Lo studio della storia

26.02.2019 10:19

Due articoli sull'importanza dell'insegnamento della storia, e della storia moderna in particolare, che ci sembra importante riportare, al di là del motivo e dell'occasione per cui sono stati pubblicati da "La Repubblica". Si tratta di due interviste: la prima ad Andrea Zannini, ordinario di storia moderna all'Università di Udine che presenta il rischio estinzione per questa disciplina; la seconda la senatrice Liliana Segre che, rifacendosi anche alla sua drammatica esperienza, indica la necessità di conoscere la storia per orientarsi nel presente, ma anche per conoscere e valorizzare tutto il grande patrimonio artistico del nostro Paese.

Andrea Zannini: "Riprendiamoci lo studio della storia"
Simonetta Fiori, La Repubblica del 23 febbraio 2019

Proviamo a immaginare un’Italia senza la storia del Rinascimento. No, non è un esercizio di storia controfattuale, ma la fotografia di un Paese in cui si smetta di studiare la storia moderna, più o meno quell’arco temporale che va dalla scoperta dell’America al Congresso di Vienna. Ancora un piccolo sforzo: proviamo a immaginare che nelle università italiane non si insegnino più la Riforma o la Controriforma, la Rivoluzione francese o quella americana, e che in aula sia più facile imbattersi in un marziano che in un erede di Franco Venturi o Delio Cantimori.
Un romanzo distopico? No. È la previsione formulata da Andrea Zannini, ordinario di storia moderna a Udine: «Se la diminuzione degli storici dell’età moderna continua con il ritmo degli ultimi anni, nel 2031 non ci sarà più un docente in questa disciplina». Tra 22 anni, praticamente domani. La storia a rischio di estinzione?
Un segnale della sua irrilevanza è arrivato quattro mesi fa con la decisione del Miur di cancellare la traccia di storia nella prima prova scritta della maturità. Nella formazione degli studenti liceali – sancisce in sostanza il ministero dell’Istruzione e della ricerca – lo studio del passato perde centralità. Non è più una bussola prioritaria nel maremoto della contemporaneità. E all’università? Qui il furto della storia rischia di ingigantirsi. Tra docenti e ricercatori, negli ultimi due decenni c’è stato un tracollo di insegnamenti storici. I medievisti sono oggi 156: erano 240 nel 2001. I modernisti scendono da 368 a 225, mentre nello stesso periodo la storia contemporanea ha perso 89 professori (da 462 a 373).
«Ci siamo ridotti a una riserva indiana», sintetizza Emilio Gentile, uno dei grandi maestri di storia ora in pensione. «Quando arrivai alla Sapienza negli anni Ottanta, a Scienze Politiche c’erano otto cattedre di Storia contemporanea, tra cui quella di De Felice, Scoppola e De Rosa. Quando sono venuto via, nel 2011, ne era rimasta una sola». La contrazione è dovuta all’impoverimento delle risorse finanziarie, che vengono dirottate sui corsi di laurea più affollati come Economia ed Ingegneria. Da qui un mutamento di architettura complessiva che dal 2001 ha visto crescere a dismisura docenti economisti (da 3.896 a 4.862) e ingegneri industriali (da 4.340 a 5.530) a svantaggio di molte discipline umanistiche e soprattutto degli storici che complessivamente calano da 1070 a 754. Ma che cosa significa in termini civili e culturali la perdita di prestigio della storia? E quali conseguenze può provocare in un Paese invecchiato che già tende a guardare al passato in chiave nostalgica o mitizzata?
Se lo domandano anche negli Stati Uniti, dove il New Yorker registra un fenomeno analogo. In The Decline of Historical Thinking Eric Alterman racconta che, ad eccezione di cittadelle blasonate come Yale comunque garanti di un brillante futuro professionale, nei campus americani la storia tende a scivolare tra le materie neglette, a vantaggio di scienze, tecnologia, ingegneria, matematica. «Questo è comprensibile», ci spiega dal suo studio di Harvard il professor Charles S. Maier, decano degli storici americani. «La preoccupazione dei ragazzi – e soprattutto dei genitori che pagano i corsi – è di assicurarsi una carriera remunerativa, cosa che gli studi umanistici non sempre ti possono garantire». E se si preoccupano negli Stati Uniti, figuriamoci in un Paese in recessione come il nostro.
