime postmoderne non c’è.
Forse per questo la nostra rubrica Aforismi si chiude con il mese di settembre 2020.

SUL FILO DEL TEMPO

Con questo racconto inizia un percorso della nostra Agenda Mese che si snoda sul filo delle stagioni e dei mesi, sul filo delle feste, sul filo del tempo, sul filo della storia. A segnare questo percorso saranno, come in questo caso, dei testi della scrittrice francese Sylvie Germain, o di altri autori contemporanei.

La lezione del passero

di Sylvie Germain

Il popolo degli uccelli è vasto, e tra di essi ce ne sono di maestosi. Il passero non appartiene certo all'assemblea dei «grandi»; pesa un nonnulla, il suo piumaggio è scialbo, il suo cinguettio discreto. Del resto gli uomini, nella loro perenne follia di grandezza e nella loro insaziabile sete di potenza, non hanno mai pensato di prendere quel banale uccellino come emblema dei loro regni e dei loro imperi. In compenso, le aquile abbondano sulle bandiere dei paesi conquistatori: con le ali aperte, l'occhio duro, il becco acuminato e gli artigli avidi, incutono soggezione!
Il passero non la incute per niente, ci fa invece sorridere con il suo saltellare incessante e in tutte le direzioni, intento a becchettare qua e là briciole. È buffo e grazioso, sembra un tantino insolente. Ma se lo guardiamo bene, non ci strappa sorrisi solo divertiti, ma soprattutto estasiati. Il suo corpo minuscolo esulta di leggerezza e di semplicità, è una strofa viva uscita dal poema del Creato e che modula gioiosamente l'aria della libertà.
Il nome francese del passero, moineau, deriva da moine, «monaco», poiché il suo piumaggio evoca il colore bruno della veste monacale, e «monaco» viene dal greco monakhós, dunque mónos, che significa «unico, solo». Il passero è una monade che svolazza con allegria tra il cielo e la terra, snocciolando il suo canto in note vivaci e tenui. «Il monaco orientale od occidentale è invitato a diventare "uno"», scrive Marie-Madeleine Davy. «Talvolta si smarrisce dedicandosi alla ricerca di un modello. Ora esso si offre di continuo al suo sguardo sotto forma di passero. A prima vista, niente di singolare nel passero, e tuttavia un'estrema originalità. Grazie a esso diventa possibile apprendere che ci si può differenziare dagli altri accedendo alla perfetta semplicità. Semplicità e nudità si accoppiano, direbbero i mistici».
Il passero, piccolo monaco dal saio francescano, non racimola solo quello che la natura o la gente gli lascia distrattamente a portata di becco, ma altrettanto distrattamente restituisce centuplicato quello che riceve, offrendo a tutti, a qualsiasi ora e in qualsiasi stagione, lo spettacolo della sua gioia. La gioia nuda di abitare la terra e il cielo, di bagnarsi nelle pozze di pioggia e nelle chiazze di sole, di svolazzare come gira il vento, di frequentare gli alberi e i cespugli che gli sembrano fitte foreste e rifugi incantati. La gioia pura di essere in vita, libero da ogni catena, senza pensare al domani – ma il domani è spesso duro, d'inverno. Senza pensare a se stesso né allo sguardo degli altri. Si accontenta di essere in armonia con il mondo. Non è niente, eppure il passero ci offre un'immensa lezione: come trasfigurare la sua povertà in festa, la sua vulnerabilità in grazia.

(Trad. di Maurizio Ferrara)

 

Sylvie Germain è una scrittrice intensa e “potente”, a cui non sfugge niente della realtà barbara e primitiva, nel senso più letterale, del mondo. Nelle sue opere sa tessere un legame molto forte e molto fecondo tra filosofia e immaginario (le è riconosciuta una parentela con Lévinas, che è stato suo maestro), tra fatalità e grazia, tra ragione e follia, che nasce da una visione della vita come un’avventura spirituale. La sua scrittura ha un colore onirico, che l’ha fatta apparentare a quella di Paul Claudel, in cui si fondono il visibile e l’invisibile e che procede per immagini, simboli e miti.

