Gli afghani e noi. Non ripetere il passato.

17.08.2021 11:47

"Si ripresenta ... il dilemma di tante crisi: cercare di nuovo di strangolare gli oppressori – rafforzandone l’orgoglio e gravando ulteriormente sulla popolazione – o diventare complici passivi e indifferenti?". Una lucida analisi di Andrea Lavazza (Avvenire, 17 agosto 2021) sulle drammatiche vicende dell'Afghanistan.

Un’avanzata durata dieci giorni per ribaltare vent’anni di occupazione e di sostegno a una transizione alla democrazia. L’impietosa differenza temporale tra la ripresa dell’Afghanistan da parte dei taleban e gli sforzi dei Paesi occidentali impegnati nella coalizione che rovesciò il primo emirato dice molto sul Paese e sugli errori commessi in due decenni. Gran parte delle parole di circostanza che da lontano accompagnano il dramma che si sta consumando all’aeroporto e nelle vie di Kabul suonano purtroppo retoriche o addirittura in malafede. I leader politici delle nazioni che hanno ritirato le truppe seguendo, forse inevitabilmente, la decisione Usa non sembravano particolarmente preoccupati delle conseguenze, che pure avevano ben presenti, sugli assetti e sulle condizioni di vita del Paese lasciato senza più tutela.
Difficile nascondersi che nessun governo e nessun popolo vuol condurre una guerra senza fine o continuare a vedere i propri soldati cadere e spendere miliardi in operazioni di stabilizzazione senza orizzonte temporale definito. Con prospettive e modalità diverse, era la scelta già compiuta da Barack Obama, malamente concretizzata da Donald Trump e Joe Biden. Non si può dimenticare che l’invasione del 2001 fu motivata dalla volontà di annientare i santuari del terrorismo qaedista, capace dell’impensabile: abbattere le Torri gemelle a New York.
Quella era la missione, che presto poté anche trasformarsi in un’opportunità di ricostruire un Paese povero e segnato da conflitti e infine ingabbiato dal fondamentalismo degli 'studenti di teologia', vincitori perché in grado di imporre un po’ di 'normalità' al prezzo della più stretta e opprimente dottrina islamistica. In Afghanistan, si fece una guerra che costò molte vittime, anche civili, e gli occupanti certo non furono subito ben accolti dalla popolazione. In seguito, come gli italiani hanno saputo fare forse meglio di tutti, la presenza dei contingenti stranieri ha permesso di migliorare l’accesso alla scuola e alla sanità, ha restituito diritti alle donne, ha contribuito a rimettere in moto un processo politico aperto e trasparente.
Le prime elezioni democratiche – le presidenziali del 2004 e le legislative del 2005 – con un’alta affluenza considerate le circostanze (allora l’analfabetismo sfiorava il 70%) e quasi metà dell’elettorato femminile – sembrarono un commovente segnale e l’inizio di un cammino senza ritorno. Non era evidentemente così. In vent’anni è cresciuta una nuova generazione di afghani che in buona parte non ha esitato a schierarsi con il rinnovato movimento taleban. La società civile attiva, consapevole dei diritti conquistati, aperta al mondo è rimasta una minoranza, quella forse più visibile o forse quella che preferivamo vedere per convincerci in buona coscienza del risultato positivo della missione internazionale. Ora è la minoranza che più rischia con l’instaurazione del secondo emirato islamico e che, con qualche ragione, si sente tradita dalla frettolosa partenza delle forze occidentali.
Difendere i diritti umani, si dice ora. Chi non è d’accordo? Ma come fare? Che strumenti di pressione rimangono sul nuovo regime, una volta che si sono prese per buone le intenzioni, poi disattese, dei mullah nei negoziati in Qatar e le delegazioni civili sono ora in frettolosa fuga dopo il ritiro dei militari? La sinistra del Partito democratico Usa critica Biden per l’abbandono degli afghani al loro destino, ma in passato era contro la 'guerra imperialista'. Dobbiamo - e speriamo di riuscire a farlo - salvare le centinaia di collaboratori locali che si sono 'compromessi' con gli invasori. Ma non potremo che assistere impotenti allo strazio di decine di migliaia di persone che pregano per una possibilità di partire.E alla strage dei diritti di donne e bambini e credenti di altre religioni e di un islam diverso da quello dei jihadisti vincitori. Ci sarà tempo per riflettere su che cosa non ha funzionato in questi vent’anni; per quale motivo è così difficile convincere che il rispetto della libertà e della dignità di ciascuno sia compatibile con la propria fede e la propria tradizione. Oggi è necessario pensare politicamente come agire per evitare che i taleban riportino le lancette degli orologi al 2001, compreso il rischio terrorismo. Si dovrà decidere se isolare il nuovo Afghanistan, come accadde allora, quando solo tre Stati riconoscevano l’esecutivo in carica (Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi).
Proprio il Pakistan, da sempre tutore e sponsor degli 'studenti coranici', può essere l’obiettivo di azioni diplomatiche (e di eventuali pressioni, anche in forma di sanzioni) affinché spinga i nuovi padroni di Kabul alla moderazione. Non è poi escluso che la Cina, altra grande artefice della repentina riconquista islamica, voglia mantenere l’ordine e un minimo di presentabilità del regime appena insediato al fine di controllare a proprio favore gli equilibri nella regione. Si ripresenta, insomma, il dilemma di tante crisi: cercare di nuovo di strangolare gli oppressori – rafforzandone l’orgoglio e gravando ulteriormente sulla popolazione – o diventare complici passivi e indifferenti? Di certo, l’esperimento di esportazione sic et sempliciter della democrazia è fallito. Si tratta adesso di evitare che avanzi l’oscurantismo. E non sarà nemmeno questa un’impresa facile.

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