Ma l’ansia di un buon impiego da parte degli studenti basta a spiegare la marginalizzazione della storia? Sarà il caso di entrare in un territorio insidioso con una domanda un po’ antipatica: i professori sono ancora capaci di rendere affascinante lo studio del passato? Giovanni Gozzini, ordinario di Storia della globalizzazione a Siena e autore di fortunati manuali, non si sottrae alla questione. «Molti colleghi si comportano come le oche del Campidoglio, ma pochi hanno realmente maturato una svolta sul piano didattico: la storia dovrebbe essere trattata come una scienza applicata, non più come cenacolo per pochi eletti. Chi erano i barbari, i migranti di allora? E la persecuzione novecentesca cosa ha significato per la vita delle famiglie ebree? E non è vero che gli studenti siano più ignoranti: bisogna trovare le chiavi per portarli dalla tua parte». Anche Andrea Graziosi, lo storico che ha presieduto l’Agenzia della valutazione universitaria fino al 2018, pone il problema della qualità dell’insegnamento: «La nostra storiografia non è riuscita a reggere il passaggio dalle storie nazionali alle storie globali, come è successo altrove. E per ragazzi che vanno su Netflix e viaggiano per il mondo, non sono più sopportabili le lezioni sul Risorgimento in una prospettiva solo italiana».
Fin qui è chiaro. La storia ha perso potere accademico perché non garantisce carriere brillanti. E perché non sempre è insegnata in modo accattivante e aggiornato. Ma questa marginalità ne riflette un’altra, già testimoniata dalle criticabili scelte del nostro ministero sui temi della maturità: ovvero la crisi della funzione sociale della storia. Il professor Maier la sintetizza in questo modo: «Un tempo la conoscenza storica era, se non proprio la via maestra, almeno una sorta di bussola con cui il ceto colto formulava il proprio giudizio sulla contemporaneità, sulle leadership e sui processi. Oggi la storia non esercita più lo stesso ruolo». Al suo posto esiste una generica curiosità per il passato che però viene risolta spesso in chiave di intrattenimento: programmi televisivi, performance, romanzi che anche in Italia hanno grande successo. Ma c’è una differenza ragguardevole – ammonisce Gentile – tra una consapevolezza storica strutturata e il puro divertimento. Lo studioso ci porta un passo più avanti nella riflessione: secondo Gentile è in discussione la storicità come dimensione del mondo e dell’uomo, e questa crisi è legata al declino della civiltà europea. «È venuta meno la consapevolezza che il senso della storia non è stato sempre presente in tutte le civiltà ma è una conoscenza scientifica del passato che appartiene alla cultura europea fin dalla metà del Settecento. Se si perde questa consapevolezza, si perde anche il senso di cosa sia stata l’Europa per il resto del mondo. E ci si condanna a una marginalità coltivata attraverso micronazionalismi».
Ma se provassimo a rovesciare il ragionamento? Il declino del pensiero storico non potrebbe essere interpretato attraverso la crisi di una narrazione che mette sempre al centro l’Occidente? «Non direi», risponde dal suo studio di Oxford Peter Burke, autore di importanti saggi di storia culturale della conoscenza. «Alla crisi dell’egemonia occidentale l’ultima generazione di storici ha risposto allargando la prospettiva al resto del mondo». Quindi, se non è stato uno sguardo eccessivamente eurocentrico, che cosa ha contribuito a minare le fondamenta della disciplina? Il professor Maier invita a riflettere su un fenomeno ben esemplificato dalle leadership politiche italiana e statunitense. «Mi riferisco alla rivendicazione crescente secondo cui non esiste una verità storica, ma una verità sempre relativa e facilmente falsificabile. Naturalmente i racconti storici hanno sempre una prospettiva particolare e talvolta di parte. Ma ci sono storie buone e storie cattive. E la conoscenza storica richiede passione e determinazione nell’avvicinarsi il più possibile alla verità. Purtroppo i nostri mass media, troppo spesso i social media, e certamente i nostri rispettivi demagoghi spesso sviliscono queste premesse».
Le conseguenze civili non sono di poco conto. Chi ignora la storia è capace di svolgere un esercizio pieno della cittadinanza? «Una crisi internazionale del sapere storico potrebbe rappresentare un serio pericolo per le generazioni future di elettori», interviene Burke. E forse è in gioco il modo stesso di organizzare il pensiero, un tema che ha a che fare con la democrazia. «Un tempo», rileva Maier, «la struttura della conoscenza si articolava intorno a un racconto di eventi disposti in una sequenza temporale, mentre oggi la formula che ci permette di anticipare il futuro è un algoritmo. Riuscirà la storia a sopravvivere all’algoritmo?». Per evitare il naufragio, non ci resta che rimetterci a studiare il passato, anche per la prova di maturità. Anche perché «senza conoscenza della storia» sarà difficile «cogliere il senso del cambiamento». Ma i vertici ministeriali che decidono le sorti delle discipline avranno mai letto Marc Bloch? Anche questa è una domanda aperta.