UN ANNO CON PINOCCHIO

Invito a una rilettura

di Gianni Gasparini

Un’indicazione opportuna, in tempi di smarrimento e incertezza come quelli che stiamo vivendo in modo acuto dal manifestarsi del problema del Coronavirus, credo sia quella di riprendere in mano i classici per rileggerli e riascoltarli, per farci ricordare da essi qualcosa che resti nel tempo.
I classici sono quei libri che continuano a parlarci anche se li abbiamo letti e riletti. Come ha scritto Calvino, “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”(1). Questo è anche, sicuramente, il caso delle Avventure di Pinocchio, il libro che Carlo Lorenzini – che firmava Collodi – pubblicò a puntate sul Giornale dei bambini tra il 1881 e il 1883, prima di uscire come volume presso l’editore Paggi di Firenze nel 1883. Un libro che in Italia tutti hanno letto o ascoltato da bambini, ma che spesso hanno dimenticato da adulti. Un libro che parla di una storia italiana ma che tutto il mondo ha compreso e apprezzato per la sua profondità e leggerezza insieme.
Collodi morì nel 1890, senza poter assistere allo straordinario successo del suo burattino, che già all’inizio del ‘900 aveva stampato diverse centinaia di migliaia di copie. Nel corso del XX secolo la diffusione del libro è stata veramente universale, con centinaia di traduzioni in tutti gli idiomi della terra: si tratta in effetti – in base ai dati disponibili della Fondazione Collodi – del libro più diffuso nel mondo dopo la Bibbia e il Corano. Il libro di Collodi sembrò all’inizio un’opera a sfondo pedagogico rivolta al mondo dei lettori giovani, “una bambinata”; ci vollero un po’ di anni perché ci si rendesse conto che si trattava di un classico tout court, di un capolavoro che parla a tutti – come testimonia la stessa quantità di traduzioni – e in cui si trova, se non proprio tutto, quasi tutto della condizione umana, a partire da quel rapporto critico e basilare rappresentato dalla relazione tra genitori e figli. Pietro Citati, decano dei critici italiani, alcuni anni fa non esitò ad affermare in una trasmissione televisiva che Pinocchio è uno dei più grandi capolavori della letteratura di tutti i tempi(2).
Un classico è, poi, un libro che suscita nel tempo non solo molteplici letture ma nuove interpretazioni da parte di altri autori: scritture, elaborazioni artistiche, opere teatrali, musicali e filmiche. Lo attesta, a proposito delle Avventure di Pinocchio, Giorgio Manganelli, in uno dei testi più acuti e originali che siano stati scritti nell’ultimo secolo sul personaggio collodiano. Osserva Manganelli che “Un grande libro genererà infiniti libri, e così a loro volta questi ultimi: né vi sarà mai l’ultimo”(3). È questo appunto il caso di Pinocchio, che da ben più di un secolo non smette di suscitare e ispirare a ripetizione letture, interpretazioni letterarie e saggistiche, illustrazioni, traduzioni cinematografiche anche fuorvianti come fu quella di Walt Disney negli anni ’40 del Novecento. Più recenti, significative riduzioni filmiche o televisive che vorrei citare sono quelle di Comencini, di Benigni e da ultimo (2019) di Garrone. A ben guardare, è stupefacente – a confronto anche con altri capolavori - la capacità generativa sviluppata dalla fiaba collodiana, la quale secondo un singolare suggerimento di Manganelli andrebbe commentata non tanto per le parole che vi si leggono ma per quelle che vi si nascondono o sono in esse travestite, aprendo a molteplici, innumerevoli significati.
Insomma, Pinocchio è un classico che racchiude in sé accenti e dimensioni archetipiche, tali da poter essere declinate e rese concrete anche oggi, in un contesto ben diverso da quello in cui venne concepito. Ma Pinocchio è anche moderno: come vedremo, il racconto, pur essendo nato in una società pre-industriale, si trova a suo agio per parecchi motivi nella società di oggi.
In questi mesi ci faremo accompagnare dunque dalla singolare fiaba di Collodi, che è ancora viva oggi e ci parla di temi, problemi e valori che sono ben presenti nella nostra condizione contemporanea.

 

(1) I. Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori 2015, p. 7.
(2) Intervento a “Che tempo che fa”, Rai 3, 6 giugno 2010.
(3) Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano 2002, p. 19.