Non si uccidono così anche le biblioteche?

26.10.2021 08:52
Foto di Foundry Co da Pixabay

"Niente al mondo può sostituire la materialità della pagina che si può tenere in mano, osservare in trasparenza, guardare nel contesto a cui appartiene, scoprendovi dettagli spesso decisivi". Sottolinea in particolare il caso della Biblioteca Universitaria di Pisa, l'articolo di Salvatore Settis su La Stampa del 26 ottobre 2021; ma è più in generale la denuncia dell'incomprensibile rigore che, a differenza di quanto accade per altre strutture, continua a ostacolare o impedire l'accesso a biblioteche e archivi, di cui ha vitale bisogno chi svolge attività di studio e di ricerca.

Come i musei e gli archivi, le biblioteche non sono solo luoghi di studio, ma di incontro, riflessione sul passato e progettazione del futuro. Hanno un ruolo culturale, civile e sociale che ne ha fatto, in una storia più che bimillenaria, l’ossatura portante della memoria storica, della trasmissione dei saperi, di una tradizione che sia «non adorare la cenere, ma custodire il fuoco» (Mahler). La pandemia ha inferto a questa antica consapevolezza un colpo mortale, e rischia di ridurre in cenere l’istituzione biblioteca.
Come ogni altro luogo pubblico, era giusto che biblioteche e archivi chiudessero le porte nei mesi di più duro lockdown; ma quando le norme per ristoranti, negozi, impianti sportivi e scuole si sono allentate, severe restrizioni sono rimaste per archivi e biblioteche, rendendone arduo l’accesso agli studiosi (italiani e non) che vi cercano alimento e ispirazione per i loro studi. Ancora oggi, in molte biblioteche i libri consultati vengono assoggettati a lunghe quarantene che ne impediscono la consultazione, ed è difficile capire perché, se sfogliare un libro lo rende pericoloso agli altri, la stessa cautela non venga applicata anche ai libri in vendita nelle librerie. Esattamente come è accaduto per mostre e musei chiusi per lunghissimi mesi mentre intanto riaprivano le gallerie di antiquari e mercanti d’arte.
Che cosa rende uno spazio, poniamo, di 50 mq innocuo se quel che contiene (libri o quadri) è in vendita, e rende pericoloso un altro spazio di identica metratura che in vendita non mette nulla? L’arte e la cultura, se di proprietà e uso pubblico, sono più soggette ai virus di quel che è commerciabile?
Due aspetti rendono il tema assai preoccupante. In primo luogo, le gravissime carenze di personale nelle biblioteche e negli archivi: un buco nero destinato a crescere per pensionamenti e altri eventi, se non si procederà prontamente a una massiccia campagna di nuove assunzioni, che allevierebbero la disoccupazione intellettuale diffusa, altro male di un Paese che non vuol bene a sé stesso. Il secondo aspetto è la retorica tecnologica.
Nei diciotto mesi difficilissimi che abbiamo (quasi) alle spalle chiunque faccia ricerca ha imparato a ricorrere con intensità inconsueta a libri, articoli e materiali di ricerca disponibili online. Ottima cosa, che resterà come uno dei pochi retaggi positivi della pandemia; ma che ha innescato la stolta mitologia secondo cui «tutto quel che serve» è online, e leggere sul proprio schermo un libro, un manoscritto, un documento varrebbe esattamente quanto prenderlo in mano in archivio o in biblioteca. Nulla di più falso; e non solo perché online si trova una minima parte del materiale conservato nei nostri archivi e biblioteche; ma anche perché quel che possiamo vedere «a schermo» non basta, specialmente quando si tratti di documenti d’archivio o di volumi a stampa antichi o preziosi (per esempio) per annotazioni a margine.
Niente al mondo può sostituire la materialità della pagina che si può tenere in mano, osservare in trasparenza, guardare nel contesto a cui appartiene, scoprendovi dettagli spesso decisivi. Il miraggio di una super-biblioteca digitale rischia di essere l’alibi per coprire carenze di personale e di fondi, ma solo chi non sa che cosa sia la ricerca storica può coltivare tali mitologie tecnologiche. Lasciar morire biblioteche e archivi sarebbe un disastro per gli studi e un gesto di incivile violenza che l’Italia non può compiere mai.
Per chiudere una biblioteca non c’è bisogno di appositi provvedimenti, che susciterebbero fastidiose critiche. Basta lasciarla morire, chiudendo gli occhi per non vederne la lenta agonia. A chiarirlo basti un esempio, la Biblioteca Universitaria di Pisa; cioè di una città con tre atenei (Università, Normale e Sant’Anna) e una costellazione di istituti di ricerca (Cnr e altro) di primaria grandezza. Con meno di 100.000 abitanti e più di 50.000 studenti. Ma la Biblioteca Universitaria, coi suoi 700.000 volumi, è chiusa dal 2012, nella generale indifferenza delle istituzioni.
Chiusa perché? Perché si constatarono, allora, alcune lesioni nel fabbricato storico che la ospita, il quattrocentesco Collegio della Sapienza, oggi sede di rappresentanza dell’Università. Le lesioni furono attribuite al terremoto dell’Emilia di pochi giorni prima, anche se non risulta che Pisa appartenga a quella regione. Ma ammettiamo pure che la causa delle lesioni sia quella e non una qualche incuria o mancata manutenzione: il fatto è che che l’edificio della Sapienza è stato restaurato e riaperto il 28 maggio 2018 in tutta la parte di pertinenza dell’Università ma non in quella dove è collocata la Biblioteca Universitaria (che è sotto l’ala del Ministero della Cultura).
Misteri dei ministeri: una biblioteca che si chiama Universitaria non ha dunque nulla a che fare con l’Università con cui condivide uno stesso edificio storico? Proprio così. La biblioteca pisana poco dopo l’Unità d’Italia fu elencata fra le «biblioteche di prima classe» del Regno a causa non solo della sua consistenza, ma anche del nesso storico con un’antica università. Ma dopo l’istituzione del ministero dei Beni culturali, oggi della Cultura (1975), la Biblioteca divenne di sua competenza, «separata in casa» dall’Università che le dà il nome e la storia. Dal 2012 a oggi la Biblioteca è chiusa, mentre una gran parte delle sue collezioni librarie emigrano verso altri lidi: prima nella stessa Pisa (complesso di San Matteo), poi a Lucca (Archivio di Stato), e ora anche a Piacenza, dove andranno migliaia di libri (due chilometri di scaffalature). Forse per riaffermare l’annessione di Pisa all’Emilia-Romagna come avvenne col terremoto?
La Biblioteca Universitaria di Pisa era fra le più celebri d’Italia, tappa obbligata del Grand Tour: basti ricordare Joseph Addison, che vi fu nel 1700 come ricorderà poi Ugo Foscolo. Ma sfogliando un bel libro di Fiammetta Sabba (Viaggi tra i libri. Le biblioteche italiane nella letteratura del Grand Tour, Serra Editore, 2018) si troverà traccia delle visite di eruditi francesi, tedeschi, svedesi, inglesi fra Sei e Settecento; nel 1820 Johann Scholz vide la Biblioteca arricchita di 40.000 manoscritti e libri dalle biblioteche dei conventi soppressi. È anche questa lunga storia che si sta soffocando senza scrupoli, per inerzia o incuria che sia. E mentre il personale (dimezzato) della Biblioteca si affanna a provarne l’esistenza in vita, un gruppo di «Amici della B. U. di Pisa» presieduto da Chiara Frugoni fa di tutto (finora invano) per trovare ascolto in alto loco. Non si uccidono così anche le biblioteche?

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