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Liliana Segre: "Ministro, ci ripensi non rubiamo il passato ai ragazzi"
Simonetta Fiori, La Repubblica del 26 febbraio 2019

«Un esame di maturità senza la storia mi fa paura. Per questo chiederò al ministro Bussetti di ripensarci». A Liliana Segre proprio non va giù. Da quattro mesi dà battaglia per sapere come sia stato possibile che il Miur abbia soppresso la traccia storica dalla prima prova scritta della maturità. Si è anche fatta promotrice di un "affare assegnato" che in linguaggio tecnico vuol dire promuovere una piccola indagine — in questo caso affidata alla Commissione Cultura del Senato — per sapere da che cosa sia nata la decisione del ministero di cancellare la traccia storica. I lavori parlamentari non sono ancora cominciati. «E ora da cittadina ho chiesto un incontro con il ministro».

Cosa vuole dirgli?
«Vorrei capire il perché della soppressione della storia, che ritengo un atto molto grave. Io mi sono sempre occupata di memoria. Ma memoria e storia vanno insieme. Da trent’anni rendo testimonianza sulla Shoah nelle scuole, e vedo la fatica che talvolta fanno i professori per contestualizzare il mio racconto. Può capitare che nell’ultima classe delle superiori non si arrivi a svolgere l’intero programma e ci si fermi alla Grande Guerra. Invece sarebbe utile studiare i totalitarismi, i genocidi e la complessità di tutto il Secolo Breve».

Che cosa le fa più paura di questa cancellazione?
«Ormai gli ultimi testimoni dell’Olocausto stanno sparendo. Tra carnefici e vittime, siamo morti quasi tutti».

Perché dice "siamo"?
«Sono una voce che grida nel deserto dei morti. E cosa succederà quando non ci saremo più? La storia è sempre manipolabile. E, dopo che verranno meno gli ultimi sopravvissuti, la Shoah diventerà una riga nei libri di storia. E più tardi ancora, non ci sarà neppure quella. Ricorda 1984 di Orwell?».

La storia completamente riscritta dal Partito Unico. E gli slogan: "Chi controlla il passato controlla il futuro. E chi controlla il presente controlla il passato".
«Nessuno è riuscito a dirlo meglio dello scrittore inglese. E trovo assurdo che in tempi come i nostri — nel segno delle parole d’odio — il ministero dell’Istruzione sancisca la marginalità della storia. Devo confessare che, dinanzi alla decisione di cancellarne la traccia alla maturità, sono rimasta sbigottita ma non totalmente sorpresa: come se mi fosse arrivata la conferma triste di tanti segnali registrati negli ultimi anni. Le cose non arrivano mai di colpo, ma sono l’esito di lunghi processi».

Da senatrice ha avviato una sorta di indagine.
«Sì, "un affare assegnato" alla VII Commissione del Senato, ma i lavori sono ancora fermi. Ciascun gruppo ha indicato gli esperti e gli studiosi da ascoltare, ma le audizioni non sono state ancora calendarizzate. Capisco che ci siano delle priorità, ma sarebbe opportuno partire tempestivamente. Anche per arrivare in tempo per il prossimo anno scolastico: mi piacerebbe che la traccia di storia venisse ripristinata».

L’indagine accerterà le motivazioni della decisione ministeriale. Ma si conosce già la risposta del Miur.
«Ah certo, ci diranno che, negli ultimi otto anni, meno del 3 per cento degli studenti ha scelto la traccia storica. Troppo pochi».

Così hanno preferito sopprimere la traccia di storia, invece che chiedersi perché così pochi la scegliessero.
«È questo il punto. Non ci si pone il problema di come venga insegnata. I docenti sono ancora capaci di rendere affascinante lo studio del passato? Lo dico con grande rispetto per figure eroiche che in Italia non vedono riconosciuto il proprio ruolo. Che entusiasmo si può coltivare con una remunerazione che svilisce? Detto ciò, io mi imbatto spesso in professori molto bravi e nutro una gratitudine enorme per quello che riescono a fare».

È un problema anche di orari. Da quest’anno, nel biennio degli istituti professionali la disciplina è ridotta a un’ora settimanale.
«Ma che ci fai con un’ora di storia alla settimana? Forse che chi è destinato al mondo del lavoro debba rinunciare a una bussola fondamentale per orientarsi nel presente? Penso anche al rapporto con la città e con i propri monumenti. In Italia possediamo la più alta percentuale del patrimonio artistico mondiale e non siamo in grado di fornire agli studenti gli strumenti per capire questi capolavori. Tra un po’ passando davanti al Colosseo si penserà che sia un’opera pubblica incompiuta progettata quarant’anni fa».

Lei ha detto una volta: senza la storia non si diventa uomini.
«È quello che penso. L’ho anche sperimentato in prima persona. Io ho imparato molto dallo studio della storia».

A lei è capitato di essere fagocitata dalla storia prima ancora di studiarla.
«Questo è vero. Avevo tredici anni quando mi caricarono sul treno per Auschwitz. E della storia d’Italia sapevo poco. Avevo fatto in tempo a studiare Garibaldi, che l’iconografia patriottica mostrava accolto tra applausi nel Sud della penisola. Solo più tardi avrei conosciuto la complessità del Risorgimento».

Riprese gli studi storici dopo essere stata liberata. In che modo l’hanno aiutata a crescere?
«Da privatista feci cinque anni in uno, in un accumulo di nozioni e letture. Ma la storia mi appassionava in un modo speciale, forse perché mi mostrava in che modo la vita dei paesi e delle comunità potesse cambiare forma. Mi concentravo sull’Europa, sulle sue rivoluzioni e sulla formazioni degli Stati nazionali. Capivo perché i latini definissero la storia magistra vitae ».

Cercava di dare un senso alla sua esperienza ad Auschwitz?
«No, questo sarebbe accaduto più tardi. Nel dopoguerra ho cercato se non di dimenticare — questo è impossibile — certo di mettere da parte il lager. La resa dei conti anche storica sarebbe arrivata più tardi».

E dopo l’ha aiutata a capire?
«Ho approfondito sul piano delle conoscenze, ma non ho mai avuta la risposta che cercavo. Continuo a leggere moltissimi saggi sulla Shoah, ma la risposta continuo a non averla».

Alla campagna per lo studio della storia lei ha affiancato un’altra battaglia che è il disegno di legge contro le parole dell’odio. C’è una relazione?
«Sì, c’è un filo comune. Se si ammettono le parole dell’odio nel contesto pubblico, se si accoglie lo hate speech nella ritualità del quotidiano, si legittimano rapporti imbarbariti. Io l’odio l’ho visto. L’ho sofferto. E so dove può portare. Per questo vado a parlare con gli studenti. Gli racconto un passato figlio dell’odio e del rancore disumano e loro mi ascoltano con un’attenzione di cui non smetto di essergli grata».

Arriviamo così al paradosso: in realtà i ragazzi sono affamati di storia.
«Sì, semmai sono stati gli adulti a ridurla a merce d’antiquariato, inutile e fuori moda. Ecco, al ministro Bussetti vorrei riuscire a dire anche questo. Non rubiamo la storia ai nostri ragazzi. Ne hanno un immenso bisogno».